Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.26890 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2165/2014 proposto da:

FINCONSULT S.R.L., elettivamente domiciliato a Roma, piazza Borghese 3, presso lo studio dell’Avvocato PATRIZIA CRUDETTI e rappresentato e difeso dall’Avvocato SERGIO BROZZI per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

U.M., elettivamente domiciliato a Roma, via del Viminale 43, presso lo studio dell’Avvocato FABIO LORENZONI che, unitamente all’Avvocato STEFANO PAGLIERINI, lo rappresenta e difende per procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 491/2013 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, depositata il 16/4/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 16/05/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO.

FATTI DI CAUSA

Il tribunale di Rimini, con decreto emesso in data 25/7/2006, ha ingiunto a U.M. di pagare alla Finconsult s.r.l. la somma di Euro 21.000,00, oltre accessori, quale somma dovuta a titolo di mediazione per la vendita di un immobile sito a *****.

U.M., con atto notificato il 9/10/2006, ha proposto opposizione ed ha eccepito la prescrizione prevista dall’art. 2950 c.c., per essere decorso il termine di un anno dal 5/1/2004, vale a dire dalla data di stipulazione del contratto preliminare tra lo stesso U. e la venditrice P.A..

La Finconsult s.r.l., costituendosi nel giudizio di opposizione, ha replicato che il contratto preliminare era stato novato con un nuovo contratto, stipulato a mezzo di scrittura privata del 15/12/2005, e che da tale data doveva farsi decorrere il termine di prescrizione invocato dall’opponente.

Il tribunale di Rimini, con sentenza del 3/2/2009, ha accolto l’opposizione ed ha revocato il decreto ingiuntivo.

La Finconsult s.r.l., con atto notificato l’11/2/2010, ha proposto appello, deducendo che il termine non poteva decorrere dal 5/1/2004 dal momento che non risultava, con la relativa scrittura privata, concluso alcun contatto di compravendita tant’è che la P., pur accettando la proposta, non aveva ritirato l’assegno che lo corredava ed aveva, anzi, inviato una raccomandata con la quale, il 16/2/2004, dichiarava di recedere dal contratto. Soltanto a seguito dell’introduzione della causa per l’esecuzione in forma specifica promossa il 27/4/2005 dall’ U. innanzi al tribunale di Firenze ed a seguito di declaratoria di incompetenza territoriale del giudice, veniva trascritto il 29/12/2005, presso la Conservatoria di Firenze, un nuovo contratto preliminare di vendita, recante un prezzo inferiore a quello pattuito, sicchè solo da tale seconda scrittura poteva essere computato il termine annuale previsto dall’art. 2950 c.c..

L’ U. si è costituito chiedendo la conferma della sentenza appellata.

La corte d’appello di Bologna, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello.

La corte, in particolare, ha ritenuto che, ai fini del diritto alla provvigione, l’affare è risultato concluso con la stipulazione del contratto del 5/1/2004, “idoneo a fondare la pretesa di provvigione da parte di chi, pacificamente, aveva messo in contatto le due parti dell’affare”, tant’è vero che lo stesso mediatore, avendo ragguagliato l’entità della provvigione al 10h del prezzo pattuito, pari ad Euro 1.050.000,00, aveva avuto la precisa intenzione di far valere tale contratto. Ne consegue, ha osservato la corte, che, a fronte dell’affermata validità del primo atto a far ritenere concluso l’affare, la successiva scrittura contenente il contratto preliminare stipulato tra le stesse parti in data 15/12/2005, non può far decorrere alcun nuovo termine di prescrizione: “ogni diversa pattuizione anche intervenuta in forma transattiva tra i contraenti originari… risulta irrilevante dovendo la provvigione essere ragguagliata al valore dell’affare risultante dal primo contratto e valendo le pattuizioni intervenute tra i contraenti solo nei rapporti tra di loro e non già nei confronti di chi fece concludere l’affare”. Pertanto, ha concluso la corte, il termine di prescrizione decorre dalla data del primo contratto.

La Finconsult s.r.l., con ricorso notificato il 10.15/1/2014, ha chiesto, per tre motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

Ha resistito, con controricorso notificato il 12.14/2/2014, U.M. il quale ha anche depositato memoria.

LE RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Con il primo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1755 c.c., in relazione all’art. 1331 c.c., ai dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, pur avendo inteso confermare tout court la decisione del tribunale e pur avendo, quindi, aderito alla tesi per cui con la scrittura privata del 5/1/2004 si era formato tra le parti un patto di opzione, ha fatto nondimeno decorrere da quella data il termine per la prescrizione del diritto del mediatore alla provvigione, laddove, al contrario, la norma dell’art. 1755 c.c., non può essere interpretata nel senso che, per conclusione dell’affare, possa intendersi anche la stipulazione di un mero patto di opzione il quale, infatti, non facendo sorgere alcun vincolo giuridico che abiliti ciascuna delle parti ad agire per l’esecuzione in forma specifica del negozio o per il risarcimento del danno, non attribuisce al mediatore il diritto alla provvigione.

2. Il motivo è infondato. L’appello che la società ricorrente ha, a suo tempo, proposto, per come incontestatamente ricostruito nella sentenza impugnata, non ha, infatti, in alcun modo investito la questione della qualificazione dell’atto del 5/1/2004 come patto di opzione e della (asseritamente erronea) configurazione di tale patto come titolo idoneo ad attribuire al mediatore il diritto alla provvigione. Ed è noto che i motivi del ricorso per cassazione devono investire questioni che abbiano formato oggetto del thema decidendum del giudizio di secondo grado, come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti: in particolare, non possono riguardare nuove questioni di diritto se esse postulano indagini ed accertamenti in fatto non compiuti dal giudice del merito ed esorbitanti dai limiti funzionali del giudizio di legittimità (Cass. n. 16742 del 2005; Cass. n. 22154 del 2004; Cass. n. 2967 del 2001). Pertanto, secondo il costante insegnamento di questa Corte (cfr. Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 6542 del 2004), qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa: ciò che, nella specie, non risulta essere accaduto.

3.Con il secondo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione dell’art. 132 c.p.c., con nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, limitandosi a confermare il primo giudizio, ha reso una motivazione sostanzialmente per relationem, senza, tuttavia, esprimere, in modo appagante e corretto, le ragioni della conferma della pronuncia appellata, in relazione ai motivi dell’impugnazione proposta, con particolare riguardo al motivo n. 3, con la conseguenza che la sentenza, in quanto priva di motivazione, è nulla a norma dell’art. 132 c.p.c.. La ricorrente, inoltre, lamentando l’omesso esame circa il fatto decisivo della conclusione o meno dell’affare alla data del 5/1/2004, ai dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dando per pacifica la conclusione dell’affare il 5/1/2004, ha omesso di esprimersi in ordine alla questione controversa se tale conclusione fosse da identificarsi con la stipula del contratto di opzione o di un contratto preliminare di compravendita.

4. Il motivo, in tutte le censure in cui è articolato, non è fondato. Intanto, va ribadito che, nel giudizio di legittimità, il ricorrente che censuri la violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quali quelle processuali, deve specificare, ai fini del rispetto del principio di autosufficienza, gli elementi fattuali in concreto condizionanti gli ambiti di operatività della violazione (Cass. n. 9888 del 2016; Cass. n. 9568 del 2017). Nel caso in esame, invece, la ricorrente non ha riportato per estremi essenziali ovvero trascritto quelle parti dell’atto di appello necessarie a dimostrare la proposizione, già nell’atto introduttivo del gravame, dei motivi (ed, in particolare, del motivo n. 3) che la corte d’appello, a suo dire, non avrebbe esaminato in modo appagante e corretto. Quanto, invece, al vizio di motivazione, la Corte evidenzia che la sentenza impugnata, in quanto depositata dopo 1’11/9/2012, è assoggettata all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore successivamente alle modifiche apportate dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito con modificazioni con la L. n. 134 del 2012, a norma del quale la sentenza del giudice d’appello può essere impugnata con ricorso per cassazione solo in caso omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ed è noto come, secondo le Sezioni Unite (Cass. n. 8053 del 2014), tale norma consente di denunciare in cassazione solo l’anomalia motivazionale che relativamente al solo giudizio di fatto (configurandosi i vizi inerenti al giudizio di diritto come errori in iudicando, censurabili ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, mentre, se riguardano propriamente la relativa motivazione, non danno luogo alla cassazione della sentenza ma solo alla sua correzione ex art. 384 c.p.c., u.c.) – si tramuta in una violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi, che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza, in cui tale anomalia si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione), al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo come omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 23940 del 2017; Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 7472 del 2017). Nel caso di specie, la corte d’appello ha chiaramente e coerentemente spiegato le ragioni per le quali, come visto, ha ritenuto che, ai fini del diritto alla provvigione, l’affare doveva ritenersi concluso già con la stipulazione del contratto del 5/1/2004, come tale “idoneo a fondare la pretesa di provvigione da parte di chi, pacificamente, aveva messo in contatto le due parti dell’affare”, evidenziando, in particolare, che lo stesso mediatore, avendo ragguagliato l’entità della provvigione al 10% del prezzo pattuito, pari ad Euro 1.050.000,00, aveva avuto la precisa intenzione di far valere proprio tale contratto. Deve, pertanto, senz’altro escludersi che la sentenza impugnata sia inficiata tanto dal vizio, in effetti neppure dedotto, della “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, della “motivazione apparente”, del “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” ovvero della “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, quanto da quello dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.

5. Con il terzo motivo, la ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che, con la scrittura privata del 5/1/2004, le parti abbiano stipulato un contratto preliminare di compravendita, in tal modo dissentendo da quanto ritenuto sul punto dal tribunale il quale, infatti, aderendo alla prospettazione dell’ U., aveva ritenuto che, con la predetta scrittura, si era formato tra le parti non un contratto preliminare ma un mero patto di opzione. La tesi dell’ U., esplicitamente esaminata e rigettata dal tribunale, non è stata, tuttavia, oggetto di appello incidentale da parte dello stesso nè è stata riproposta nel corso del giudizio di appello. L’ U., infatti, rimasto parzialmente soccombente in ordine al punto dell’esistenza o meno di un contratto preliminare di compravendita alla data del 5/1/2004, quale premessa indefettibile dell’eccezione di prescrizione proposta, aveva l’onere, ha osservato la ricorrente, di proporre appello incidentale o, quanto meno, di provocare il riesame dell’eccezione. L’appellato, nella comparsa di costituzione in appello, si è limitato, invece, ad allinearsi agli argomenti ed alle conclusioni del tribunale, e cioè che fosse stato stipulato un mero patto di opzione. Formatosi, dunque, sul punto il giudicato interno, non era consentito alla corte d’appello, ha concluso la ricorrente, di discostarsene per adottare una ricostruzione del fatto in termini diversi da quelli ormai definiti, e cioè del patto di opzione, ed ha, quindi, violato l’art. 346 c.p.c..

6. Il motivo è infondato. Intanto, non si vede l’interesse che la ricorrente avrebbe alla censura in questione: se, infatti, fosse davvero calato il giudicato interno sulla qualificazione come patto di opzione del contratto stipulato il 5/1/2004 – che pure, come incontestatamente accertato dalla corte d’appello, è stato dedotto dalla società istante come fatto costitutivo del suo diritto alla provvigione – la domanda dalla stessa proposta sarebbe inevitabilmente destinata, nel merito, al rigetto: invero, la stipula di un patto di opzione, nel quale vi sono due parti che convengono che una di esse resti vincolata dalla propria dichiarazione mentre l’altra rimanga libera di accettarla o meno, non fa sorgere un vincolo giuridico che abiliti ciascuna delle parti ad agire per l’esecuzione specifica del negozio o per il risarcimento del danno, con la conseguenza che non matura il diritto del mediatore alla provvigione (Cass. n. 24445 del 2011). La corte d’appello, del resto, si è limitata a ritenere che, ai fini del diritto alla provvigione, l’affare è risultato concluso con la stipulazione del contratto del 5/1/2004, in quanto “idoneo a fondare la pretesa di provvigione da parte di chi, pacificamente, aveva messo in contatto le due parti dell’affare”, senza, tuttavia, procedere in alcun modo ad una precisa qualificazione giuridica dello stesso in termini di contratto preliminare di compravendita o di patto di opzione. Il giudicato, del resto, si determina solo su una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico – suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia, sicchè, pur se ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di appello, nondimeno l’appello motivato con riguardo ad uno soltanto degli elementi di quella statuizione riapre la cognizione sull’intera questione che essa identifica, così espandendo nuovamente il potere del giudice di riconsiderarla e riqualificarla anche relativamente agli aspetti che, sebbene ad essa coessenziali, non siano stati singolarmente coinvolti, neppure in via implicita, dal motivo di gravame (Cass. n. 12202 del 2017; Cass. n. 2217 del 2016). Nel caso di specie, come emerge dalla sentenza impugnata, la Finconsult ha censurato la pronuncia di primo grado nella parte in cui il tribunale ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto alla provvigione decorresse dal 5/1/2004, laddove, in realtà, con tale scrittura non risultava concluso alcun contratto di compravendita: e tale impugnazione, pur non investendo espressamente il profilo della qualificazione del contratto in termine di preliminare o di opzione, ha riaperto la cognizione della corte d’appello sull’intera statuizione, compresa, in ipotesi, la questione della qualificazione del contratto.

7. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

8. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

9. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rimborsare al controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre SG per il 15% ed accessori di legge. Dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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