Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.26893 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

(ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.) sul ricorso (iscritto al N.R.G. 20705/14) proposto da:

M.C., (C.F.: *****), rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall’Avv. M. Irene Dore ed elettivamente domiciliata presso lo studio dell’Avv. Marcello Frediani, in Roma, v. Gallonio, n. 18;

– ricorrente –

contro

MA.GI.AN., (C.F.: *****), rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Fausto Serra e domiciliata “ex lege” presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione, in Roma, piazza Cavour;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Cagliari n. 319/2014, depositata il 16 maggio 2014 (notificata il 30 maggio 2014).

RILEVATO IN FATTO

Con sentenza n. 2810/2012 il Tribunale di Cagliari, decidendo sulla domanda “negatoria servitutis” proposta da Ma.Gi.An. nei confronti di S.E. e M.C. (che, a loro volta, formulavano domanda riconvenzionale per il riconoscimento della contestata servitù di passaggio sul fondo dell’attrice, sito in *****, a titolo di usucapione), rigettava la domanda principale ed accoglieva quella avanzata in via riconvenzionale dai convenuti.

Decidendo sull’appello proposto dall’attrice soccombente e nella costituzione delle parti appellate, la Corte di appello di Cagliari, con sentenza n. 319/2014 (pubblicata il 16 maggio 2014), accoglieva il gravame e, per l’effetto, in riforma dell’impugnata sentenza di primo grado, dichiarava che le appellate M.C. (in proprio e quale erede di S.E.) e S.M.L. non erano titolari del preteso diritto di servitù di passaggio (non potendosi configurare l’esercizio di un possesso “ad usucapionem” della reclamata servitù, siccome priva del requisito dell’apparenza), ordinando alle stesse la cessazione di ogni inerente attività e l’eliminazione di opere illegittime costruite “in loco”, oltre a condannare le medesime alla rifusione delle spese del doppio grado.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione M.C., in proprio e quale erede della figlia S.M.L., articolato in due motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata Ma.Gi.An..

2. Con il primo motivo la ricorrente ha dedotto la supposta violazione dell’art. 112 c.p.c., rappresentando che la Corte cagliaritana, con l’impugnata sentenza e per effetto dell’erroneo apprezzamento degli atti giudiziari, aveva errato anche nella ricostruzione dell’effettivo contenuto di detti atti ed aveva basato la sua decisione sull’affermazione secondo cui le parti appellate aveva agito ritenendo di esercitare il passaggio non su un terreno di proprietà dell’appellante, ma su un terreno di proprietà comunale.

3. Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato un vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, essendosi la Corte territoriale limitata ad asserire che le appellate non avrebbero potuto sostenere di essere titolari di un servitù di passaggio sul terreno di proprietà della Ma., in quanto avevano esercitato tale attività nella convinzione di transitare su una pubblica via.

4. Rileva il collegio che il primo motivo è del tutto privo di fondamento perchè con esso la ricorrente ha inteso dedurre un vizio motivazionale attinente alla “ratio decidendi” sul quale la Corte di appello ha affermato il suo convincimento per pervenire al rigetto della domanda riconvenzionale di usucapione accolta all’esito del giudizio di primo grado, senza, perciò, che si versi propriamente come invece prospettato dalla difesa della M.C. – nella violazione dell’art. 112 c.p.c., riferita al mancato rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ovvero alla configurazione di un vizio di extrapetizione o ultrapetizione in cui sarebbe incorsa la Corte sarda.

Come emerge palesemente dallo svolgimento della censura la ricorrente ha contestato l’impugnata sentenza sul presupposto che la Corte territoriale avesse errato nell’apprezzamento degli atti acquisiti in giudizio e sulla individuazione della natura giuridica del terreno sul quale sarebbe stata esercitata la servitù, obliterando la valutazione di alcune circostanze (v. pagg. 9 e 10 del ricorso), ma, in tal modo, ha inteso – inammissibilmente – porre in discussione il percorso logico-argomentativo adottato dal giudice di secondo grado per avvalorare l’esito raggiunto per la risoluzione nel merito della controversia, dal momento che tale doglianza avrebbe dovuto essere dedotta in riferimento al vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (cfr. Cass., S.U. n. 17931/2013 e Cass. n. 10862/2018, ord.), il quale, oltretutto, a seguito della sua riformulazione per effetto dell’intervento novellatore del 2012 (applicabile “ratione temporis” nel caso di specie, poichè la sentenza impugnata risulta pubblicata successivamente all’il settembre 2012), può essere rivolto solo all’omesso esame di un fatto decisivo della controversia che abbia costituito oggetto di discussione fra le parti.

5. Il secondo motivo è propriamente inammissibile perchè – con esso – è stato prospettato un vizio di motivazione (siccome ritenuta insufficiente e contraddittoria su un punto decisivo della controversia) secondo l’antecedente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), non più applicabile, come già evidenziato, “ratione temporis” nella fattispecie.

Infatti, in seguito alla riformulazione del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54,conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia (cfr., per tutte, Cass. S.U. n. 8053/2014 e Cass. n. 23940/2017).

6. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere integralmente respinto, con la conseguente condanna della ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese e competenze della presente fase, liquidate – in relazione alla natura dell’attività difensiva svolta ed in ragione del valore della controversia – nei termini di cui in dispositivo.

Non può trovare luogo, invece, in questa l’attestazione della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della stessa ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, poichè essa risulta essere stata ammessa al gratuito patrocinio.

P.Q.M.

La Corte rigetta ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessive Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario al 15%, Iva e Cpa nella misura e sulle voci come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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