Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.27347 del 29/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21422-2016 proposto da:

A.G., + ALTRI OMESSI, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio dell’avvocato FABRIZIO PROIETTI, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 1.364/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositate il 31/08/2015, R.G.n. 1914/2011 V.G., Cron.n. 2647/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/05/2018 dal Consigliere LORENZO ORILIA.

RITENUTO IN FATTO

1 La Corte d’appello di Perugia, con decreto 31.8.2015, ha dichiarato inammissibile la domanda proposta da A.G. e altri ricorrenti contro il Ministero dell’Economia e delle Finanze per ottenere l’equa riparazione ai sensi della L. n. 89 del 2001in relazione alla durata irragionevole di un giudizio da essi promosso nel maggio del 1994 davanti al TAR Lazio per pagamento di differenze economiche a titolo di arretrati maturate e non percepite, spettanti in applicazione della L. n. 23 del 1993.

Per giungere a tale conclusione, la Corte territoriale, considerato che il giudizio amministrativo si era concluso con decreto di perenzione divenuto definitivo in data 23.12.2006 (cioè dopo sessanta giorni dalla comunicazione alle parti L. n. 205 del 2000, ex art. 9, comma 1 applicabile ratione temporis), ha rilevato che la domanda di equa riparazione era stata proposta in data 6.6.2008, quindi oltre il termine di decadenza di sei mesi (nel decreto è scritto sessanta giorni, ma trattasi un mero refuso, ndr) previsto dalla L. n. 89 del 2001, art. 4.

2 L’ A. e gli altri ricorrenti in epigrafe indicati hanno chiesto la cassazione di tale decreto sulla base di due motivi, contrastati con controricorso dal Ministero dell’Economia e delle Finanze.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.1 Con il primo motivo si lamenta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti: la Corte d’Appello avrebbe errato nell’affermare che il decreto di perenzione era divenuto definitivo perchè esso non risultava comunicato alle parti (dalla documentazione rilasciata dal TAR risultava solo la prova dell’avvenuta trasmissione).

1.2 Con il secondo motivo si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. n. 205 del 2000, art. 9, commi 1 e 2 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cpc. Si sostiene che l’avviso di perenzione previsto dalla citata norma (con cui si fa onere alle parti di presentare nuova istanza di fissazione di udienza) era stato spedito con modalità non consentite, perchè la legge prescrive la notificazione mentre nel caso in esame si trattava di una mera comunicazione. Si sofferma sulla differenza tra comunicazione e notificazione e ritiene che l’avviso di perenzione non è stato portato a conoscenza del difensore, con l’ulteriore conseguenza che il decreto di perenzione deve ritenersi nullo.

2. Il primo motivo è fondato.

Contrariamente a quanto dato per scontato dalla Corte d’Appello, il decreto di perenzione del 23.10.2006 non risulta comunicato alle parti, ma reca solo l’attestazione di trasmissione del direttore della Segreteria del TAR Lazio alla difesa dei ricorrenti e all’Avvocatura dello Stato (v. timbro apposto in alto a sinistra alla copia trascritta integralmente nel ricorso a pag. 17): non risulta quindi alcuna prova del perfezionamento della comunicazione di tale decreto perchè la ricevuta di ritorno che pure si rinviene in atti (e trascritta nel ricorso a pag. 15) è del 2005 e quindi non può certamente riferirsi a un decreto di perenzione intervenuto, come si è detto, nell’ottobre 2006, cioè un anno dopo.

Ed allora, in mancanza della prova del perfezionamento della comunicazione del decreto di perenzione – che neppure il Ministero delle Finanze ha fornito benchè ne avesse tutto l’interesse – non poteva la Corte d’Appello sancire la definitività dello stesso: infatti, la L. n. 1034 del 1971, art. 26, u.c. (ratione temporis applicabile), consentendo l’opposizione nel termine di sessanta giorni “dalla comunicazione”, stabilisce implicitamente che il decreto di perenzione diventa definitivo in assenza di opposizione, purchè sia decorso tale termine (sessanta giorni “dalla comunione”, si ripete).

Va dunque cassato il decreto della Corte territoriale per avere erroneamente dichiarato la tardività della domanda di equa riparazione, perchè al momento della sua proposizione il decreto di perenzione che aveva posto fine al giudizio presupposto non era ancora divenuto definitivo.

La mancanza di un decreto di perenzione munito di definitività rende logicamente superflua ogni considerazione sulla applicabilità ai giudizi in corso della L. n. 89 del 2001, art. 2, comma 2-sexies, introdotto dalla L. n. 208 del 2015, art. 1,comma 777, Disposizioni per la formazione del bilancio manuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016) secondo cui si presume insussistente il pregiudizio da irragionevole durata, salvo prova contraria, nel caso di perenzione del ricorso (v. lett. d).

Resta logicamente assorbito anche l’esame del secondo motivo sulla regolarità dell’avviso di perenzione.

3 Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto la Corte di Cassazione può decidere nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2 e pertanto riconosce solo due anni di irragionevole durata del giudizio presupposto, secondo il parametro solitamente adottato per i ricorsi collettivi di Euro 500,00 annui per ciascun ricorrente.

Considerato infatti che il giudizio amministrativo della cui durata si dolgono i ricorrenti rientra nel filone di quelli introdotti da appartenenti alle forze armate nei quali è stata prospettata una questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, poi dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale, trova applicazione il principio di diritto secondo cui in tema di equa riparazione per irragionevole durata del processo, la parte del giudizio presupposto che, a fondamento della domanda ivi svolta, abbia posto una questione di legittimità costituzionale della disciplina applicabile, poi dichiarata manifestamente infondata dalla Consulta, ha diritto ad essere indennizzata, nel concorso delle condizioni cui l’indennizzo è subordinato, limitatamente al segmento processuale svoltosi anteriormente alla dichiarazione di non fondatezza della questione, ma non anche per l’ulteriore protrazione del giudizio “a quo”, trattandosi di evenienza non suscettibile di determinare alcun patema d’animo in ordine al suo esito (v. Sez. 6 – 2, Sentenza n. 24743 del 05/12/2016 Rv. 641910; Sez. 6 – 2, Sentenza n. 11828 del 08/06/2015 Rv. 635598; Sez. 2, Sentenza n. 19478 del 2014 non massimata).

Nel caso di specie il giudizio presupposto è stato introdotto il 27.5.1994, mentre l’ordinanza n. 331/1999 della Corte Costituzionale è stata pubblicata il 20.7.1999 sicchè, detraendo da tale segmento temporale un periodo di tre anni di ragionevole durata (dal 27.5.1994 maggio 1994 al 27.5.1997), residua un periodo di circa due anni di irragionevole durata che va dal giugno 1997 alla data di pubblicazione dell’ordinanza della Corte Costituzionale.

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze va pertanto condannato a pagare a ciascun ricorrente la somma di Euro 1000,00 oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo.

Le spese (sia quelle del giudizio di merito che quelle del presente giudizio di legittimità) vanno regolate secondo il principio della soccombenza e, quindi, poste a carico del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

PQM

accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo; cassa il decreto impugnato in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento, in favore di ciascun ricorrente, della somma di Euro 1000,00 oltre interessi legali dalla domanda al soddisfo; condanna altresì il predetto Ministero al pagamento delle spese del giudizio di merito che liquida in Euro 1.200,00 oltre spese generali e di quelle del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.500,00 oltre spese generali.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018

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