LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso n. 27687/2016 R.G. proposto da:
C.T., – c.f. ***** – elettivamente domiciliato in Roma, alla via di San Valentino, n. 21, presso lo studio dell’avvocato professor Francesco Carbonetti e dell’avvocato Roberto Della Vecchia che congiuntamente e disgiuntamente lo rappresentano e difendono in virtù di procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
COMMISSIONE NAZIONALE, per le SOCIETA’ e la BORSA (“Consob”) – c.f.
***** – in persona del presidente e legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa congiuntamente e disgiuntamente in virtù di procura speciale a margine del controricorso dagli avvocati Salvatore Providenti, Gianfranco Randisi ed Elisabetta Cappariello ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via G. B.
Martini, n. 3, presso la propria sede;
– controricorrente –
avverso il decreto della corte d’appello di Firenze n. 689 del 22.1/27.4.2016;
udita la relazione della causa svolta all’udienza pubblica del 12 giugno 2018 dal consigliere dott. Luigi Abete;
udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale Dott. MISTRI Corrado, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso, in subordine per il rigetto;
udito l’avvocato Roberto Della Vecchia per il ricorrente;
udito l’avvocato Elisabetta Cappariello per la controricorrente.
FATTI DI CAUSA
Nel corso dell’anno 2012 la “Consob” avviava un’indagine onde acquisire riscontro delle fonti di finanziamento utilizzate dalla “Banca Monte dei Paschi di Siena” s.p.a. ai fini dell’acquisto, da “Banco Santander” s.a., del 100% delle azioni di “Banca Antoveneta” s.p.a., in particolare con riferimento alle modalità di aumento del capitale sociale riservato alla banca americana “JP Morgan Chase”.
Con delibera n. 18924 del 21.5.2014 la “Consob” irrogava a C.T., consigliere di amministrazione della “Banca Monte dei Paschi di Siena” s.p.a. dal 29.4.2009 al 22.10.2013, la sanzione pecuniaria di Euro 50.000,00 per la violazione di cui al D.Lgs. n. 58 del 1998, artt. 94 e 113, segnatamente:
1) per la mancata rappresentazione nei prospetti di base che hanno incorporato i documenti di registrazione 2008, 2009, 2010, 2011 e 2012, delle informazioni concernenti la sottoscrizione da parte della “Fondazione Monte dei Paschi di Siena” di contratti derivati total return swap (cd. “Tror”), a loro volta funzionali alla sottoscrizione di circa il 49% dei titoli cd. “Fresh 2008”, emessi da Bank of New York contestualmente all’aumento di capitale effettuato dalla “Banca M.P.S.” nel 2008 e collegati alle azioni della “Banca M.P.S.” emesse nell’ambito della tranche dell’aumento di capitale 2008 riservata alla sottoscrizione di “JP Morgan”;
4) per l’erronea contabilizzazione nei bilanci 2008, 2009, 2010 e 2011 di talune operazioni (“*****”, “*****” e “*****”), corrette con il restatemene di tali bilanci del 6.2.2013, che si riverbera sul contenuto dei prospetti di base che incorporano i documenti di registrazione 2009, 2010, 2011 e 2012 per effetto dell’incorporation by reference negli stessi dell’informativa finanziaria relativa agli esercizi precedenti.
Con ricorso notificato il 20.6.2014 C.T. proponeva opposizione innanzi alla corte d’appello di Firenze ai sensi dell’art. 195, comma 4, t.u.f..
Chiedeva che l’adita corte dichiarasse nullo, annullasse ovvero dichiarasse inefficace il provvedimento sanzionatorio; in subordine, che facesse luogo alla riduzione della sanzione nella misura ritenuta di giustizia.
Si costituiva la “Consob”.
Instava per il rigetto dell’avversa opposizione.
All’esito d’udienza, tenuta in forma pubblica, con decreto n. 689 dei 22.1/27.4.2016 l’adita corte rigettava l’opposizione e condannava l’opponente a rimborsare a controparte le spese di lite.
Avverso tale decreto ha proposto ricorso C.T.; ne ha chiesto sulla scorta di undici motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione in ordine alle spese.
La “Consob” ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal ricorrente e quindi dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione del principio del favor rei in relazione all’art. 191, comma 2 bis, art. 192 ter, comma 2 bis, e art. 190 bis t.u.f., come modificati dal D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72.
Deduce che alla stregua della disciplina sopravvenuta le violazioni imputategli sono da ascrivere all’intermediario ed al contempo che non sussistono i presupposti perchè ex art. 190 bis, comma 1, lett. a), t.u.f. gli possano essere addebitate.
Deduce altresì che alla luce dei criteri enunciati dalla Corte E.D.U. la sanzione irrogatagli ha natura sostanzialmente penale.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia inoltre, qualora si neghi l’applicazione del principio del favor rei, l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, per contrasto con l’art. 3 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui non prevede l’applicazione del principio del favor rei con riferimento alle sanzioni amministrative – sostanzialmente penali – irrogate antecedentemente all’entrata in vigore dello stesso D.Lgs. n. 72 del 2015.
Deduce in particolare che è patente la violazione dell’art. 3 Cost.; che invero il principio del favor rei è espressamente sancito in settori dell’ordinamento contigui a quello de quo agitur.
Deduce infine che l’irragionevolezza della scelta legislativa espressa dal D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, è viepiù manifesta alla luce delle indicazioni di cui alla legge – delega.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione in relazione al procedimento di opposizione al provvedimento sanzionatorio dei principi del “giusto processo” ex art. 6 C.E.D.U..
Denuncia ancora l’illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, per contrasto con l’art. 3 Cost., e art. 117 Cost., comma 1, nella parte in cui si limita a prevedere, per i giudizi ex art. 195 t.u.f. pendenti alla data di entrata in vigore dello stesso D.Lgs., che le udienze sono pubbliche.
Deduce che il carattere pubblico dell’udienza non vale di per sè a garantire il rispetto dei principi del “giusto processo”.
Deduce segnatamente che permane impregiudicata, tanto più in considerazione della natura sostanzialmente penale delle sanzioni irrogate, la inidoneità del rito ex art. 195, comma 7, t.u.f. ad assicurare l’esigenza che la prova si formi dinanzi ad un giudice terzo ed imparziale nel pieno rispetto del principio del contraddittorio e della “parità delle armi”, sì da porre rimedio “ai vizi della fase amministrativa, svolta in violazione dei principi del giusto procedimento” (così ricorso, pag. 42).
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato in dipendenza dell’illegittimità del provvedimento sanzionatorio, siccome a sua volta assunto in violazione dei principi del contraddittorio, della conoscenza degli atti istruttori e della distinzione tra funzioni istruttorie e decisorie di cui all’art. 195, comma 2, t.u.f. e di cui alla L. n. 262 del 2005, art. 24, comma 1.
Deduce che il procedimento sanzionatorio amministrativo innanzi alla “Consob” non rispetta i principi, di imprescindibile applicazione, del “giusto procedimento”; che in ogni caso nell’ambito del procedimento sanzionatorio amministrativo “non è stato posto in condizioni di difendersi” (così ricorso, pagg. 51 – 52).
Deduce altresì che non appare soddisfacente una ricostruzione che “legittimi un procedimento amministrativo “ingiusto” a fronte di un (eventuale) processo di opposizione “giusto”, in funzione riparatoria” (così ricorso, pag. 63).
Con il quarto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato per violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, della L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 2, e dell’art. 195, comma 1, t.u.f..
Deduce che, ai fini della individuazione dei soggetti asseritamente responsabili, la motivazione del provvedimento sanzionatorio è del tutto irragionevole.
Deduce in particolare che al direttore generale della “Banca Monte dei Paschi di Siena” s.p.a., V.A., “certamente protagonista dei fatti sanzionati” (così ricorso, pag. 74), non sono state ascritte analoghe violazioni.
Con il quinto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato per violazione dell’art. 191, comma 2, t.u.f. e della L. n. 689 del 1981, art. 2.
Deduce che la sanzione inflittagli gli è stata irrogata a titolo di pretesa “omessa vigilanza”; che nondimeno l’art. 191, comma 2, t.u.f., “che prevede la sanzione amministrativa per la violazione degli articoli di cui si contesta la violazione, (…), non prevede la responsabilità degli esponenti per omessa vigilanza” (così ricorso, pagg. 78 – 79).
Deduce quindi che in qualità di consigliere di amministrazione non esecutivo non può esser reputato responsabile per “omessa vigilanza” sull’operato dei consiglieri esecutivi.
Con il sesto motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato per violazione della L. n. 689 del 1981, art. 3, in ordine all’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo e dell’art. 2381 c.c., commi 3 e 6, in ordine all’obbligo di agire in modo informato dei consiglieri non esecutivi.
Deduce che alla predisposizione dei “prospetti non equity” era stato delegato dal consiglio di amministrazione il direttore generale, Antonio V.; che il direttore generale ed il presidente del consiglio di amministrazione erano gli unici esponenti aziendali ad esser in possesso delle informazioni omesse nei “prospetti non equity”.
Deduce dunque che in veste di consigliere non esecutivo, in assenza di reali indici di allarme atti ad imporre la richiesta di ulteriori informazioni, giammai avrebbe potuto acquisir contezza delle informazioni in possesso del direttore generale e del presidente del consiglio di amministrazione e da costoro occultate; che non si può pretendere che il consigliere delegante faccia “in consiglio richieste puramente esplorative su fatti che non conosce, non può supporre e non può neppure intuire” (così ricorso, pag. 93).
Deduce quindi che nel suo comportamento non sono ravvisabili gli estremi nè del dolo nè della colpa.
Con il settimo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’illegittimità del decreto impugnato per violazione dell’art. 94, comma 2, t.u.f..
Deduce che, contrariamente all’assunto della corte d’appello, la sottoscrizione del “Fresh 2008” tramite i “Tror” da parte della “Fondazione M.P.S.” non costituiva informazione da inserire necessariamente nei “prospetti non equity”, affinchè gli investitori potessero addivenire ad un giudizio fondato sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente.
Deduce che in tal senso depone l’atteggiamento tenuto dalla “Consob” in sede di autorizzazione dei “prospetti non equity” e di autorizzazione del prospetto relativo all’aumento di capitale effettuato dalla “Banca M.P.S.” nel corso del 2008.
Deduce che in tal senso depone inoltre la circostanza per cui i “prospetti d’offerta” sono da predisporre in conformità agli schemi previsti dai regolamenti comunitari, che a loro volta non richiedono l’inserimento di informazioni del tipo di quelle per le quali è stata irrogata la sanzione.
Deduce altresì che “la tranche dell’aumento di capitale 2008 riservato a JP Morgan, cui fanno riferimento le informazioni omesse di per sè non era neppure soggetta all’obbligo di redazione di alcun prospetto di offerta” (così ricorso, pag. 100).
Deduce ancora che, sebbene possano esser qualificate come necessarie ai sensi dell’art. 94, comma 2, t.u.f. e dunque siano da inserire nei prospetti anche informazioni non contemplate nel regolamento comunitario n. 809/2004, tale tuttavia non è il caso delle informazioni di cui nella fattispecie si è sanzionata l’omissione.
Deduce invero che, “ove la Consob avesse ravveduto incoerenze e/o mancanze nel prospetto rispetto alla documentazione a disposizione, ne avrebbe dovuto tenere conto, segnalandolo alla Banca” (così ricorso, pag. 102).
Deduce infine che “l’omessa informazione sulla sottoscrizione indiretta del Fresh 2008 da parte della Fondazione tramite i Tror non assume alcun rilievo dal punto di vista degli assetti partecipativi” (così ricorso, pag. 109); che d’altra parte le informazioni di cui al prospetto d’offerta devono riguardare la situazione patrimoniale e finanziaria, i risultati economici e le prospettive dell’emittente, non già del socio di controllo dell’emittente.
Con l’ottavo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illegittimità del decreto impugnato per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia.
Deduce comunque che l’informazione circa la sottoscrizione del “Fresh 2008” tramite i “Tror” da parte della “Fondazione M.P.S.” non aveva rilevanza alcuna con riferimento agli anni successivi al 2008.
Deduce che siffatta circostanza avrebbe senz’altro giustificato quanto meno la riduzione della sanzione inflittagli.
Con il nono motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illegittimità del decreto impugnato per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia.
Deduce che la correzione degli errori di contabilizzazione relativi alle operazioni denominate “*****”, “*****” e “*****” è avvenuta ex post, su attivazione del consiglio di amministrazione di “Banca M.P.S.”, sicchè non avrebbe potuto esser presa in considerazione al momento della pubblicazione dei “prospetti non equity”.
Deduce che conseguentemente egli ricorrente “non poteva che fare affidamento sulle informazioni contabili contenute nei detti bilanci al momento della predisposizione dei Prospetti non equity” (così ricorso, pag. 114).
Deduce che a tal ultimo riguardo il decreto impugnato ha omesso qualsivoglia rilievo.
Con il decimo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’illegittimità del decreto impugnato per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia.
Deduce che con l’atto di opposizione ha addotto che “l’ipotetica non corretta contabilizzazione dei canoni relativi al contratto di usufrutto concluso tra JP Morgan e la Banca (M.P.S.) è manifestamente non significativa a fini informativi” (così ricorso, pag. 116); che difatti si tratterebbe “di un errore quantitativamente davvero modesto” (così ricorso, pag. 117).
Deduce che parimenti a tal proposito il decreto impugnato ha omesso qualsiasi motivazione.
Con l’undicesimo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il difetto di motivazione in ordine all’istanza subordinata di riduzione dell’ammontare della sanzione irrogata.
Il primo motivo è destituito di fondamento.
Ai sensi del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 2, “le modifiche apportate alla parte V del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia secondo le rispettive competenze ai sensi del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 196 bis. Alle violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni adottate dalla Consob e dalla Banca d’Italia continuano ad applicarsi le norme della parte V del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, vigenti prima della data di entrata in vigore del presente decreto legislativo”.
Nel caso di specie si è innegabilmente al cospetto di violazioni commesse prima della data di entrata in vigore delle disposizioni che la “Consob” è deputata ad emanare (il provvedimento sanzionatorio è datato 21.5.2014), il cui varo, cioè, è alla medesima commissione demandato.
Il riferimento ratione temporis dunque è da farsi alla disciplina del t.u.f. antecedente alla novella di cui al D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72.
Più esattamente questa Corte di legittimità non può che reiterare il proprio insegnamento (nonostante la sollecitazione del ricorrente di cui alle pagg. 2 – 4 della memoria).
Ossia che le modifiche alla parte V del D.Lgs. n. 58 del 1998, apportate dal D.Lgs. n. 72 del 2015, si applicano alle violazioni commesse dopo l’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla “Consob” (ovvero della “Banca d’Italia”), in tal senso disponendo l’art. 6 del medesimo decreto legislativo, e non è possibile ritenere l’applicazione immediata della legge più favorevole, atteso che il principio cosiddetto del “favor rei”, di matrice penalistica, non si estende in assenza di una specifica disposizione normativa alla materia delle sanzioni amministrative, che risponde invece al distinto principio del “tempus regit actum” (cfr. Cass. 2.3.2016, n. 4114; Cass. 30.6.2016, n. 13433; Cass. 9.8.2018, n. 20689. Si veda anche Cass. (ord.) 28.12.2011, n. 29411, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto dell’applicazione analogica di cui alla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 1, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali “ab origine”, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2, commi 2 e 3, i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente richiamati dal legislatore).
Va soggiunto che nelle stesse occasioni dapprima menzionate (il riferimento è a Cass. 2.3.2016, n. 4114, e a Cass. 30.6.2016, n. 13433) questo Giudice ha specificato che la surriferita interpretazione non viola i principi convenzionali enunciati dalla Corte E.D.U. con la sentenza 4.3.2014 (“Grande Stevens ed altri c/o Italia”), giacchè tali principi non possono indurre a ritenere che una sanzione, qualificata come amministrativa dal diritto interno, abbia sempre ed a tutti gli effetti natura sostanzialmente penale; di conseguenza ha concluso per l’irrilevanza di un’eventuale questione di costituzionalità ai sensi dell’art. 117 Cost..
Tal ultima puntualizzazione ovviamente esplica valenza – segnandone, appunto, la manifesta infondatezza – in ordine alla questione di legittimità costituzionale che C.T. con il primo mezzo ha – anche con riferimento all’art. 3 Cost. – inteso sollevare in via subordinata (cfr. altresì Corte cost. 24.4.2002, n. 140, secondo cui è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 1, comma 2, nella parte in cui non prevede che, se la legge in vigore al momento in cui fu commessa la violazione e quella posteriore stabiliscono sanzioni amministrative pecuniarie diverse, si applichi la legge più favorevole al responsabile).
Si tenga conto comunque, pur ad opinare per l’applicabilità ex officio (cfr. Cass. sez. lav. 17.3.2014, n. 6101) della legge sopravvenuta più mite, che la qualificazione della regolamentazione introdotta ex novo nel t.u.f. dal D.Lgs. n. 72 del 2015, quale disciplina più blanda postulerebbe il riscontro della concreta sussistenza delle condizioni di cui al novello art. 190 bis, comma 1, t.u.f..
E tuttavia un simile accertamento imporrebbe a questo Giudice del diritto indagini ed accertamenti di fatto sicuramente preclusi (cfr. Cass. 25.10.2017, n. 25319, secondo cui nel giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio; Cass. 13.9.2007, n. 19164).
Il secondo motivo del pari è destituito di fondamento.
Analogamente questa Corte non può che ribadire il proprio insegnamento.
Ovvero che la denuncia di un vizio correlato alla pretesa violazione di norme processuali non è volta alla salvaguardia dell’interesse all’astratta regolarità dell’attività giudiziaria, ma propriamente all’eliminazione del concreto pregiudizio che la parte in conseguenza della denunciata violazione abbia sofferto; ne discende che è inammissibile l’impugnazione con la quale si lamenti la menomazione del diritto di difesa senza specificazione del concreto pregiudizio che alla parte sia derivato (cfr. Cass. 9.8.2017, n. 19759; Cass. 23.2.2010, n. 4340).
In questi termini a nulla vale prospettare, sic et simpliciter, id est senza specificazione del pregiudizio in concreto subito, che “la procedura che ha continuato ad essere applicata ai procedimenti di opposizione ex art. 195 T.U.F. pendenti al momento dell’entrata in vigore del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, salva la variante dell’udienza pubblica, non è comunque idonea a rispettare le garanzie di cui all’art. 6 della Convenzione (E.D.U.)” (così ricorso, pag. 45).
In questi termini inoltre è quanto meno priva di concreta rilevanza la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 72 del 2015, art. 6, comma 8, prefigurata con il mezzo di impugnazione in esame.
Il terzo motivo è privo di fondamento.
Similmente è sufficiente il richiamo degli insegnamenti di questa Corte.
In primo luogo dell’insegnamento secondo cui il procedimento sanzionatorio della “Banca d’Italia” (e si soggiunge della “Consob”, ai sensi dell’art. 195 t.u.f., non viola l’art. 6, par. 1, della Convenzione E.D.U., perchè questo esige solo che, ove il procedimento amministrativo sanzionatorio non offra garanzie equiparabili a quelle del processo giurisdizionale, l’incolpato possa sottoporre la questione della fondatezza dell'”accusa penale” a un organo indipendente e imparziale, dotato di piena giurisdizione, come la disciplina nazionale gli consente di fare tramite l’opposizione alla corte d’appello (cfr. Cass. 14.12.2015, n. 25141; Cass. 9.8.2018, n. 20689).
In secondo luogo dell’insegnamento secondo cui, in tema di intermediazione finanziaria, il procedimento di irrogazione di sanzioni amministrative, previsto dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 187 septies, postula solo che, prima dell’adozione della sanzione, sia effettuata la contestazione dell’addebito e siano valutate le eventuali controdeduzioni dell’interessato; pertanto, non è violato il principio del contraddittorio nel caso di omessa trasmissione all’interessato delle conclusioni dell’Ufficio sanzioni amministrative della “Consob” o di sua mancata audizione innanzi alla Commissione, non trovando d’altronde applicazione, in tale fase, i principi del diritto di difesa e del giusto processo, riferibili solo al procedimento giurisdizionale (cfr. Cass. 4.9.2014, n. 18683; Cass. 22.4.2016, n. 8210).
In questo quadro a nulla vale che il ricorrente adduca che nel procedimento sanzionatorio amministrativo non ha avuto “la possibilità di (…) far valere dinanzi alla Commissione le proprie difese, con particolare riferimento alla concreta riferibilità (…) delle violazioni ascrittegli” (così ricorso, pagg. 61 -62).
In questo quadro a nulla rileva che il ricorrente adduca che, in considerazione delle perplessità palesate in ordine alla responsabilità dei consiglieri non esecutivi nel corso della procedura di adozione della precedente delibera sanzionatoria n. 18886 del 18.4.2014 (precedente delibera di cui quella in questa sede opposta costituirebbe pedissequa replica), se “fosse stato ammesso (…) ad interloquire direttamente e difendersi innanzi alla Commissione è quanto meno probabile che il Provvedimento Sanzionatorio non sarebbe stato adottato affatto” (così ricorso, pag. 65).
Il quarto motivo del pari è privo di fondamento.
E’ sufficiente ribadire che (in tema di opposizione ad ordinanza ingiunzione per l’irrogazione di sanzioni amministrative, i vizi di motivazione in ordine alle difese presentate dall’interessato in sede amministrativa non comportano la nullità del provvedimento (e quindi l’insussistenza del diritto di credito derivante dalla violazione commessa), in quanto) il giudizio di opposizione non ha ad oggetto l’atto, ma il rapporto, con conseguente cognizione piena del giudice, che potrà (e dovrà) valutare le deduzioni difensive proposte in sede amministrativa (eventualmente non esaminate o non motivatamente respinte), in quanto riproposte nei motivi di opposizione, decidendo su di esse con pienezza di poteri, sia che le stesse investano questioni di diritto che di fatto (cfr. Cass. sez. un. 28.1.2010, n. 1786; Cass. 21.5.2018, n. 12503).
A nulla rileva quindi che C.T. prospetti che “i criteri di individuazione dei destinatari del Provvedimento Sanzionatorio risultano del tutto oscuri tanto da risultare incomprensibili” (così ricorso, pag. 77).
Il quinto motivo non merita seguito.
Ed invero (fermo il principio, in materia di sanzioni amministrative, di tipicità e di riserva di legge fissato dalla L. n. 689 del 1981, art. 1) la portata precettiva del comma 2, dell’art. 191 t.u.f., nella formulazione applicabile ratione temporis, si specifica anche in conformità al disposto dell’art. 2392 c.c., comma 2, che concorre a connotare le funzioni gestorie – e dunque pur le funzioni sottese alla prefigurazione normativa di cui al vigente art. 191 cit., comma 2, “chiunque viola l’art. 94, commi 2, 3, 5, 6 e 7 (…)” – e dei consiglieri esecutivi e dei consiglieri non esecutivi di società per azioni altresì “in chiave omissiva” alla stregua dell’inciso “in ogni caso gli amministratori (…) sono solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.
In tal guisa appieno si legittima la contestazione di “omessa vigilanza”, in toto si accredita l’affermazione della corte distrettuale secondo cui “l’eventuale responsabilità dell’amministratore non delegato (…) discende pur sempre dal peculiare compito istituzionale attribuito al medesimo in seno all’organismo societario” (così decreto impugnato, pag. 8) e per nulla si giustifica la prospettazione del ricorrente secondo cui “deve (…) escludersi che gli amministratori non esecutivi possano essere ritenuti responsabili per la violazione di altri soggetti (…) delle condizioni di svolgimento delle attività indicate dagli artt. 94 e 113 T.U.F.” (così ricorso, pag. 80).
Il sesto motivo parimenti non merita seguito.
La “riforma” del 2003, di certo, ha espunto dall’incipit dell’art. 2392 c.c., comma 2, l’obbligo di vigilanza sul generale andamento della gestione.
Nondimeno la prima parte dell’u.c. dell’art. 2381 c.c., dispone che “gli amministratori sono tenuti ad agire in modo informato”.
Al contempo siffatto potere – dovere, benchè destinato a “compiersi” in sede collegiale (“ciascun amministratore può chiedere agli organi delegati che in consiglio siano fornite informazioni relative alla gestione della società”: art. 2381 c.c., u.c., seconda parte), si qualifica teleologicamente, ex art. 2381 c.c., comma 3, ultima parte, nella valutazione – “sulla base della relazione degli organi delegati” – del generale andamento della gestione.
Su tale scorta a nulla vale, al cospetto della surriferita connotazione teleologica ex art. 2381 c.c., comma 3, ultima parte, dedurre che il presidente del consiglio di amministrazione ed il direttore generale erano gli unici esponenti aziendali ad essere informati “in merito alla sottoscrizione indiretta del Fresh da parte della Fondazione tramite i Tror” (così ricorso, pag. 82), che costoro hanno posto “in essere una sistematica attività di doloso camuffamento, volta a dissimulare le irregolarità relative al loro operato” (così ricorso, pag. 82), che, in assenza di comprovati – ad onere dell’autorità amministrativa procedente – “reali indici di allarme che impon(evano) la richiesta di ulteriori informazioni” (così ricorso, pag. 86), “la violazione del citato dovere di chiedere informazioni supplementari non sussiste” (così ricorso, pag. 86).
Segnatamente si osserva quanto segue.
Per un verso, che non è da dubitare della sussistenza di concreti “indici di allarme”, se è vero – siccome è vero, alla stregua del puntuale rilievo della corte territoriale – che “si trattava di un’operazione di portata colossale (…), destinata a mutare per sempre il destino plurisecolare della banca, che (…) disponeva all’epoca di un patrimonio netto (Euro 7,8 mld.) addirittura inferiore al prezzo di Antonveneta (Euro 9 mld.)” (così decreto impugnato, pag. 9); se è vero, inoltre – siccome è vero, alla luce di quanto riferisce lo stesso C. – che si era “in presenza di comportamenti palesemente dissimulatori da parte dei delegati” (così ricorso, pag. 88), che il presidente del c.d.a. ed il direttore generale “hanno dolosamente (…) mantenuto un contegno reticente” (così memoria del ricorrente, pag. 22) e che “i vertici aziendali (i.e. M. e V.), nel quinquennio 2006 – 2011 (avevano) adottato un modus operandi autoreferenziale, verticistico ed asservito al soddisfacimento di interessi in generale distonici rispetto a quelli dell’ente” (così ricorso, pag. 90).
Per altro verso, che questa Corte spiega che (in tema di sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 144) il dovere di agire informati dei consiglieri non esecutivi delle società bancarie, sancito dall’art. 2381 c.c., commi 3 e 6, e art. 2392 c.c., non va rimesso, nella sua concreta operatività, alle segnalazioni provenienti dai rapporti degli amministratori delegati, giacchè anche i primi devono possedere ed esprimere costante e adeguata conoscenza del “business” bancario ed, essendo compartecipi delle decisioni di strategia gestionale assunte dall’intero consiglio, hanno l’obbligo di contribuire ad assicurare un governo efficace dei rischi di tutte le aree della banca e di attivarsi in modo da poter efficacemente esercitare una funzione di monitoraggio sulle scelte compiute dagli organi esecutivi non solo in vista della valutazione delle relazioni degli amministratori delegati, ma anche ai fini dell’esercizio dei poteri, spettanti al consiglio di amministrazione, di direttiva o avocazione concernenti operazioni rientranti nella delega (cfr. Cass. 5.2.2013, n. 2737, debitamente menzionata pur dalla corte di Firenze).
Per altro verso ancora, che, al cospetto di un’operazione che “dire importante suona persino eufemistico, discutendosi di un’operazione davvero colossale” (così decreto impugnato, pag. 9), è assolutamente ingiustificato addurre che “i fatti omessi non hanno ad oggetto il core business della Banca (…), (ma) informazioni di carattere estremamente tecnico – operativo o addirittura aventi ad oggetto l’investimento da parte di terzi in titoli emessi da soggetti diversi dalla Banca” (così ricorso, pagg. 84 – 85).
Da ultimo, in ordine al profilo soggettivo dell’illecito, inevitabile è il riferimento all’insegnamento n. 2406 dell’8.2.2016 di questo Giudice.
Ovvero all’insegnamento secondo cui, in tema di sanzioni amministrative, la L. n. 689 del 1981, art. 3, pone una presunzione di colpa a carico dell’autore del fatto vietato, riservando a costui l’onere di provare di aver agito senza colpa; sicchè, in caso di provvedimento sanzionatorio emesso dalla Banca d’Italia nei confronti dei componenti del consiglio di amministrazione, del collegio sindacale e della direzione di una banca, per inosservanza delle istruzioni relative all’organizzazione amministrativa e contabile ed omesso invio delle prescritte segnalazioni all’istituto d’emissione, spetta ai destinatari della sanzione dimostrare di aver adempiuto diligentemente agli obblighi imposti dalla normativa di settore, rimanendo, comunque, irrilevante, ai fini dell’esclusione della colpa, che la situazione in cui versava la banca fosse preesistente al loro insediamento (cfr. Cass. 2.3.2016, n. 4114, secondo cui, in tema di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, il D.Lgs. n. 58 del 1998, individua una serie di fattispecie a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare procedure e funzioni ed incentrate su mere condotte considerate doverose, sicchè il giudizio di colpevolezza è ancorato a parametri normativi estranei al dato puramente psicologico, con limitazione dell’indagine sull’elemento oggettivo dell’illecito all’accertamento della “suitas” della condotta inosservante, per cui, una volta integrata e provata dall’autorità amministrativa la fattispecie tipica dell’illecito, grava sul trasgressore, in virtù della presunzione di colpa posta dalla L. n. 689 del 1981, art. 3, l’onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza).
Il settimo e l’ottavo motivo di ricorso sono strettamente connessi.
Difatti, pur il settimo motivo è da qualificare in relazione alla previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Occorre tener conto, per un verso, che anche con il settimo mezzo il ricorrente censura sostanzialmente il giudizio “di fatto” cui la corte di merito ha atteso (“la verifica della rilevanza dell’informazione da rendere ai sensi dell’art. 94, comma 2, T.U.F. deve essere valutata con attenzione (…)”: così ricorso, pag. 101; “se la Consob avesse voluto veder inserita nel Prospetto 2008 una siffatta informazione di dettaglio, lo avrebbe chiesto espressamente (…)”: così ricorso, pag. 103; “ciò che traspare dalle considerazioni della Corte d’Appello è la presunta essenzialità di informazioni aventi ad oggetto non l’emittente, ma la situazione del socio di controllo dell’emittente”: così ricorso, pag. 109). Per altro verso, che è propriamente il motivo di ricorso ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054). Per altro verso ancora, che le informazioni da inserire nei prospetti informativi di cui all’art. 94 t.u.f., nella formulazione vigente anteriormente alle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 184 del 2012, non sono esclusivamente quelle riconducibili al Regolamento (CE) n. 809/2004, dovendosi ritenere che il contenuto di detti prospetti, al fine di consentire un investimento consapevole, debba essere adattato alle circostanze del caso concreto, nel rispetto del “minimo” prescritto dalla normativa dell’Unione Europea (cfr. Cass. 10.4.2018, n. 8805).
In tal guisa ambedue i motivi sono immeritevoli di seguito.
Ovviamente l’asserito, gli asseriti vizi motivazionali rilevano, ratione temporis, nei limiti della novella formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e nei termini enunciati dalle sezioni unite di questa Corte con la pronuncia n. 8053 del 7.4.2014.
In quest’ottica si osserva quanto segue.
Da un canto, che è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” – tra le quali non è annoverabile il semplice difetto di “sufficienza” della motivazione – destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia a sezioni unite testè menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui la corte toscana ha ancorato il suo dictum.
Segnatamente, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – la corte distrettuale ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (cfr. decreto impugnato pagg. 9 – 10).
Dall’altro, che la corte ha sicuramente disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante in parte qua la res litigiosa ovvero la presenza o meno nel prospetto d’offerta ex art. 94 t.u.f. di “tutte le informazioni necessarie affinchè gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria, sui risultati economici e sulle prospettive dell’emittente e degli eventuali garanti, nonchè sui prodotti finanziari e sui relativi diritti”.
In ogni caso l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte territoriale, risulta ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo e esaustivo sul piano logico – formale (la corte fiorentina ha specificato che “la banca (…) espose dati inadeguati e fuorvianti, omettendo la circostanza, tutt’altro che trascurabile, che JPM, per la quota di Euro 490.000.000 su Euro 1.000.000.000 del nuovo capitale, agiva per conto della Fondazione, ovvero non assumeva in proprio il rischio della successiva collocazione delle azioni”: così decreto impugnato, pag. 9; “analogamente nel DR del 2008 la banca riprodusse lo stesso tipo di informazione lacunosa, privando il mercato dell’opportunità di sapere: (…)”: così decreto impugnato, pag. 10; “in pratica, occultare il ricorso della Fondazione ai Tror significava far credere al mercato che JPM finanziasse in prima persona il Fresh destinato a contribuire all’acquisto di Antonveneta, mentre per il 49% la banca d’affari agiva su mandato della Fondazione”: così decreto impugnato, pag. 10).
D’altronde, con i motivi in esame, il ricorrente censura la pretesa distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa (“la verifica della rilevanza dell’informazione (…) deve essere valutata con attenzione e tenuto conto dell’atteggiamento tenuto dalla Consob nel corso del procedimento di autorizzazione della documentazione d’offerta”: così ricorso, pag. 101; la richiesta della “Consob” di cui alla nota in data 2.4.2008 “non comprendeva anche l’identificazione di coloro che, indirettamente, avrebbero sottoscritto il Fresh 2008” (così ricorso, pag. 103), tant’è che la “Consob (…), avendo esaminato l’integrazione della bozza del Prospetto 2008 (…), non mosse obiezioni e non chiese ulteriori specificazioni”: così ricorso, pag. 103; “era (…) perfettamente noto alla Consob che, all’epoca della pubblicazione del Prospetto 2008, JP Morgan aveva già collocato il Fresh 2008, tanto che essa aveva utilizzato i proventi della raccolta del Fresh 2008 per sottoscrivere la quota di aumento di capitale (ad essa) riservata”: così ricorso, pag. 104; e che, “con riferimento alla parte di aumento di capitale non riservato a JP Morgan, il prospetto pubblicato nel 2008 già conteneva l’espressa indicazione che la Fondazione MPS… ha assunto l’impegno irrevocabile nei confronti di BMPS ad esercitare per intero il proprio diritto di opzione (…)”: così ricorso, pag. 106; “non poteva apparire obiettivamente determinante sapere se la Fondazione, all’esito dell’aumento di capitale, avrebbe detenuto il 58,405% ovvero il 53,209% del capitale della Banca”: così ricorso, pag. 109; “tale circostanza non poteva certo più considerarsi rilevante negli anni successivi, quando la rappresentazione dell’aumento di capitale 2008 e delle connesse operazioni è andato ad assumere un puro valore di ricognizione storica”: così ricorso, pag. 112).
E tuttavia, da un lato, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).
E tuttavia, dall’altro, è inammissibile il motivo di ricorso che sollecita la revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e perciò si risolve in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul “fatto”, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (siccome già si riconosceva nel vigore dell’abrogato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: cfr. Cass. 26.3.2010, n. 7394; Cass. sez. lav. 7.6.2005, n. 11789).
Il nono motivo di ricorso va respinto.
Analogamente, con riferimento agli errori di contabilizzazione delle operazioni “*****”, “*****” e “*****”, è da disconoscere senza dubbio che il dictum della corte d’appello sia inficiato da una qualsivoglia forma di “anomalia motivazionale” rilevante alla luce della statuizione n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte: la corte di merito del pari ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (cfr. decreto impugnato pagg. 10 – 12).
Al contempo, la corte distrettuale ha sicuramente disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante in parte qua la res litigiosa.
Similmente, del resto, il ricorrente censura la pretesa distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa (“i bilanci 2008, 2009 e 2010 apparivano validi, correttamente redatti e regolarmente certificati al momento dell’approvazione dei Prospetti non equity”: così ricorso, pag. 114).
Sicchè egualmente rileva l’insegnamento n. 11892 del 10.6.2016 di questa Corte dapprima citato.
Il decimo motivo non merita seguito.
Il mezzo in disamina si connette a quanto riprodotto sub 2), a pagina 10 del ricorso.
E tuttavia il mezzo de quo non si correla alla ratio decidendi, atteso che i fatti sub 2) non hanno formato poi oggetto di contestazione.
Invero la corte territoriale ha dato atto espressamente che “all’esito dell’istruttoria (…), l’Ufficio Sanzioni Amministrative (…) della Consob riteneva di non addebitare le violazioni concernenti l’errata contabilizzazione dei canoni di usufrutto (sub 3) (recte: sub 2) e l’omessa indicazione della indemnity side letter (sub 2) (recte: sub 3), mentre proponeva di sanzionare le due residue violazioni contestate (sub 1 e 4). Accogliendo la proposta, con delibera n. 18924 del 21 maggio 2014, Consob irrogava al C. (…)” (così decreto impugnato, pag. 3).
D’altronde, in relazione ai fatti sub 2), nella motivazione dell’impugnato dictum non si rinviene alcuna argomentazione.
L’undicesimo motivo va respinto.
Ancorchè in forma concisa la corte di Firenze ha motivato in ordine all’istanza subordinata – per nulla argomentata (cfr. decreto impugnato, pag. 12) – di riduzione della sanzione irrogata.
Difatti la corte ha specificato che “la sanzione è comunque adeguata, tenuto conto della lontananza dai massimi edittali nonostante la notevole gravità delle violazioni imputabili” (così decreto impugnato, pag. 12).
In dipendenza del rigetto del ricorso il ricorrente va condannato a rimborsare alla controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.
Si dà atto che il ricorso è datato 25.11.2016. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente, C.T., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit..
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente, C.T., a rimborsare alla controricorrente, “Consob”, le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, cit..
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 12 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018