LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 16071-2014 proposto da:
C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, L.G.
FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GAETANO GIANNI’;
– ricorrente –
contro
B.R., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PAOLO EMILIO 57, presso lo studio dell’avvocato PAOLO CANEPUCCIA, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
contro
S.F., V.G., F.A.E.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 3997/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/06/2013 R.G.N. 10553/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3/07/2018 dal Consigliere Dr. MAROTTA CATERINA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dr.
CELESTE ALBERTO, che ha concluso per inammissibilità o in subordine rigetto;
udito l’Avvocato GAETANO GIANNI’;
udito l’Avvocato PAOLO CANEPUCCIA.
FATTI DI CAUSA
1.1. Con ricorso al Tribunale di Civitavecchia B.R., sul presupposto di aver lavorato con mansioni di impiegata, addetta alla segreteria, alle dipendenze dell’avv. C.S. dal 4/4/1995 all’1/4/2007, dapprima presso lo studio di ***** e quindi presso lo studio di ***** e di essere stata licenziata verbalmente in data 1/4/2007, chiedeva l’accertamento dell’inefficacia o comunque la declaratoria di illegittimità del licenziamento e il pagamento di differenze retributive per complessivi euro 53.704,13.
1.2. Costituitosi in giudizio l’avv. C. chiedeva chiamarsi in causa gli avv.ti V.G. e F.A.E. assumendo di essere stato legato agli stessi da un rapporto associativo di fatto e sostenendo che la B. avesse lavorato anche per loro tanto che, terminato il suo rapporto di lavoro presso il primo studio (nell’anno 2001), ciascuno di essi le aveva corrisposto euro 1.000,00 a titolo di t.f.r..
1.3. Gli avv.ti V.G. e F.A.E., costituitisi in giudizio, chiedevano a loro volta chiamarsi in causa la dott. S.F. che pure aveva condiviso lo studio di *****.
1.4. Il Tribunale reputava il rapporto di lavoro in questione intercorso con il solo avv. C. e mai interrotto fino all’1/4/2007, condannava detto convenuto al pagamento della somma di euro 50.484,47 a titolo di differenze retributive, respingeva le altre domande della ricorrente.
1.5. La decisione era confermata dalla Corte d’appello di Roma.
Riteneva la Corte territoriale che non potessero assumere decisiva rilevanza al fine della frazionabilità del rapporto gli indici indicati dall’appellante relativi al mutamento della parte datoriale (essendo stato l’unico datore di lavoro il C.), al mutamento della sede di lavoro, al mutamento dell’ammontare della retribuzione presso il nuovo studio di *****, all’esigenza di creare una struttura autonoma e all’esclusione dell’intento fraudolento, data la consapevolezza della novazione da parte della lavoratrice che aveva incassato il t.f.r. relativo al primo rapporto di lavoro. Escludeva, in ragione dell’unicità del rapporto, la fondatezza dell’eccezione di prescrizione formulata dall’appellante e riteneva non provata la corresponsione di una retribuzione maggiore di quella indicata dalla lavoratrice.
2. Per la Cassazione della sentenza ricorre l’avv. C.S. con due motivi.
3. B.R. resiste con controricorso.
4. La altre parti sono rimaste intimate 5. Il ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 115 c.p.c., la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione agli artt. 2730 e 2733 c.c., e la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Lamenta che la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto l’infrazionabilità del rapporto ed escluso una intervenuta novazione quando sussistevano indici significativi di quest’ultima. Lamenta, altresì, l’omesso esame di una circostanza significativa e cioè che la B. avesse lavorato anche per gli altri avvocati dello studio e che ciò era stato anche ammesso dalla stessa lavoratrice in sede di interrogatorio libero. Rileva una incongruenza motivazionale della sentenza che, da una parte, avrebbe escluso l’esistenza di un rapporto di lavoro anche con gli avv.ti F. e V. e, dall’altra, avrebbe poi detratto dalle somme ritenute dovute i tremila euro corrisposti alla B. all’atto della cessazione del rapporto nel settembre del 2000 così come riferito da quest’ultima sempre in sede di libero interrogatorio. Evidenzia che la Corte capitolina, senza alcuna congrua motivazione, avrebbe scomposto le dichiarazioni della B. attribuendo valore di confessione solo ad una parte di tali dichiarazioni ma non ad altra parte, favorevole alla tesi dell’appellante e deponente per la sussistenza di una novazione e quindi per la fondatezza dell’eccezione di prescrizione.
1.2. Il motivo presenta profili di inammissibilità per essere promiscuamente formulato ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, con la contemporanea deduzione di violazione di plurime disposizioni di legge o di codice, di error in procedendo e del vizio di omesso esame ma tale modalità di formulazione risulta non rispettosa del canone della specificità del motivo allorquando – come nella specie nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione, non risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, in tal modo non consentendo una sufficiente identificazione del devolutum e dando luogo all’impossibile convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, ‘di censure caratterizzate da… irredimibile eterogeneità’ (v. Cass., Sez. U., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. U., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862).
Pur con uno sforzo ricostruttivo ed estrapolativo (cui questa Corte non è invero tenuta) il motivo è comunque infondato.
La dedotta violazione dell’art. 115 c.p., non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. U., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
Con il rilievo, in realtà, il ricorrente propone una diversa lettura delle risultanze di causa, operazione non consentita in sede di legittimità.
Quanto alle censure concernenti asserite ammissioni che la B. avrebbe fatto in sede di libero interrogatorio ex art. 420 c.p.c, e l’erronea valutazione delle stesse, si osserva che, in termini generali, le dichiarazioni rese durante l’espletamento di detto mezzo istruttorio hanno valore meramente indiziario e non integrano una prova piena. E’ stato, in particolare, ritenuto (v. Cass. 2 aprile 2009, n. 8066) che, nel rito del lavoro, le risposte rese dalle parti in sede di interrogatorio libero e non formale sono discrezionalmente utilizzabili dal giudice come elemento di convincimento, soprattutto se riguardano fatti che possono essere conosciuti solo dalle parti medesime, o non sono contraddette da elementi probatori contrari e possono arrivare a costituire l’unica fonte del convincimento. In ogni caso, la mancata considerazione di tali dichiarazioni in favore dell’altra parte ad opera del giudice di merito non è sindacabile in sede di legittimità (v. Cass. 29 dicembre 2014, n. 27407; Cass. 26 febbraio 2009, n. 4667; Cass. 15 maggio 2003, n. 7596). Ciò evidentemente non esclude la possibilità di una valutazione frazionata dell’indicato mezzo con attribuzione di rilevanza quali elementi sussidiari di convincimento a quei soli punti che siano risultati intrinsecamente attendibili ovvero adeguatamente riscontrati.
Nel caso in esame, a ben guardare, non è affatto vero che la Corte territoriale abbia da un lato attribuito e dall’altro escluso valore confessorio alle dichiarazioni rese dalla B. circa, in particolare, l’avvenuta corresponsione di euro tremila a titolo di t.f.r. (“all’inizio ho lavorato anche per gli avvocati V. e F. ed ho ricevuto la somma di euro 1.000,00 a titolo di liquidazione… ho ricevuto la liquidazione di euro 1.000,00 anche dall’avv. C.”) atteso che, tratto dalle indicate affermazioni, quanto all’avvenuta dazione in denaro, un convincimento contrario all’interesse della stessa dichiarante, la Corte di merito ha ritenuto che detta dazione non fosse sufficiente, alla luce delle complessive risultanze di causa, a ritenere provata l’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze anche degli indicati altri due avvocati. Il fatto oggetto di interrogatorio libero, avente ad oggetto una circostanza contra se, è stato, dunque, ritenuto sussistente nei confronti di ciascuna delle suddette tre controparti della dichiarante. Tuttavia, come si legge nella sentenza, differente è stata, alla luce degli ulteriori esiti istruttori, l’individuazione del rapporto/titolo per l’imputabilità di tale pagamento: quanto all’avv. C., l’intercorso rapporto di lavoro subordinato presso lo studio di ***** (l’assenza di soluzione di continuità del quale rispetto a quello svolto presso la nuova sede dello studio di ***** è stata ritenuta ‘circostanza pacificà), contestualmente escludendosi che tale pagamento potesse avere rilevanza ai fini di una novazione del rapporto; quanto agli avv.ti V.G. e F.A.E., un rapporto con caratteristiche diverse dalla subordinazione.
Nè risulta avesse formato oggetto di una qualche doglianza da parte della lavoratrice la pronuncia del Tribunale (confermata dalla Corte d’appello) sul punto della detrazione dall’importo ritenuto spettante a titolo di t.f.r. e posto a carico del solo C. dei suddetti euro 3.000,00 (e dunque anche delle somme corrisposte dai chiamati in causa avv.ti V. e F., ritenuti estranei al rapporto di lavoro subordinato ancorchè, come detto, non ad un rapporto di lavoro senza vincolo di subordinazione).
Quanto alle censure specificamente concernenti tale esclusione della novazione, non si rinviene nel ragionamento della Corte territoriale alcuna violazione di legge essendo stata fatta corretta applicazione del principio secondo il quale la novazione oggettiva del rapporto obbligatorio postula il mutamento dell’oggetto o del titolo della prestazione, ai sensi dell’art. 1230 c.c., mentre non è ricollegabile alle mere modificazioni accessorie di cui all’art. 1231 c.c., e deve essere connotata non solo dall’aliquid novi, ma anche dall’animus novandi (inteso come manifestazione inequivoca dell’intento novativo) e dalla causa novandi (intesa come interesse comune delle parti all’effetto novativo) – cfr. Cass. 9 marzo 2010, n. 5665; Cass. 6 luglio 2010, n. 15980; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2530 Nella specie l’accertamento che su tali tre elementi (volontà, causa ed oggetto del negozio) è stato correttamente svolto dal giudice di merito il quale ne ha dato conto con motivazione congrua e logica che sfugge alle censure che in questa sede vengono rivolte.
Con riferimento, poi, alla pretesa rilevanza delle modificazioni intervenute nel corso del rapporto di lavoro al fine di integrare un vero e proprio mutamento sostanziale dell’oggetto della prestazione o del titolo del rapporto, il ricorrente oppone inammissibilimente al giudizio della Corte d’appello, sostanzialmente incentrato su una mera accessorietà delle stesse, una propria differente valutazione, ma ciò è inammissibile in sede di legittimità.
Eguale ragionamento va svolto con riguardo ai rilievi concernenti il mutamento della sede avendo la Corte capitolina evidenziato che pur con tale mutamento la ‘strutturà del rapporto non era stata modificata avendo la B. continuato a svolgere, senza interruzione, mansioni di segreteria, con lo stesso orario e la stessa retribuzione (mutata solo sei mesi dopo il trasferimento dello studio ed a seguito dell’avvenuta regolarizzazione).
Anche quanto a tali ultimi aspetti, il motivo sottopone alla Corte profili relativi al merito della valutazione delle prove, che sono insindacabili in sede di legittimità, quando – come nel caso di specie risulta che il giudice di merito ha esposto in modo ordinato e coerente le ragioni che giustificano la sua decisione, sicchè deve escludersi tanto la ‘mancanza assoluta della motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico, quanto la ‘motivazione apparentè, o il ‘contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabilì, figure queste manifestazione di violazione di legge costituzionalmente rilevante sotto il profilo della esistenza della motivazione – che circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c., operata del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori – ai sensi del nuovo testo del dell’art. 360 c.p.c., n. 5, – non integra, di per sè il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
2.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 2948, nn. 4 e 5 e art. 1230 c.c.. Assume il ricorrente che una diversa ricostruzione della realtà fattuale e l’erronea mancata considerazione della contitolarità del primo dei rapporti asseritamente intercorsi con la B. in uno con la considerazione di una intervenuta novazione avrebbero dovuto far giungere la Corte di merito a conclusioni diverse circa l’eccepita prescrizione.
2.2. Il motivo resta assorbito nella decisione di cui al primo motivo avendo la Corte territoriale ritenuto, con argomentazione immune da censure, sussistente un unico rapporto di lavoro con il solo avv. C., giammai mutato dal punto di vista soggettivo ovvero oggettivo. In conseguenza la prescrizione non poteva che decorrere dalla cessazione di tale unico rapporto.
3. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
4. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.
5. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio, il 3 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018
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