Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.27447 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L.S., L.V.S., L.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA OTRANTO 36, presso lo studio dell’avvocato MASSANO MARIO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CORNELIO ENRICO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA ***** in persona del legale rappresentante pro tempore Direttore Generale Dott. D.B.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. COLOMBO 440, presso lo studio dell’avvocato TASSONI FRANCO, rappresentata e difesa dall’avvocato CHERSEVANI PAOLO MARIA giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

AZIENDA OSPEDALE *****;

– intimata –

nonchè da:

AZIENDA OSPEDALE DI ***** in persona del Direttore Generale pro tempore Dott. F.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo studio dell’avvocato DI PIERRO NICOLA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato BERGAMO LAURA giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 1597/2016 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 12/07/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/06/2018 dal Consigliere Dott. PORRECA PAOLO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO ALBERTO che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale;

udito l’Avvocato CORNELIO ENRICO;

udito l’Avvocato BERGAMO LAURA;

udito l’Avvocato TASSONI FRANCO per delega.

FATTI DI CAUSA

L.V.S., L.S. e L.F. convenivano in giudizio l’Azienda ospedaliera di ***** e l’ASL ***** per ottenere il risarcimento dei danni, “iure ereditario” e iure proprio”, correlati al decesso di Lu.Se., loro congiunto quale, rispettivamente, marito e padre. Esponevano che la morte era seguita a carcinoma polmonare oggetto di rilievo diagnostico non comunicato al paziente, precludendogli il trattamento chirurgico, aggravando in tal modo la malattia e riducendo significativamente le sue possibilità di guarigione.

Il tribunale rigettava le domande avanzate nei confronti dell’ASL ***** compensando le relative spese. Accoglieva parzialmente quelle proposte avverso l’azienda ospedaliera padovana, commisurando il danno alla riduzione dell’aspettativa di vita subita dal deceduto, e rilevando che l’esito letale non avrebbe comunque potuto evitarsi.

La corte di appello, pronunciando sul gravame degli originari attori, lo rigettava condividendo le conclusioni del giudice di prime cure, mentre accoglieva l’impugnazione incidentale dell’ASL veneziana in punto di spese, escludendo che la condotta imputabile a quest’ultima avesse potuto determinare alcun aggravamento e che di tanto potessero non essere consapevoli gli istanti, con conseguente esclusione dei giusti motivi per derogare alla regola della soccombenza.

Avverso questa decisione ricorrono per cassazione L.V.S., L.S. e L.F., formulando quattro motivi e depositando memoria.

Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera di ***** che ha proposto altresì ricorso incidentale affidato a due motivi.

Resiste inoltre l’Azienda *****.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso principale si prospetta la violazione degli artt. 1218,1223,2697 cod. civ., poichè la corte di appello avrebbe errato nel ritenere che l’onere della prova del nesso causale tra l’omissione (mancata comunicazione del rilievo diagnostico) e pregiudizio (mancata guarigione e morte) spettasse all’obbligato. Trattandosi di responsabilità contrattuale da contatto sociale, come accertato dai giudici di merito, sarebbe stata l’azienda ospedaliera padovana, la sola verso cui si era coltivata la domanda in appello,a dover provare che vi era certezza della mancanza di relazione eziologica tra inadempimento, anch’esso accertato, e morte.

Con il secondo motivo di ricorso si prospetta la violazione degli artt. 61,115,116 cod. proc. civ., anche con riferimento all’art. 2697 cod. proc. civ., poichè la corte di appello avrebbe errato nell’escludere la sussistenza della prova del nesso causale, poichè sarebbe emerso dalle indagini peritali che il paziente, al momento del rilievo diagnostico non comunicato, avrebbe avuto una possibilità di sopravvivenza di 3-5 anni e non di 12-24 mesi come ritenuto nelle conclusioni del consulente medico legale d’ufficio, recepite acriticamente dal collegio di merito che, altresì, avrebbe errato a ipotizzare un peggioramento della qualità esistenziale nel periodo di maggior vita. Con l’ulteriore conseguenza che avrebbe dovuto affermarsi la sussistenza del nesso causale tra inadempimento e morte, atteso che dopo i cinque anni il tumore avrebbe dovuto considerarsi trattato chirurgicamente con successo, fermo restando che l’accelerazione dei tempi di decesso era comunque equivalsa ad averlo cagionato.

Con il terzo motivo di ricorso si prospetta la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., poichè la corte di appello, in conseguenza dell’erroneo riparto dell’onere probatorio, avrebbe errato nell’escludere l’imputabilità causale della morte alla condotta inadempiente della struttura ospedaliera, oggetto della domanda attorea.

Con il quarto motivo di ricorso si prospetta la violazione dell’art. 92 cod. proc. civ., poichè anche l’azienda ospedaliera veneziana aveva omesso di comunicare il rilievo diagnostico del carcinoma, sicchè sarebbe stata ingiustificata la riforma, decisa in seconde cure, della statuizione di compensazione delle spese, pronunciata in primo grado.

2. Con il primo motivo di ricorso incidentale si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod. proc. civ., poichè la corte territoriale avrebbe errato nel disattendere il motivo di appello con cui era stata dedotta la carenza originaria della domanda sul danno da perdita di “chance”, liquidato dal tribunale, atteso che la pretesa era stata espressamente declinata solo in termini di risarcimento per cagionato decesso.

Con il secondo motivo di ricorso incidentale si prospetta, “per quanto di necessità”, la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 cod. proc. civ., in relazione alle richieste di risarcimento dei danni inammissibilmente formulate in appello e rigettate dalla corte territoriale.

3. I primi tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente per connessione, sono in parte infondati, in parte inammissibili.

Va dato atto che questa Corte di recente (cfr., ad esempio, Cass., 07/12/2017, n. 29315, Cass., 15/02/2018, n. 3704), ha ritenuto che in tema di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno.

Quelle che seguono sono le ragioni ricostruite.

E’ stato rilevato che nei giudizi di risarcimento del danno derivante da inadempimento contrattuale, così come in quelli di risarcimento del danno da fatto illecito, la condotta colposa del responsabile e il nesso di causa tra questa e il danno costituiscono l’oggetto di due accertamenti distinti, sicchè la sussistenza della prima non comporta, di per sè, la dimostrazione del secondo e viceversa.

L’art. 1218 cod. civ., in questo senso, solleva il creditore dell’obbligazione che si afferma non adempiuta (o non esattamente adempiuta) dall’onere di provare la colpa del debitore, ma non dall’onere di provare il nesso di causa tra la condotta del debitore e il danno di cui domanda il risarcimento. E infatti:

la previsione dell’art. 1218 cod. civ. trova giustificazione nell’opportunità di far gravare sulla parte che si assume inadempiente, o non esattamente adempiente, l’onere di fornire la prova “positiva” dell’avvenuto adempimento o dell’esattezza dell’adempimento, sulla base del criterio della maggiore vicinanza della prova, secondo cui essa va posta a carico della parte che più agevolmente può fornirla (Cass., Sez. U., 30/10/2001, n. 13533);

tale maggiore vicinanza del debitore non sussiste in relazione al nesso causale fra la condotta dell’obbligato e il danno lamentato dal creditore, rispetto al quale non ha dunque ragion d’essere l’inversione dell’onere prevista dall’art. 1218 cod. civ. e non può che valere, quindi, il principio generale espresso nell’art. 2697 cod. civ., che onera l’attore (sia il danneggiato in sede extracontrattuale che il creditore in sede contrattuale) della prova degli elementi costitutivi della propria pretesa;

ciò vale, ovviamente, sia in riferimento al nesso causale materiale (attinente alla derivazione dell’evento lesivo dalla condotta illecita o inadempiente) che in relazione al nesso causale giuridico (ossia all’individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli dell’evento lesivo);

trattandosi di elementi egualmente “distanti” da entrambe le parti (e anzi, quanto al secondo, maggiormente “vicini” al danneggiato), non c’è spazio per ipotizzare a carico dell’asserito danneggiante una “prova liberatoria” rispetto al nesso di causa, a differenza di quanto accade per la prova dell’avvenuto adempimento o della correttezza della condotta;

nè può valere, in senso contrario, il fatto che l’art. 1218 cod. civ. faccia riferimento alla causa, laddove richiede al debitore di provare “che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”: infatti, come condivisibilmente affermato, di recente, da questa Corte (Cass. Cass., 26/07/2017, n. 18392), la causa in questione attiene alla “non imputabilità dell’impossibilità di adempiere”, che si colloca nell’ambito delle cause estintive dell’obbligazione, costituenti “tema di prova della parte debitrice”, e concerne un “ciclo causale” che è del tutto distinto da quello relativo all’evento dannoso conseguente all’adempimento mancato o inesatto.

Da quanto esposto deriva, secondo l’anticipato orientamento, che nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica è onere dell’attore, paziente danneggiato, dimostrare l’esistenza del nesso causale tra la condotta del medico e il danno di cui chiede il risarcimento, onere che va assolto dimostrando, con qualsiasi mezzo di prova, che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, la causa del danno, con la conseguenza che, se, al termine dell’istruttoria, non risulti provato il suddetto nesso tra condotta ed evento, la domanda dev’essere rigettata.

E’ stato osservato come questa conclusione non si ponga in contrasto con quanto affermato sin da Cass., Sez. U., 11/01/2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”. Questo principio venne infatti affermato a fronte di una situazione in cui l’inadempimento “qualificato”, allegato dall’attore (ossia l’effettuazione di un’emotrasfusione) era tale da comportare di per sè, in assenza di fattori alternativi “più probabili”, nel caso singolo di specie, la presunzione della derivazione del contagio dalla condotta. La prova della prestazione sanitaria conteneva già, in questa chiave di analisi, quella del nesso causale, sicchè non poteva che spettare al convenuto l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, e non la prova liberatoria richiesta dall’art. 1218 cod. civ..

Ciò posto, deve rilevarsi, però, che nel caso in delibazione la corte territoriale, poggiando sugli approfondimenti peritali officiosi e in assenza di diverse prove offerte dagli attori, ha positivamente accertato che:

a) anche in ipotesi di tempestiva comunicazione del rilievo diagnostico, non si sarebbe potuta ottenere la guarigione (pag. 10, ultimo capoverso, della sentenza impugnata);

b) tale conclusione era stata avallata anche dal consulente di parte attorea (pag. 11, primo capoverso);

c) il pregiudizio subito, di cui vi era prova, era quello della minor sopravvivenza, il cui risarcimento era stato liquidato dal tribunale senza censure sul “quantum” (pagg. 11-12, secondo capoverso).

Parte ricorrente fonda in sintesi l’assunto della sopravvivenza a 5 anni e non a 12-24 mesi come ritenuto dal collegio di merito in base all’istruttoria, in specie peritale, appena richiamata – sull’affermazione per cui “la stadiazione della malattia nel febbraio 2001 era verosimilmente IB” (pag. 25) con conseguente probabilità di sopravvivenza, secondo le statistiche riportate da uno dei periti di ufficio, al 57% per gli operati (pag. 27). Ma il presupposto stesso dell’affermazione, ossia quello afferente alla stadiazione della malattia, noni indicato nè trascritto su quale dato istruttorio in tesi obliterato sia poggiato, atteso che, come evincibile dalle indicazioni del perito d’ufficio, al riguardo erano formulabili “solo ipotesi” (pag. 22). Ciò assorbe l’ulteriore e mera affermazione per cui la sopravvivenza a 5 anni equivarrebbe clinicamente a guarigione, anch’essa solo tale e poggiata su dati istruttori – la tabella INAIL per le malattie tumorali – di cui neppure si dimostra la deduzione nelle fasi di merito, e quindi oggetto d’inammissibile novità assertiva, ulteriore a quella derivante dalla carenza di pertinenza e dunque di decisività.

Parimenti attinta da ulteriore inammissibilità è l’allegazione delle indicazioni del perito di parte riportate a pag. 33-36 del ricorso, prive di decisività sia perchè anch’esse afferenti a mere ipotesi di sopravvivenza rispetto alle stadiazioni della malattia, sia perchè nel resto dirette a contrastare solo il rilievo della corte di appello per cui l’eventuale intervento chirurgico avrebbe comunque peggiorato le condizioni di vita (pag. 12, quarto capoverso, della sentenza impugnata).

Evidentemente, poi, l’affermazione per cui l’accelerazione del tempo del decesso equivarrebbe, ai fini della responsabilità civile, a cagionare la morte, si risolve in una mera mimesi lessicale: si tratta dello stesso pregiudizio della minor sopravvivenza accertato e liquidato a titolo risarcitorio dai giudici di merito.

Ne discende che non vi è stata violazione del corretto riparto degli oneri probatori e nessuna violazione del regime legale del nesso causale, la cui dimensione è stata in concreto e in fatto accertata, nonchè alcuna omessa pronuncia sul conseguente danno da morte.

E’ opportuno altresì ribadire che la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura solamente se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onere della prova a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (Cass., Sez. U., 05/08/2016, n. 16598, pag. 35).

Va dato altresì seguito al principio per cui in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli invocati artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, bensì un errore di fatto, che dev’essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass., 12/10/2017, n. 23940). E il vizio motivazionale non risulta qui formulato.

A fronte di tale quadro normativo, residua un inammissibile tentativo di rilettura istruttoria, che non sarebbe stata idonea a integrare neppure l’omesso esame di un fatto decisivo e discusso quale qui deducibile (nei termini di Cass., Sez. U., 07/04/2014, n. 8053; Cass., 12/10/2017, n. 23940).

3.1. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente inammissibile.

In tema di spese processuali, difatti, il sindacato della Corte di cassazione è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi (cfr., da ultimo, Cass., 17/10/2017, n. 24502).

3.2. Il primo motivo di ricorso incidentale è inammissibile.

Nel giudizio di legittimità va tenuta distinta l’ipotesi in cui si lamenti l’omesso esame di una domanda da quella in cui si censuri l’interpretazione che ne ha dato il giudice del merito. Nel primo caso, si verte in tema di violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., e si pone un problema di natura processuale. Nel secondo caso, invece, poichè l’interpretazione della domanda e l’individuazione del suo contenuto integrano un tipico accertamento di fatto riservato, come tale, al giudice del merito, in sede di legittimità va solo effettuato il controllo della correttezza della motivazione che sorregge sul punto la decisione impugnata (Cass., 18/05/2012, n. 7932). Posto dunque che l’interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, ove questi abbia espressamente ritenuto ricostruttivamente che una certa domanda era stata avanzata – ed era compresa nel “thema decidendum” – tale statuizione non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato il vizio motivazionale, qualora deducibile e nel relativo perimetro (Cass., 05/02/2014, n. 2630; Cass., 27/10/2015, n. 21874).

Nella fattispecie non è stata specificatamente censurata la motivazione della corte territoriale per cui la deduzione dell’aggravamento ricomprendeva letteralmente e logicamente quella della minor sopravvivenza (pagg. 8-9). Ne deriva l’anticipata inammissibilità.

3.3. Risulta assorbito il secondo motivo di ricorso incidentale poichè condizionato.

4. Spese compensate in ragione della reciproca soccombenza sopra ricostruita, e quanto al resto sussistendo giusti motivi in relazione alla peculiarità della controversia, tenuto conto del regime “ratione temporis” applicabile.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara inammissibile il primo motivo di ricorso incidentale, assorbito il secondo. Spese compensate.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, il 8 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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