LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – rel. Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
Y.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELL’UNITA’ N. 13, presso lo studio dell’avvocato RANUCCI LUISA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FERRANTI PAOLO;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELL’INTERNO *****;
– intimato –
avverso la sentenza n. 249/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO, emessa il 31/10/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 25/09/2018 dal Presidente Relatore Dott.ssa DI VIRGILIO ROSA MARIA.
La Corte:
RILEVATO
che:
Con sentenza depositata il 18/1/2018, la Corte d’appello di Milano ha rigettato l’appello proposto da A.Y., cittadino *****, avverso l’ordinanza del Tribunale di Milano in data 20/1/2017.
La Corte del merito ha ritenuto che la storia personale dell’appellante non provava elementi ostativi al rientro in patria (l’ A. aveva dedotto che il padre, attivista del partito NPP, era deceduto nel *****, e di avere lasciato il paese di origine a ragione della relazione con una ragazza, il cui padre era di diverso partito politico e si era opposto a detta relazione, facendo arrestare l’ A. e minacciandolo di morte; di essere fuggito a novembre 2013, dopo che la sua ragazza era stata trovata inspiegabilmente morta nell’appartamento del ragazzo, e di essere rimasto in Libia sino al 2014, per poi arrivare in Italia a giugno 2014); che l’appellante si era allontanato dal paese di origine per questioni essenzialmente di natura personale; che la situazione del ***** non è caratterizzata da un conflitto diffuso o violenza generalizzata, come riscontrabile alla stregua dei siti che raccolgono i dati relativi; che il racconto era altresì generico nel riferimento alle minacce del padre della ragazza; che pertanto non sussistevano i requisiti di legge per il riconoscimento della protezione internazionale nè della sussidiaria nè della umanitaria, in mancanza di prova di una qualche situazione di vulnerabilità dell’appellante.
Ricorre avverso detta pronuncia l’ A. sulla base di due motivi.
Il Ministero non ha svolto difese.
CONSIDERATO
che:
Col primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e difetto di motivazione, per non avere la Corte d’appello motivato in relazione alle specifiche circostanze dedotte che integrano una estrema condizione di vulnerabilità, in caso di rientro nel paese di origine, e che quindi ben supportano la richiesta di concessione della protezione umanitaria.
Col secondo, il ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 10 Cost. in relazione agli artt. 32 e 25 della Dichiarazione universale dei Diritti dell’uomo e del vizio di motivazione, sostenendo la doverosità del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, visto che il ritorno in ***** porterebbe all’innegabile negazione del diritto alla salute ed all’alimentazione e denuncia che su tale aspetto la Corte del merito non ha motivato.
Rilevato che:
La Corte d’appello, dopo avere ritenuto motivatamente che l’ A. si era allontanato dal ***** solo per risolvere questioni di natura essenzialmente personale e che nel detto paese africano non risultano esservi conflitti diffusi o violenza generalizzata, e quindi respinte le domande di protezione internazionale, ha motivato il diniego della protezione umanitaria, ritenendo, alla stregua di quanto già esposto, insussistenti situazioni di vulnerabilità dell’ A. legate all’età, alle condizioni di salute, e di necessità familiari.
E’ opportuno premettere che il diritto di asilo è interamente regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste dai tre istituti dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera dell’esaustiva normativa di cui al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251 e di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma 6; con la conseguenza che non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione (così, tra le altre, le pronunce 10686 del 2012 e 16362 del 2016).
Ciò posto, si deve rilevare che con la recente pronuncia 4455/2018, questa Corte ha affermato che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (in applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che, in assenza di comparazione, aveva riconosciuto ad un cittadino gambiano presente in Italia da oltre tre anni il diritto al rilascio del permesso di soggiorno in ragione della raggiunta integrazione sociale e lavorativa in Italia allegando genericamente la violazione dei diritti umani nel Paese d’origine).
Ora, tale principio esige una valutazione comparativa concreta, che richiede la specifica considerazione della vita privata e familiare del richiedente in Italia in relazione alla situazione personale vissuta nel paese di provenienza ed a cui si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio.
Ciò posto, si deve rilevare che il primo motivo è argomentato sulla base dei fatti avvenuti, secondo la parte, in Gambia, a fronte della valutazione motivatamente effettuata dalla Corte d’appello, che ha ritenuto la natura sostanzialmente personale della partenza dal paese di origine, evidenziando anche la genericità della narrazione da parte dell’ A., in relazione in particolare alle minacce di morte ricevute dal padre della ragazza con cui l’appellante aveva una relazione, e che la stessa parte non aveva “mai riferito di avere subito concrete minacce di sorta, nè alcuna discriminazione, neppure nell’ambito del vicinato”.
Il motivo è quindi inammissibile, in quanto volto a far valere una diversa valutazione dei fatti.
Il secondo mezzo è sostanzialmente fondato sulla mera generica considerazione delle condizioni di vita in *****, inferiori, quanto al diritto alla salute ed all’alimentazione, rispetto a quelle esistenti in Italia, e privo persino del necessario riferimento alle condizioni personali dell’ A. in Italia: come tale, il motivo va respinto.
Non si dà pronuncia sulle spese, essendo rimasto intimato il Ministero dell’Interno.
P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018