LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PETITTI Stefano – Presidente –
Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
Dott. PICCONE Valeria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2713-2012 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
G.R.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 452/2010 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di FOGGIA, depositata il 06/12/2010;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/06/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO FEDERICO che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato PELUSO che ha chiesto l’accoglimento.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza n. 452/25/10, depositata il 6.12.2010 dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, Sez. Staccata di Foggia.
Ha riferito che alla contribuente G.R. il 19.12.2008 era notificato l’avviso di accertamento n. *****, con il quale si accertava sinteticamente un reddito di vecchie Lire 245.400.000 per l’anno 2000. L’accertamento, eseguito ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 per omessa dichiarazione dei redditi, era fondato sulla rilevazione dell’aumento di capitale da Lire 96.000.000 a Lire 2.550.000.000, deliberato in quell’anno dalla società CO.GE.I., di cui la G. era amministratore unico e legale rappresentante. Poichè a questo aumento la contribuente risultava aver partecipato per l’importo di Euro 1.227.000.000, per il suddetto anno d’imposta il reddito era stato quantificato in 1/5 della partecipazione, secondo quanto previsto dal D.P.R. n. 600 cit., art. 38, comma 5, ratione temporis vigente.
La G., che contestava l’accertamento, adiva la Commissione Tributaria Provinciale di Foggia, la quale rigettava il ricorso con sentenza depositata il 14.05.2010.
Adita la Commissione Tributaria Regionale, l’appello della contribuente era accolto.
L’Agenzia censura con due motivi la sentenza:
con il primo per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 38 e 41 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per aver travisato le norme sull’accertamento con metodo induttivo e mal governato l’onere della prova;
con il secondo per insufficienza ed illogicità della motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per aver erroneamente interpretato la sentenza di primo grado.
Ha chiesto pertanto la cassazione della sentenza.
La contribuente, nonostante la rituale notificazione del ricorso, non si è costituita. All’udienza pubblica del 14.06.2018 la ricorrente e il P.G. concludevano e la causa era trattenuta in decisione.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso risulta ritualmente proposto, senza che si configurino elementi di inammissibilità, sotto il profilo della autosufficienza come della specifica indicazione degli atti di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.
Nel merito i due motivi possono essere trattati unitariamente, atteso che con essi, sotto i profili della violazione delle norme di diritto e del vizio motivazionale, la ricorrente si duole della erronea interpretazione della disciplina normativa e dei fatti evincibili dall’accertamento induttivo.
La sentenza d’appello così motiva “E’ oscuro, infatti, l’iter logico giuridico seguito in base al quale il giudice di prime cure ha ritenuto che la somma di Lire 1.277.000.000, pur non posseduta dall’appellante è stata da costei versata nelle casse della società CO.GE.I. s.r.l., senza però che vi sia stato un aumento di capitale” e, dopo aver riportato a questo punto le motivazioni della sentenza appellata, conclude “Ora, in base ai suddetti rilievi e constatazioni, appare in tutta evidenza, a questo Collegio, l’infondatezza della pretesa fiscale, essendo stato acclarato dal Giudice di prime cure l’inesistenza della proprietà e della disponibilità della somma di Lire 1.277.000.000 in capite della sig.ra G.R.. Emerge così anche la contraddittorietà tra la motivazione e il dispositivo della sentenza impugnata, in quanto il Giudice di primo grado avrebbe dovuto accogliere il ricorso, con le conseguenze di legge”.
Deve innanzitutto avvertirsi che l’accertamento sintetico per cui è causa è stato eseguito ai sensi del D.P.R. n. 600 cit., art. 41 in ipotesi di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, ricorrendo pertanto la possibilità di utilizzare presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza.
A prescindere dalla ricorribilità alle cd. presunzioni supersemplici, la disciplina dell’accertamento sintetico è dettata dal D.P.R. n. 600, art. 38 il quale, secondo il testo all’epoca vigente – tra la L. n. 413 del 1991 e il D.L. n. 78 del 2010, convertito con L. n. 122 del 2010 – prevedeva la possibilità di presumere induttivamente il reddito complessivo netto sulla base di una serie di elementi e circostanze di fatto certi, costituenti indici di capacità contributiva, connessi alla disponibilità di determinati beni o servizi ed alle spese necessarie per il loro utilizzo e mantenimento (comma 4). Prevedeva inoltre che quando erano sostenute spese per l’acquisto di beni destinati ad incrementare durevolmente il patrimonio del contribuente, manifestandosi in tale operazione la percezione di un reddito, quella spesa era imputata in quote costanti nell’anno in cui era stata effettuata, e nei quattro anni precedenti (comma 5). La scelta normativa costituiva una regola fondata sull’id quod plerumque accidit, presumendo che una spesa, tendenzialmente elevata, non fosse tutta riconducibile al reddito acquisito nell’anno d’imposta accertato, ma a più anni, durante i quali convenzionalmente (un quinquennio) il capitale era stato accumulato.
In queste ipotesi emergeva pertanto l’onere della Amministrazione di accertare l’incremento patrimoniale mediante la dimostrazione di una spesa, generalmente risultante da un atto formale; dal fatto noto accertato si presumeva la percezione di un reddito, acquisito in un arco temporale convenzionale, con il quale quella spesa era stata sostenuta. Era peraltro salvo il diritto del contribuente di addurre la prova contraria, ossia di dimostrare l’esistenza di redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta (ciò anche con riguardo alla posizione reddituale di altri componenti dell’eventuale nucleo famigliare) o di dimostrare che il reddito presunto non esisteva o esisteva in misura inferiore, o ancora che il pagamento del prezzo non era avvenuto, non denotando l’acquisto una reale disponibilità economica (perchè a tanto si era ad esempio provveduto con la contrazione di un mutuo).
Dalla breve esposizione emerge innanzitutto che se il rilevato aumento di capitale di una società non è di per sè sufficiente a ritenere che sia stato occultato un reddito, potendo il detto aumento, in astratto, essere effettuato con modalità che non comportano un effettivo esborso di somme, è altrettanto necessario che il contribuente alleghi una prova che spieghi come alla astratta manifestazione di una spesa non corrisponda un reddito.
Perimetrata l’area di indagine, nel caso di specie l’Amministrazione si duole della motivazione con cui il giudice regionale ha ritenuto infondato l’accertamento sintetico, sostenendo che la stessa motivazione del giudice di primo grado, favorevole all’Ufficio, fosse contraddittoria, perchè per un verso affermava che non vi era stato alcun aumento di capitale sociale (dunque mancava la manifestazione di spesa), per altro verso confermava l’atto impositivo. In particolare la ricorrente evidenzia che il giudice regionale ha trascurato di riportare il passaggio più significativo della sentenza del giudice di primo grado, in cui si afferma che “il maggior reddito accertato sinteticamente, derivante dall’aumento del capitale sociale, è da considerarsi reddito dí capitale derivante dal reinvestimento degli utili nel corso del quinquennio e in assenza da parte del contribuente di ogni prova idonea a dimostrare l’appartenenza ad altre categorie di reddito.”.
In altri termini, posto che, come emerge dal ricorso e dalla pronuncia impugnata, è incontestato che con il verbale di assemblea straordinaria della società, della quale la G. era amministratrice unica e legale rappresentante, redatto l’8.01.2001, era deliberato l’aumento di capitale da 96.000.000 a 2.454.000.000 di Lire, e posto che incontestatamente la contribuente sottoscriveva Lire 1.227.000.000, l’operazione identifica una specifica manifestazione di spesa. La circostanza che non sia risultato il versamento delle somme da parte della G., che il giudice di merito ha ritenuto indice di un aumento fittizio del capitale, non inficia di per sè l’esistenza della operazione, perchè, come prospettato dall’Ufficio e rilevato dal giudice di primo grado, ciò può trovare causa nella conversione di utili sociali in capitale.
A fronte di tali dati emerge che il giudice regionale non ha correttamente tenuto conto della disciplina dettata dal D.P.R. n. 600 cit., artt. 41 e 38 (ratione temporis vigente) nè ha dimostrato di fare buon governo dei principi sulla distribuzione dell’onere probatorio per l’ipotesi di accertamento sintetico; ad un tempo ha reso una motivazione insufficiente, limitata a prospettare un aumento fittizio del capitale, senza tener conto che tale aumento era stato comunque deliberato, sicchè, con versamenti diretti, o con l’utilizzo di utili tenuti in cassa, allo stesso deve essersi provveduto. Spettava poi alla contribuente dare prova di come avesse provveduto all’aumento del capitale e, se ad esempio ciò fosse avvenuto mediante utili non distribuiti, dare prova che su di essi fossero già stati adempiuti gli obblighi fiscali.
La sentenza va pertanto cassata e rinviata alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, che deciderà tenendo conto dei principi enucleati in motivazione, esaminando peraltro gli elementi probatori addotti e comunque decisivi per la decisione della controversia, e deciderà sulle spese del presente giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, che deciderà, anche sulle spese del presente giudizio, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 14 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018