LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
Dott. PERINU Renato – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 24511/2011 R.G. proposto da:
Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempre, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;
– ricorrente –
contro
M.P., rappresentata e difesa dall’Avv. Nicola Palombi, come da procura speciale a margine del ricorso, elettivamente domiciliata presso lo studio legale D’Ercole, in Roma, Piazza di Sant’Andrea della Valle, n. 6;
– controricorrente – ricorrente incidentale –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 158/22/2010, depositata il 9 luglio 2010;
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 settembre 2018 dal Consigliere Luigi D’Orazio.
RITENUTO IN FATTO
1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento, notificato il 21-12-2005, nei confronti di M.P., esercente attività di produzione e commercio di abiti da sposa, in relazione all’anno 2003, per avere omesso di indicare separatamente i costi sostenuti per acquisire beni da fornitori con sede in *****, per un ammontare complessivo di Euro 351.366,45, con conseguente indeducibilità dei costi ed applicazione della sanzione per dichiarazione infedele, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 11. In sede di accertamento con adesione, dopo l’accesso del *****, la contribuente aveva già dimostrato l’effettiva attività commerciale svolta dai fornitori e l’interesse economico delle operazioni effettuate.
2. La contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale rilevando che l’omissione della indicazione separata poteva implicare solo profili sanzionatori, ma non poteva ripercuotersi sulla misurazione dell’imposta.
3. La Commissione tributaria provinciale dichiarava illegittimo l’avviso di accertamento tenendo conto della L. n. 296 del 2006, che aveva modificato il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma.
4. L’Agenzia delle entrate proponeva appello solo per le sanzioni, chiedendo di “confermare l’avviso di accertamento impugnato, nella parte relativa alle sole sanzioni, rideterminando queste ultime nella misura prevista dalla L. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis”, in quanto la Commissione provinciale aveva annullato sia la ripresa a tassazione dei costi, sia interamente anche le sanzioni.
5. La contribuente controdeduceva evidenziando che l’Agenzia in appello aveva chiesto “una fattispecie del tutto diversa da quella oggetto dell’avviso di accertamento”. Le sanzioni applicate in sede di accertamento erano state annullate in conseguenza dell’annullamento dell’avviso di accertamento, mentre quelle richieste in sede di appello per la prima volta non potevano essere applicate in quanto non accertate.
6. La Commissione tributaria regionale accoglieva in parte l’appello, non applicando la sanzione amministrativa pari al 10% dei costi dedotti, ai sensi della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 302, ma la sanzione di cui all’art. 1, comma 303, riferito alle violazioni commesse prima dell’entrata in vigore della legge suddetta, quindi la sanzione ivi richiamata di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, da un minimo di 500.000 Lire ad un massimo di Lire 2.000.000, reputando congrua la sanzione di Euro 1.000,00.
7. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.
7. Resisteva la contribuente con controricorso, contenente ricorso incidentale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia deduce “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis e della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto la L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, dispone che il comma 302, che ha aggiunto al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, il comma 3 bis (sanzione pari al 10% dell’importo delle spese), si applichi in via retroattiva anche alle violazioni (omessa separata indicazione dei costi per acquisti da Paesi a fiscalità privilegiata) commesse prima della data di entrata in vigore di tale legge. Pertanto, ai fini sanzionatori, l’omessa indicazione separata dei costi relativi ad operazioni con Paesi inclusi nella black list resta illecita, ma non integra più, in presenza dei relativi presupposti (prova della effettiva attività commerciale della società estera e della effettiva realizzazione delle operazioni), la violazione della infedele dichiarazione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 1, comma 2, (sanzione dal 100% al 200% della maggiore imposta dovuta), ma quella meno severa prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, nuovo comma 3 bis, di importo pari al 10% dei costi non indicati separatamente, fino ad un massimo di Euro 50.000, oltre (in aggiuntà) la sanzione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, comma 1.
1.1. Tale motivo è fondato.
1.2. Invero, secondo il più recente ed ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, come ricapitolata in Cass. 5085/2017 (che richiama Cass. n. 11933 del 2016), la materia è regolata dai seguenti principi:
a) con decorrenza dal 1 gennaio 2007, la L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, commi 301 e 302 (il primo modificando il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, commi 10 e 11 – già art. 76, commi 7 bis e 7 ter il secondo mediante l’inserimento del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis) hanno mutato la disciplina che sanciva l’indeducibilità dei costi scaturenti da operazioni commerciali intercorse con soggetti residenti in Stati a fiscalità privilegiata (cd. paesi black list) – ove non fosse provato che i contraenti esteri svolgessero effettiva attività commerciale, che le operazioni poste in essere rispondessero ad un effettivo interesse economico, che le stesse avessero avuto concreta esecuzione e, in ogni caso, che i costi non fossero stati separatamente indicati nella dichiarazione dei redditi -, degradando la separata indicazione dei costi da presupposto sostanziale della relativa deducibilità ad obbligo di carattere formale, passibile di corrispondente sanzione amministrativa, pari al 10 per cento dell’importo complessivo delle spese e dei componenti negativi non (separatamente) indicati nella dichiarazione, con un minimo di Euro 500 ed un massimo di Euro 50.000;
b) in ordine al regime transitorio dettato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, anche le violazioni dell’obbligo di separata indicazione dei costi in esame poste in essere prima dell’entrata in vigore della legge non comportano, di per se stesse, l’applicazione del regime di assoluta indeducibilità dei costi medesimi (e di connessa sanzionabilità ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, ex art. 1, comma 2), in quanto degradate a violazioni di carattere formale, soggette alla sanzione proporzionale suddetta, alla quale (solo per le situazioni di regime transitorio e, dunque, già assoggettate al rigoroso regime d’indeducibilità, come nella specie) si cumula, in forza del comma 303 cit., u.p. la sanzione prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, (che, per i vizi formali della dichiarazione, prevede la sanzione amministrativa da Euro 258 a Euro 2065). Non può, dunque, condividersi la diversa lettura della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 303, fornita dalla controricorrente a pag. 30 del controricorso, per cui la sanzione di cui al comma 302 (pari al 10% dell’importo complessivo) si applica non “sempre che”, come espressamente previsto dalla norma, ma “salvo che” il contribuente dimostri l’effettiva operatività delle società estere e la convenienza economica delle operazioni, con applicazione, in caso di dimostrazione delle esimenti suddette, delle sanzione più blanda di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1. Come detto, invece, l’interpretazione corretta impone, nel caso in cui il contribuente fornisca la prova delle esimenti (“sempre che”), l’applicazione della sanzione più blanda ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1, “in aggiunta” a quella di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 3022 (Cass. Civ., 6 aprile 2016, n. 6651;
Cass. Civ., 24 luglio 2018, n. 19624; Cass.Civ.,7 giugno 2018, n. 14852).
c) tale lettura della disciplina di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 301, 302 e 303 – che appare l’unica idonea a garantirne la tenuta sul piano della razionalità – non viola il principio di legalità, posto che, sotto il profilo sanzionatorio e degli effetti che ne conseguono, il regime introdotto dalla normativa sopravvenuta è, nel suo complesso, certamente meno gravoso, per il contribuente, rispetto a quello previgente (Cass. n. 4030, n. 6205 e n. 21955 del 2015, 6338 e 6651 del 2016);
d) costituiscono causa ostativa alla presentazione della dichiarazione integrativa di cui al D.P.R. n. 322 del 1998, art. 2,comma 8 e – più specificamente – 8 bis, non solo la contestazione della violazione, ma anche l’inizio delle operazioni di verifica – nella specie risulta che la dichiarazione integrativa è stata presentata dalla contribuente solo il 31-10-2005 (cfr. pag. 3 del controricorso), dopo l’inizio dei controlli attivati dall’amministrazione finanziaria in data ***** – in quanto in tal caso la correzione si risolverebbe in uno strumento elusivo delle sanzioni previste dal legislatore per l’inosservanza delle prescrizioni relative alla compilazione delle dichiarazioni dei redditi (tra altre, Cass. Civ., n. 5398 del 2012, n. 14999, n. 15285 e n. 15798 del 2015, 6651 del 2016); inoltre (ed anzi, sul piano logico-giuridico, ancor prima), la peculiare fattispecie in esame, in cui l’inosservanza dell’onere dell’indicazione separata dei costi deducibili impediva (prima della novella introdotta dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303) il perfezionamento della stessa fattispecie costitutiva del diritto alla deduzione di tali spese, è del tutto diversa dalle situazioni contemplate dall’art. 2 cit., commi 8 e 8 bis, poichè l’intervento emendativo non ha, in questo caso, la funzione di rideterminare correttamente componenti reddituali positivi o negativi omessi o errati, o di correggere errori di calcolo (così incidendo direttamente sul quantum di crediti e debiti esistenti al momento della presentazione della dichiarazione), ma è volto inammissibilmente a costituire ex novo un diritto alla deduzione di determinate spese – prima inesistente, del quale, cioè, il contribuente non era già titolare (Cass. N. 24929 del 2013, nonchè le citate Cass. n. 14999, n. 15285 e n. 15798 del 2015, n. 6651 del 2016).
Inoltre, nessun rilievo assume lo ius superveniens rappresentato dalla L. 28 dicembre 2015, n. 208, art. 1, comma 142, lett. a, che ha abrogato l’art. 110, commi da 10 a 12 bis, stante l’irretroattività di tale normativa (Cass. Civ., 6 aprile 2016, n. 6651).
2. Con ricorso incidentale la M. deduce “Violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, prima parte e D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto l’Agenzia delle entrate, in sede di appello, ha proposto una domanda nuova con riferimento alla applicazione delle sanzioni di cui alla L. n. 296 del 2006, art. 1,comma 302, mentre nell’avviso di accertamento si prevedeva l’applicazione della sanzione “accessoria” di Euro 56.781,00. In sede di appello, invece, l’Agenzia ha chiesto la conferma dell’avviso di accertamento nella sola parte relativa alle sanzioni e la rideterminazione delle stesse nella misura prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis, (“rideterminando queste ultime (sanzioni) nella misura prevista dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis “). La novità atterrebbe, quindi, alla applicazione del nuovo regime sanzionatorio disciplinato dalla L. n. 471 del 1997, art. 1, commi 302 e 303. In materia tributaria sussistono, quindi, due tipologie di sanzioni: quelle legate al recupero di materia imponibile, quindi applicate dalla Agenzia delle entrate con l’avviso di accertamento in questo processo, legate a violazioni di tipo sostanziale; quelle, di carattere solo formale, che prescindono del tutto da imposte cui correlarsi.
Per la M., infatti, vi è stata illegittima introduzione di domande nuove, con applicazione di sanzioni (solo formali), non accertate dall’Agenzia delle entrate con l’avviso emesso, ma chieste per la prima volta in sede di appello.
2.1. Il ricorso incidentale non merita accoglimento.
Invero, l’Agenzia delle entrate, chiedendo in sede di appello, la rideterminazione delle sanzioni, tenendo conto della L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303 e quindi del D.Lgs. n. 471 del 1997, comma 3 bis, non ha in alcun modo modificato il thema dedicendum, incorrendo in una inammissibile mutatio libelli.
La domanda originaria della Agenzia delle entrate, cristallizzata nell’avviso di accertamento, concernente anche l’applicazione delle sanzioni per omessa indicazione separata dei costi per acquisti da Paesi a fiscalità privilegiata (black list), è rimasta immutata. Il fatto costitutivo della pretesa della Amministrazione finanziaria è stato sempre rappresentato dalla omessa separata indicazione dei costi. Tale fatto è rimasto immutato anche in appello, benchè l’Agenzia si sia limitata a chiedere la sola “rideterminazione” delle sanzioni tenendo conto dello ius superveniens recato dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, commi 302 e 303, essendo venuta meno ormai la indeducibilità dei costi.
Peraltro, si ritiene che, in tema di impugnazione di sanzioni tributarie, non costituisce domanda nuova, ed è, pertanto, proponibile in sede di gravame, da parte dell’Amministrazione Finanziaria, la mera variazione quantitativa del “petitum” dipendente da una normativa sopravvenuta o da un evento, parimenti sopravvenuto, necessariamente collegato a quello iniziale – nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto inammissibile, perchè qualificata come “novum” in appello, la richiesta di riduzione della misura della sanzione tributaria in conseguenza dello “ius superveniens” rappresentato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 144 del 2005 – (Cass. Civ., 23 maggio 2014, n. 11470).
In un recente precedente, del resto, questa Corte ha ritenuto che la Commissione regionale può applicare in sede di gravame la sanzione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis, per omessa separata indicazione dei costi, con effetto retroattivo L. n. 296 del 2006, ex art. 1, comma 303, pur avendo la Commissione basato la sua decisione (di applicazione della sanzione), su un argomento (applicabilità della sanzione pur a fronte della comprovata realtà degli acquisti),diverso da quello dedotto dalla Agenzia delle entrate con i motivi di appello (applicabilità della sanzione stante l’avvenuta presentazione della dichiarazione integrativa successivamente all’accertamento dell’ufficio), senza incorrere nel vizio di cui all’art. 342 c.p.c., non essendo stati introdotti in giudizio elementi materiali o fattuali non dedotti dalle parti, ma trattandosi di mera attività interpretativa della normativa di riferimento (Cass. Civ., 28 giugno 2018, n. 17179).
3. Non si può decidere nel merito, essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto. Infatti, con riferimento alla sanzione di cui si discute, solo la prima sanzione del 10% dei costi potrebbe essere univocamente determinata nel suo ammontare dalla legge (Euro 35.366), ai sensi del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis, inserito dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 302, che prevede il limite minimo di Euro 500,00 e massimo di Euro 50.000,00.
Tuttavia, deve essere applicata in aggiunta anche l’ulteriore sanzione da Euro 250,00 ad Euro 2.000,00 di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 1.
La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che si adeguerà al principio di diritto di cui al paragrafo 1.2., dovendo aggiungere anche la sanzione di cui al D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 8, comma 3 bis e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
In accoglimento del ricorso principale, rigettato il ricorso incidentale, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 18 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018