Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.27622 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10648/2012 R.G. proposto da:

A.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Monti Parioli n. 8/10 presso lo studio dell’Avv. Adriana Boscagli, unitamente all’Avv. David Pellegrino, da cui è rappresentato e difeso nel presente giudizio, con procura speciale in cale al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempre, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 349/28/2011, depositata il 15 novembre 2011.

Nonchè sul ricorso iscritto al n. 25152/13 proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro tempre, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

A.P., elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Monti Parioli n. 8/10 presso lo studio dell’Avv. Adriana Boscagli, unitamente all’Avv. David Pellegrino, da cui è rappresentato e difeso nel presente giudizio, con procura speciale in cale al controricorso

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 155/29/2012, depositata il 20 settembre 2012.

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 19 settembre 2018 dal Consigliere Dott. Luigi D’Orazio.

RITENUTO IN FATTO

1. l’Agenzia delle entrate con avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2004 determinava, tra l’altro, maggiori redditi dell’impresa gestita da A.P., esercente attività di commercio all’ingrosso ed al dettaglio di prodotti per la pulizia, per Euro 771.503,00, con maggiori imposte Irpef (Euro 346.465), Iva (Euro 154.300,00) ed Irap (Euro 32.798), oltre sanzioni ed interessi. L’accertamento si fondava su elementi presuntivi ricavati dalla documentazione extracontabile rinvenuta presso la sede dell’impresa, ed in particolare sul ritrovamento di “buoni di consegna” di merci che non avevano trovato riscontro nelle scritture contabili, facendo così presume vendite effettuate senza emissione di fattura.

1.1. In sede di accertamento con adesione si chiariva che “la parte a titolo di esempio ha ricostruito circa 20 buoni tra quelli presi a base di constatazione (circa 300)”.

2. Proponeva ricorso il contribuente evidenziando che il maggior reddito era stato determinato sulla scorta di documentazione priva di alcun valore probatorio, in quanto i foglietti rinvenuti presso la sede dell’impresa, con le indicazioni “consegna ND” o “DIST”, erano semplici buoni di “incasso” (ND intesa come Note Debito) e DIST (come Distinta di Fattura), per “fatture già legittimamente emesse”, quindi buoni di incasso relativi a fatture già emesse, ma per le quali non vi era stato ancora il pagamento. Tra l’altro tali buoni erano privi di riferimenti specifici a prodotti, come quantità, qualità e prezzi. Non trattavasi, dunque, di buoni di consegna di merci vendute “in nero”. Nè la Guardia di finanza aveva elaborato il conto economico, tenendo conto di tale contabilità, perchè si sarebbe avveduta che la percentuale di ricarico sarebbe stata enorme, pari al 12% a fronte del 6%, per una attività di vendita all’ingrosso di detersivi.

3. La Commissione tributaria provinciale accoglieva solo in parte il ricorso, annullando la rettifica relativamente al maggior reddito di impresa accertato, confermando nel resto l’avviso di accertamento.

4. La Commissione tributaria regionale rigettava l’appello proposto dal contribuente, evidenziando che il rinvenimento di documentazione extracontabile, non riportata nelle scritture contabili, costituiva adeguato mezzo di prova per dimostrare la sussistenza di maggiori redditi rispetto a quelli dichiarati, che tale documentazione rivestiva i requisiti degli indizi gravi, precisi e concordanti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, che non poteva essere condivisa la tesi del contribuente, in quanto le sigle ND o DIST non potevano interpretarsi come nota di debito o nostra distinta, non avendo trovato conferma i buoni nelle scritture contabili. Il contribuente non aveva fornito prova contraria.

5. Avverso tale sentenza il contribuente proponeva ricorso per cassazione (procedimento n. 10648/2012) e ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, per errore di fatto risultante dagli atti di causa, dinanzi alla Commissione tributaria regionale.

6. L’Agenzia delle entrate resisteva con controricorso nel procedimento 10648/2010).

7. La Commissione tributaria regionale, con sentenza 155/29/12, depositata il 20-9-2012, accoglieva il ricorso per revocazione presentato dal contribuente.

8. Avverso tale sentenza presentava ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate (proc. 25152/2013).

9. Resisteva controricorso il contribuente.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Anzitutto, deve procedersi alla riunione al procedimento n. 10648/2012 di quello n. 25152/2013, per ragioni di connessione e di pregiudizialità, in quanto la decisione sul ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione regionale che ha accolto la revocazione (155/29/12) è pregiudiziale alla decisione sul ricorso per cassazione avverso la diversa sentenza della Commissione regionale che ha respinto l’appello proposto dal contribuente (349/28/2011). Se fosse respinto il ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza che ha accolto la revocazione, diventerebbe definitiva tale ultima sentenza, con il conseguente definitivo annullamento dell’avviso di accertamento relativo ai maggiori redditi. Diventerebbe, quindi, inammissibile per difetto sopravvenuto di interesse il ricorso per cassazione proposto dal contribuente avverso la precedente sentenza della Commissione regionale ormai definitivamente riformata.

1.1. Deve respingersi l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle Entrate (proc. 25152/2013) per tardività, ai sensi dell’art. 327 c.p.c., per essere stato notificato oltre il termine “lungo” semestrale, di cui alla L. n. 69 del 2009, sollevata dal contribuente.

Invero, è pacifico che il ricorso per cassazione proposto dalla Agenzia delle entrate è stato presentato oltre il termine lungo semestrale di cui all’art. 327 c.p.c., come modificato dalla L. n. 69 del 2009, ma prima del termine annuale di cui all’art. 327 c.p.c., prima di tale modifica legislativa.

Infatti, la sentenza della Commissione regionale (155/29/2012) è stata depositata il 20-9-2012, mentre il ricorso per cassazione nel procedimento 25152/2013 è stato spedito per la notificazione il 4/11/2013.

Tuttavia, il giudizio di revocazione ordinaria di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, si “innesta” su un giudizio di primo grado incardinato prima del 4-7-2009, data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009, sicchè sia il giudizio di appello, sia quello di revocazione avverso la sentenza emessa in sede di appello, vertendo sulla medesima fattispecie processuale e sostanziale, sono governati dalla disciplina anteriore a tale data.

Nel giudizio di revocazione, la fase rescindente e quella rescissoria sono trattate dal medesimo giudice e, in caso di accoglimento della revocazione, vengono travolti i capi di sentenza che sono frutto di errore, sicchè il giudice della fase rescissoria deve procedere ad un nuovo esame, sulla “medesima questione” giuridica e di fatto, prescindendo dalle rationes recidendi della sentenza revocata (Cass. Civ., 16 maggio 2017, n. 12215). La nuova decisione sul merito è del tutto autonoma dalla precedente, anche se verte ovviamente sulla medesima questione sostanziale e processuale.

Si rileva, infatti, che nel giudizio di merito successivo alla revocazione, le parti si trovano nelle stesse condizioni in cui erano prima della sentenza revocata: sicchè sono soggette alle medesime preclusioni già verificatesi e l’istruttoria compiuta conserva il suo valore (Cass.Civ., 74/3465).

Inoltre, l’art. 403 c.p.c., prevede, con riferimento alla impugnazione della sentenza di revocazione, che “contro di essa sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione”.

Per giurisprudenza di legittimità, quindi, il mezzo di gravame ai sensi dell’art. 403 c.p.c., comma 2, deve essere individuato in quello cui era “originariamente” soggetta la sentenza impugnata per revocazione al momento in cui fu resa, senza che abbiano perciò rilievo le successive modifiche legislative (Cass. Civ., 3 gennaio 2013, n. 74; in senso contrario Cass. Civ., 7 aprile 2009, n. 8370).

1.3. Con il primo motivo di ricorso (n. 25152/13) l’Agenzia delle entrate deduce “omesso esame su punto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, in quanto la motivazione resa dalla Commissione regionale è solo apparente, mentre il presunto errore commesso non ha la natura dell’errore “revocatorio”, chiedendo la contribuente, nel giudizio di revocazione, una nuova e diversa valutazione dei fatti di causa. Inoltre, l’errore revocatorio non deve essere stato oggetto di discussione nel giudizio di merito, mentre nel caso in esame la questione delle prove fornite dal contribuente è stato oggetto del giudizio.

Inoltre, in sede di revocazione è stato introdotto l’elemento nuovo costituito dall’accordo intercorso in sede di accertamento con adesione con il funzionario dell’Agenzia delle entrate per esaminare a campione solo n. 20 buoni di consegna, su un totale di 300, ritenendoli sufficienti.

2. Con il secondo motivo di impugnazione (n. 25152/13) la ricorrente deduce “error in procedendo in violazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in quanto la Commissione regionale avrebbe dovuto dichiarare inammissibile il ricorso per revocazione per le stesse argomentazioni di cui al primo motivo di ricorso per cassazione. La mancata fatturazione della maggior parte dei buoni costituiva fatto controverso tra le parti, su cui la Commissione regionale si era pronunciata.

3. Con il terzo motivo di impugnazione (25152/13) la ricorrente si duole della “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., n. 4 e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”, in quanto la Commissione regionale ha delibato su un fatto che è stato oggetto di effettivo contraddittorio giudiziale.

3.1. I motivi primo, secondo e terzo, che vanno esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, sono fondati.

3.2. Il ricorso per revocazione è, infatti, inammissibile perchè la questione in ordine alla presenza in contabilità dei buoni di consegna è stata oggetto del contraddittorio tra le parti ed è stata oggetto di esame anche da parte della decisione della Commissione regionale, venendo a mancare il requisito del “fatto non controverso” tra le parti (cfr. “…i primi giudici, nel valutare positivamente la giustificazione data dalla difesa del contribuente alle sigle ND o DIST e cioè che si interpretavano nota di debito o nostra distinta, e quindi che la rettifica non poteva fondarsi solo su presunzioni, non hanno tenuto in evidenza che alcuna prova era stata fornita dalla parte che detti buoni trovassero conferma e contabilizzazione nelle scritture contabili”).

Infatti, l’inammissibilità della revocazione delle decisioni, anche della corte di cassazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4, per errore di fatto, qualora lo stesso abbia costituito un punto controverso oggetto della decisione, ricorre ove su detto fatto siano emerse posizioni contrapposte tra le parti che abbiano dato luogo ad una discussione in corso di causa, in ragione della quale la pronuncia del giudice non si configura come mera svista percettiva, ma assume necessariamente natura valutativa, sottraendosi come tale al rimedio revocatorio (Cass. Civ., 8 giugno 2018, n. 14929).

La Commissione regionale, in motivazione, quando ha accolto la revocazione non ha fatto alcun riferimento alla natura “controversa” o meno del fatto posto ad oggetto della decisione impugnata, e cioè se i buoni di consegna fossero o meno indicati nella contabilità dell’impresa, tra le fatture già emesse.

4. Pertanto, la sentenza n. 155/29/2012 va cassata ed il ricorso per revocazione va dichiarato inammissibile.

5. Con il primo motivo di impugnazione nel procedimento 10648/2012 il contribuente deduce, in relazione alla sentenza della Commissione regionale 349/28/2011, “violazione e falsa applicazione di norme di diritto: D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in quanto secondo la Commissione regionale non è stata fornita la prova che la documentazione extracontabile (buoni di consegna) sia stata riportata nelle scritture contabili. Al contrario, il contribuente “ha esibito le fatture di alcune operazioni di cui ai buoni a dimostrazione del fatto che essi venivano redatti per l’incasso di somme portate da fatture. Per il pagamento di una fattura emessa nel mese di gennaio, il pagamento veniva chiesto nei mesi a seguire con la consegna all’autista del “bollo” per la riscossione. Nel cartone rinvenuto dalla Guardia di finanza erano depositati tutti i buoni anche relativi ad anni precedenti, fino a quindici anni prima. In caso di pagamento il buono veniva consegnato per quietanza di pagamento al debitore. In caso contrario veniva gettato nel cartone. Pertanto, l’onere di provare che tutti i buoni erano contabilizzati era “impossibile venisse assolto” in quanto tratta vasi di rapporti commerciali anche vecchissimi ed i buoni non avevano riferimenti precisi. Peraltro, l’Agenzia delle entrate non ha assolto all’onere di provare che quei “fogliettini” rappresentavano la prova di vendite senza fattura, in assenza di presunzioni gravi, precise e concordanti. Le presunzioni, poi, devono essere più di una soltanto. I buoni, tra l’altro, esibiti dalla contribuente in due casi, sono privi di riferimenti quantitativi o monetari.

5.1. Tale motivo è infondato.

Invero, per giurisprudenza consolidata di legittimità la contabilità in nero, costituita da appunti personali e da informazioni dell’imprenditore, rappresenta un valido elemento indiziario, dotato dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, prescritti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, perchè nella nozione di scritture contabili, disciplinate dagli artt. 2709 c.c. e segg., devono ricomprendersi tutti i documenti che registrino in termini quantitativo o monetari, i singoli atti di impresa, ovvero rappresentino la situazione patrimoniale dell’imprenditore ed il risultato economico dell’attività svolta, spettando poi al contribuente l’onere di fornire adeguata prova contraria (Cass. Civ., 23 maggio 2018, n. 12680).

Inoltre, in tema di accertamento induttivo dei redditi di impresa, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purchè grave e precisa (Cass. Civ., 22 dicembre 2017, n. 30803; Cass. Civ., 16 novembre 2011, n. 24051, con riferimento a brogliacci reperiti presso la sede della società; Cass. Civ., 27 febbraio 2015, n. 4080, in relazione ad un quadernone contenente l’indicazione degli effettivi quantitativi di materiale prodotto; Cass. Civ., 3 ottobre 2014, n. 20902, per la necessità della comparazione tra i dati acquisiti e quelli emergenti dalla contabilità ufficiale del contribuente).

Pertanto, nella specie, l’Agenzia, con il rinvenimento dei buoni di consegna, ha fornito un elemento indiziario preciso e grave della esistenza della contabilità in nero dell’impresa.

Dalla lettura dei buoni prodotti emerge con chiarezza il contenuto degli stessi, la quantità di merce consegnata ed il relativo prezzo, oltre che la data della consegna. Per esempio nel buono di “consegna” allegato al ricorso per cassazione, si legge non solo la chiara dizione di “consegna”, ma anche la data della stessa (30-7-2004), il destinatario, la tipologia di merci (piatti, carta-aceto, lampadina), la somma 857,23. Questo buono, in realtà, reca anche l’indicazione N.F. (con sottolineatura e chiarificazione in neretto Nostra Fattura). Negli altri buoni, invece, le dizioni sono N.D. e DIST., scomparendo ogni riferimento alle fatture. Nella “consegna” del ***** sono indicati la società destinataria, la dizione ND *****, la somma 1.109,77. Peraltro, nello stampato di “consegna” vi è una parte dedicata oltre che alla ricezione, anche a “segue fattura”, ad evidenziare che la fattura relativa a tali buoni di consegna non è stata ancora emessa in tale momento.

Nè l’impresa ha fornito prova contraria, dimostrando che i buoni di consegna in realtà si riferivano a mancati pagamenti relativi a precedenti fatturazioni regolarmente emesse.

Anzi, proprio la società ha ammesso di non essere in grado di fornire tale prova, in quanto i buoni di consegna erano riferiti a fatture anche di oltre quindici anni prima (cfr. pagina 13 ricorso per cassazione “Orbene, l’onere di provare che tutti questi buoni erano contabilizzati era impossibile venisse assolto in quanto trattavasi di rapporti commerciali anche vecchissimi ed i buoni non avevano riferimenti precisi…”; cfr. pagina 32 del ricorso per cassazione “…il contribuente, aveva fornito prova contraria, nei limiti del possibile, considerata la gran quantità di buoni riferentisi a ben quindici anni di attività imprenditoriale”).

La Commissione tributaria regionale ha compiutamente argomentato sia sulla sussistenza degli indizi gravi e precisi per utilizzare l’accertamento induttivo, sia in ordine all’onere della prova contraria che gravava sull’imprenditore e non era stata in alcun modo fornita, in quanto i buoni di consegna non risultavano indicati nella contabilità dell’impresa.

6.Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione di norme di diritto: D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d. Omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in quanto la Guardia di finanza e l’Ufficio non hanno calcolato il conto economico dell’impresa e non hanno detratto il costo della merce acquistata, procedendo ad assoggettare ad imposta il solo guadagno.

6.1. Tale motivo è infondato.

Invero, da un lato, si rileva che l’Agenzia, una volta dimostrato attraverso le presunzioni, che l’impresa aveva venduto merce senza fatturazione, in assenza di prova contraria da parte del contribuente, non era tenuta a calcolare l’ammontare complessivo del conto economico, per determinare la percentuale di ricarico, non avendo l’impresa provveduto alla fatturazione della merce venduta in nero. La somma di tutti gli importi indicati nei buoni di consegna (ad eccezione dei 20 per i quali si è dimostrata la sussistenza della fatturazione) ha determinato i ricavi sottratti alla tassazione.

Dall’altro, si evidenzia che i costi asseritamente sostenuti per l’acquisto delle merci non sono stati allegati e dimostrati dall’impresa. Invero, l’amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ove siano state indicate e dimostrate dal contribuente (Cass. Civ., 28 dicembre 2017, n. 31024; Cass. Civ., 29 settembre 2017, n. 22868; Cass. Civ., 19 aprile 2017, n. 9888).

La motivazione della sentenza della Commissione regionale è, quindi, sufficientemente motivata, in quanto ha evidenziato che i buoni di consegna non erano stati indicati nelle fatture, non dovendo aggiungere altro, in assenza di allegazione e prova da parte del contribuente dei costi asseritamente sostenuti per l’acquisto dei prodotti, poi oggetto di vendita tramite la predisposizione dei buoni di consegna.

7. Le spese dei giudizi vanno poste a carico del contribuente, in ragione della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

8. Si dà atto, limitatamente al ricorrente A. e quindi limitatamente al giudizio n. 10648/2012, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

Riuniti i procedimenti, in accoglimento del ricorso (proc. 25152/2013) proposto dalla Agenzia delle entrate, cassa la sentenza impugnata (n. 155/29/12) e dichiara inammissibile il ricorso per revocazione.

Rigetta il ricorso (proc. 10648/2012) proposto dal contribuente.

Condanna il contribuente a rimborsare in favore dell’Agenzia delle entrate le spese dei giudizi di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 10.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente A., e quindi limitatamente al giudizio n. 10648/2012, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 19 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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