Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.27626 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –

Dott. PACILLI Giuseppina A.R. – Consigliere –

Dott. ARIOLLI Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 568/2012 proposto da:

B.G., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’Avvocato CLAUDIO D’ALESSANDRO (avviso postale ex art. 135);

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI ROMA, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 102/2011 della COMM. TRIB. REG. di TORINO, depositata il 22/08/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 01/10/2018 dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOLLI.

MOTIVI DELLA DECISIONE

B.G., quale titolare dell’omonima ditta individuale, ricorre con sette motivi per la cassazione della sentenza n. 102 del 17/6/2011 della C.T.R. di Torino – Sez. 1 che accoglieva l’appello dell’Agenzia delle entrate contro la sentenza n. 85/23/2009 della CTP di Torino, la quale aveva accolto il ricorso della contribuente ritenendo illegittimo l’avviso di accertamento relativo ad un maggior reddito di impresa. Con vittoria di spese.

Controricorre l’Agenzia delle Entrate, la quale chiede di dichiarare inammissibile e/o respingere il ricorso, confermandosi la sentenza impugnata, con vittoria delle spese di lite.

Il ricorso non è fondato e va, pertanto, rigettato.

Infondato è il primo motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione dell’art. 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, sul rilievo della dedotta inammissibilità dell’appello “per difetto di motivi pertinenti”. Invero, l’atto di appello proposto dall’Ufficio non solo tende a ribadire la legittimità dell’accertamento induttivo svolto (peraltro non messa in discussione dal giudice di primo grado), ma con specifico riferimento agli elementi fattuali e di carattere contabile posti a base della pretesa impositiva mira anche a sindacare il merito della decisione con cui è stato accolto in primo grado il ricorso della contribuente, con particolare riferimento proprio a quei profili che avrebbero determinato un’assenza di certezza nella pretesa contributiva poi in concreto avanzata dall’Ufficio.

Inammissibili, di conseguenza, risultano anche il secondo e terzo motivo di ricorso con cui si deduce, rispettivamente, la nullità della sentenza e del procedimento con riferimento all’art. 342 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4 ed il vizio di ultrapetizione, trattandosi di censure svolte e prospettate quali ulteriori vizi della decisione impugnata in ragione della dedotta inammissibilità dell’appello per difetto di pertinenza dei motivi.

Infondato è il quarto motivo di ricorso con cui si lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia su un punto decisivo della controversia, con conseguente nullità della sentenza e del procedimento, sul rilievo dell’assenza di giustificazioni a fondamento della discrasia esistente tra le risultanze dell’accertamento e quelle di cui al precedente pvc. La CTR ha sul punto espressamente precisato che ciò che rileva ai fini impositivi è quello che risulta dall’accertamento notificato, il quale non è assolutamente vincolato dai diversi dati o dalle valutazioni effettuate dagli organi accertatori, potendo l’Ufficio elaborare diversamente le risultanze. E nel caso di specie, l’Agenzia delle entrate, attraverso specifici elementi di fatto e di carattere contabile, evidenziati anche nell’atto di appello e motivatamente fatti propri dal giudice di seconde cure, ha dato conto alla contribuente di quelli che erano gli elementi fondanti la pretesa impositiva fatta valere con l’avviso di accertamento. Di conseguenza da tale dedotta “discrasia” non può farsi discendere, come vorrebbe la ricorrente, la nullità dell’accertamento. Nè tantomeno può paventarsi, come deduce la ricorrente nel quinto motivo di ricorso con cui censura la violazione della L. n. 4 del 1929, art. 24 (secondo cui le violazioni delle norme contenute nelle leggi finanziarie sono constatate mediante processo verbale) e L. n. 212 del 2000, artt. 7 e 12 (c.d. statuto del contribuente), una violazione dello statuto del contribuente sotto il profilo della violazione del diritto di difesa. Le eventuali divergenze tra gli atti della procedura impositiva (tra cui rientra il pvc) e l’atto finale in cui si compendia l’accertamento assumono, semmai, la natura di questioni sul merito della pretesa, ma non inficiano affatto la legittimità della stessa o il procedimento impositivo. Ne consegue, pertanto, anche l’infondatezza del quinto motivo di ricorso.

E’ infondato e, in parte inammissibile, anche il sesto motivo di ricorso con cui si deduce il vizio della motivazione su un punto decisivo e controverso, nella specie relativo sia al calcolo del volume di affari che al metodo di rilevamento delle scorte. La censura si fonda essenzialmente sulla divergenza esistente tra le risultanze del pvc e quanto poi oggetto di accertamento. Ma trattasi di questione, per quanto già sopra osservato, non decisiva ai fini del paventato vizio di motivazione in quanto è lo stesso pvc ad evidenziare la natura “provvisoria” degli accertamenti compiuti in sede di verifica e che rimane impregiudicata la facoltà dell’Ufficio in sede di accertamento di procedere ad una ricostruzione del maggior reddito accertato presuntivamente. Con riferimento, poi, a quanto preteso con l’atto impositivo e, in particolare, alla percentuale di ricarico, la sentenza impugnata ha motivatamente escluso un’errata indicazione di tale dato da parte dell’Ufficio sulla scorta degli elementi disponibili, osservando come ci si sia basati sulle dichiarazioni della contribuente di cui si dà atto nello svolgimento del processo e che corrispondono a quanto dalla stessa dichiarato in sede di contraddittorio. Quanto all’obbligo di tenute delle distinte di magazzino, si è precisato che queste sono state predisposte ad opera della parte e, pertanto, non possono addebitarsi all’Ufficio eventuali imprecisioni in cui la stessa è incorsa. Inammissibile poichè generica è poi la doglianza sull’inattendibilità del calcolo volto alla rideterminazione del costo del venduto, in quanto non è stata concretamente indicata la misura dello scostamento tra il dato contabile e quello effettivo che deriverebbe dall’attuare un diverso criterio da quello utilizzato dall’Ufficio. Parimenti inammissibile per genericità è infine la censura che l’accertamento non risponde affatto alle dichiarazioni della parte la quale precisa di praticare sui capi vecchi uno sconto del 50% (a fronte di quello generalmente praticato se richiesto dal cliente nella misura del 10-15%, di cui l’Ufficio ha tenuto conto), in quanto, a fronte di anomalie registrate nella gestione e quantificazione delle rimanenze finali, manca l’indicazione del relativo e decisivo elemento di sostegno probatorio a supporto di quanto dalla contribuente in quella sede dichiarato.

Il settimo motivo di ricorso è anzitutto inammissibile in quanto la censura di falsa applicazione di norme di diritto con riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, si riferisce a questione coperta da giudicato. Invero, l’esistenza dei presupposti per procedere da parte dell’Ufficio alla ricostruzione induttiva del reddito è stata asseverata dalla stessa CTP nella sentenza di primo grado e rispetto al capo di tale decisione non vi è stato appello incidentale della contribuente. Inoltre, è infondato in quanto si sono indicati i presupposti fattuali che, in conformità a quanto disposto dal D.P.R. n. 570 del 1996, art. 1, comma 2, rendono inattendibile la contabilità ordinaria relativamente agli esercenti l’attività di impresa. Natura di merito rivestono poi le ulteriori doglianze relative al rilievo o meno della “rappresentatività” dei campioni di abbigliamento considerati dall’Ufficio.

Va, pertanto, rigettato il ricorso. La condanna alle spese di giudizio, liquidate come in dispositivo, segue la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente B.G. al pagamento delle spese del presente grado in favore dell’Agenzia delle entrate che liquida in complessive Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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