LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –
Dott. DI STEFANO Pierluigi – Consigliere –
Dott. PACILLI Giuseppina A.R. – Consigliere –
Dott. ARIOLLI Giovanni – rel. Consigliere –
Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 27939-2012 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
TECNOFONDI SPA;
– intimato –
Nonchè da:
TECNOFONDI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA P.ZA D’ARACOELI 1, presso lo studio dell’avvocato GUGLIELMO MAISTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MARCO CERRATO;
– controricorrente incidentale –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE;
– intimata –
avverso la sentenza n. 73/2012 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di BRESCIA, depositata il 17/04/2012;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 01/10/2018 dal Consigliere Dott. GIOVANNI ARIOLLI.
MOTIVI DELLA DECISIONE
L’Agenzia delle entrate ricorre con un unico motivo per la cassazione della sentenza n. 73/63/2012 della C.T.R. di Milano – Sezione distaccata di Brescia che, rigettando l’appello dell’Ufficio, ha confermato la decisione della CTP di Brescia (sentenza n. 135/2010) che aveva accolto il ricorso della Tecnofondi s.p.a. avverso l’avviso di accertamento con cui l’Ufficio aveva rideterminato, per l’anno 2003, maggiori imposte per IRPEG, IRAP ed IVA, oltre sanzioni. Con vittoria delle spese di giudizio.
Controricorre la società contribuente, in persona del legale rappresentante, chiedendo di respingere il ricorso in quanto infondato, con vittoria di spese per l’intero giudizio. Propone, altresì, nel caso di accoglimento del ricorso dell’Agenzia, ricorso incidentale articolando due motivi con cui chiede la cassazione con o senza rinvio della sentenza impugnata.
Con memoria ex art. 378 c.p.c., la società resistente ha insistito sulle conclusioni e deduzioni sollevate con il controricorso ed il ricorso incidentale.
Il ricorso con cui l’Agenzia deduce la violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 17, 19 e 21, dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è fondato.
In particolare, all’esito di pvc esperito nei confronti della società, gli accertatori avevano ritenuto soggettivamente inesistenti una serie di fatture provenienti dalla soc. Trade Sider s.r.l. unipersonale che era da considerarsi una semplice cartiera, fittiziamente interposta tra il fornitore estero e la società resistente. E ciò sulla scorta di diversi elementi quali l’assenza di struttura aziendale e di personale e la praticabilità di prezzi di acquisto inferiori a quelli di mercato. Di diverso avviso il giudice di primo grado secondo cui, in ragione della congruità dei prezzi praticati rispetto a quelli di mercato, la società non poteva riconoscere la pratica evasoria della fornitrice e la sua natura di c.d. cartiera; parimenti per la sussistenza della buona fede si pronunciava anche la sentenza impugnata che ha ritenuto rilevante a detti fini l’esiguità delle operazioni in questione rispetto al fatturato prodotto.
Tanto premesso, va osservato che, con riferimento all’indebita detrazione dell’IVA in relazione ad operazioni soggettivamente inesistenti, anche nell’ambito di una “frode carosello”, questa Corte ha affermato, con orientamento che il Collegio condivide, che elementi di fatto quali la mancanza di una struttura operativa presso la sede o l’assenza di dipendenti costituiscono elementi indiziari dell’inesistenza soggettiva del fornitore, che assumono valore riguardo alla presunta consapevolezza del cessionario di partecipare ad un operazione fraudolenta. In tal caso è legittima l’esclusione della detrazione dell’IVA, salvo prova contraria del cessionario di aver agito in buona fede (da ultimo vedi Cass., ord. n. 17161 del 28 giugno 2018). Più in particolare si è precisato che, quando l’operazione soggettivamente inesistente è di tipo triangolare, poco complessa e caratterizzata dalla interposizione fittizia di un soggetto terzo tra il cedente comunitario ed il cessionario italiano, l’onere probatorio a carico della Amministrazione finanziaria, sulla consapevolezza da parte del cessionario che il corrispettivo della cessione sia versato al soggetto terzo non legittimato alla rivalsa nè assoggettato all’obbligo del pagamento dell’imposta, è soddisfatto dalla dimostrazione che l’interposto sia privo di dotazione personale e strumentale adeguata alla prestazione fatturata, mentre spetta al contribuente-cessionario fornire la prova contraria della buona fede con cui ha svolto le trattative ed acquistato la merce, ritenendo incolpevolmente che essa fosse realmente fornita dalla persona interposta (Cass., Sez. 5, n. 10120 del 21/4/2017, Rv. 644043).
Nel caso in esame, l’Ufficio, mediante gli accertamenti compiuti dalla G.d.F., ha dimostrato che le fatture provengono da una società da considerarsi “cartiera”, interpostasi fittiziamente tra la società resistente ed il fornitore estero. Ciò in ragione di diversi elementi di carattere fattuale e convergente, quali l’assenza di struttura aziendale (non esisteva neppure il locale deputato allo stoccaggio delle merci), di personale e di mezzi di trasporto (essenziali nell’ambito dell’attività svolta, consistente nella fornitura di materiale ferroso), tanto che lo stesso socio e amministratore unico ne ha disconosciuto l’attività sociale. In presenza delle suddette circostanze, che danno ragionevolmente conto dell’indebita detrazione, spetta pertanto al contribuente (cessionario) fornire la prova della propria buona fede, al fine di conservare il diritto alla detrazione dell’imposta. La prova, tuttavia, deve essere rigorosa, non essendo sufficiente dimostrare di non essere stato partecipe consapevole della frode, occorrendo invece dare conto di avere rispettato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo ragionevolezza e proporzionalità, essendo irrilevante la regolare contabilità, la regolarità dei pagamenti, e anche la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi. Così si è escluso che la prova della buona fede del cessionario possa fondarsi sulla sola mancanza di un beneficio economico concreto derivante allo stesso per essere le operazioni commerciali effettuate a prezzi di mercato, trattandosi di elemento esterno alla fattispecie tipica, inidoneo a dimostrare l’estraneità alla frode (Cass., ord. n. 16469 del 21/6/2018, Rv. 649374). Nella sentenza impugnata l’elemento fondante la buona fede è ricavato dall’esiguità delle operazioni in questione rispetto al fatturato della contribuente. Trattasi, invero, di un elemento di carattere generico ed esterno all’operazione che non può dare ragionevolmente conto della rigorosa osservanza del canone della diligenza richiesto in operazioni similari.
Va rigettato, poi, il ricorso incidentale proposto dalla società resistente.
Inammissibile è il primo motivo con cui deduce “omessa pronunzia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4”, in relazione all’eccezione di decadenza dell’Ufficio dal proprio potere impositivo, non potendo trovare applicazione il raddoppio dei termini di accertamento, operante soltanto nei casi in cui la denunzia penale per reati tributari sia intervenuta prima dello spirare del termine di accertamento. Contrariamente a quanto dedotto, la CTR si è pronunziata sulla questione nella prima pagina dedicata ai motivi della decisione, ritenendola infondata. Nessuna violazione dell’art. 112 c.p.c. è dunque ravvisabile. Peraltro sul tema deve ribadirsi il principio secondo cui in tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, (come modificati dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 24), nei testi applicabili “ratione temporis”, presuppone unicamente l’obbligo di denuncia penale, ai sensi dell’art. 331 c.p.p., per uno dei reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000, e non anche la sua effettiva presentazione, come chiarito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 247 del 2011 (Cass., ord. n. 1171 del 30/5/2016, Rv. 639877).
Manifestamente infondato è il secondo motivo con cui si deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, comma 3 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, comma 3, sul rilievo che il raddoppio del termine per l’accertamento può trovare applicazione solo per violazioni penali – fiscali commesse dopo la sua entrata in vigore (avvenuta il 4.7.2006).
Secondo la lettura di tali disposizioni data dalla sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011 e dalla giurisprudenza di questa Corte di legittimità (tra cui, in particolare, dalle pronunce n. 20043 e n. 9974 del 2015 e da ultimo n. 26037/2016): a) il raddoppio dei termini per l’accertamento si applica anche alle annualità d’imposta anteriori a quella pendente al momento dell’entrata in vigore delle disposizioni indicate (4 luglio 2006), perchè queste, stabilendo il prolungamento dei termini non ancora scaduti alla data dell’entrata in vigore del D.L. n. 223 del 2006, incidono necessariamente (protraendoli) sui termini di accertamento delle violazioni che si assumono commesse prima di tale data; b) questo effetto deriva non dalla natura retroattiva delle norme, ma dall’applicabilità ex nunc della protrazione dei termini in corso, nel rispetto del principio secondo cui, di regola, “la legge non dispone che per l’avvenire” (art. 11 preleggi, prima parte comma 1; analogamente, la L. n. 212 del 2000, art. 3, comma 1, stabilisce che “le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo”); b) il “raddoppio” deriva dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 c.p.p., indipendentemente dall’effettiva presentazione della denuncia (in specie, Cass. n. 1171 del 2016), dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento penale del reato, restando irrilevante, in particolare, che l’azione penale non sia proseguita o sia intervenuta una decisione penale di proscioglimento, di assoluzione o di condanna (dato anche il regime del cosiddetto “doppio binario” tra giudizio penale e procedimento e processo tributario, evidenziato dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 20); c) detto obbligo di denuncia sorge quando il pubblico ufficiale sia in grado di individuare con sicurezza gli elementi di un reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000 (anche se sussistano cause di non punibilità impeditive della prosecuzione delle indagini penali ed il cui accertamento, al pari dell’antigiuridicità e del dolo, resta riservato all’autorità giudiziaria), non essendo sufficiente il generico sospetto di una eventuale attività illecita; d) il medesimo obbligo opera in base a condizioni obiettivamente rilevabili, considerato che anche il pubblico ufficiale non potrebbe liberamente valutare se e quando presentare la denuncia, dovendola presentare prontamente, pena la commissione del reato di cui all’art. 361 cod. pen. per il caso di ritardo od omissione nella denuncia; e) il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione dell’atto impositivo o di contestazione delle sanzioni, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo al riguardo una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza (cioè circa la sussistenza di una notitia criminis dotata di fumus) ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia fatto un uso pretestuoso e strumentale delle menzionate disposizioni al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento; f) in presenza di una contestazione sollevata dal contribuente, l’onere di provare i presupposti dell’obbligo di denuncia penale (non certo l’esistenza del reato) è a carico dell’amministrazione finanziaria, dovendo questa giustificare il più ampio potere accertativo.
Inoltre, i termini raddoppiati non si innestano su quelli “brevi” ordinari, ma operano autonomamente allorchè si riscontrino elementi obiettivi tali da rendere obbligatoria la denuncia penale per i reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000. In particolare, come chiarito anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 247 del 2011 con riferimento al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, primi due commi, i termini “brevi” ordinari operano in presenza di violazioni tributarie per le quali non sorge l’obbligo di denuncia penale per reati previsti dal D.Lgs. n. 74 del 2000; mentre i termini raddoppiati operano in presenza di violazioni tributarie per le quali v’è l’obbligo di denuncia. E’, perciò, irrilevante che detto obbligo possa insorgere anche dopo il decorso di un periodo pari a quello del termine “breve” o possa non essere adempiuto entro tale termine: ciò che rileva è solo la sussistenza dell’obbligo di denuncia, perchè essa soltanto connota obiettivamente, sin dall’origine, la fattispecie di illecito tributario alla quale è connessa l’applicabilità dei termini raddoppiati di accertamento. Nel caso di specie, dunque, inconferente è che l’avviso di accertamento sia stato emesso allorchè era scaduto il termine breve e che si riferisca ad annualità precedente all’entrata in vigore della disposizione censurata. Peraltro, per completezza, va anche osservato come la disposizione di legge censurata sia entrata in vigore (4/7/2006) allorchè non era ancora scaduto il termine ordinario per l’accertamento (trattandosi dell’annualità 2003).
In conclusione, in accoglimento del ricorso dell’Agenzia deve cassarsi la decisione impugnata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto può decidersi la causa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, rigettandosi l’originario ricorso della società contribuente avverso l’avviso di accertamento con riferimento all’indetraibilità dell’IVA e alle relative sanzioni e ferma restando la deducibilità dei costi sostenuti.
La condanna alle spese del presente grado di giudizio, liquidate come in dispositivo, segue la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso dell’Agenzia delle entrate e rigetta il ricorso incidentale proposto dalla società Tecnofondi s.p.a.; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso originario della Tecnofondi s.p.a. con riferimento all’indetraibilità dell’IVA ed alle relative sanzioni, ferma restando la deducibilità dei costi sostenuti. Condanna la società Tecnofondi al pagamento delle spese del presente grado in favore dell’Agenzia delle entrate che liquida in complessive Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 1 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018