Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.27640 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATERA Lina – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28256/2014 proposto da:

P.A., in proprio e quale legale rappresentante pro tempore dell’omonima impresa individuale, rappresentato e difeso dall’Avvocato ALDO NICCOLINI, ed elettivamente domiciliato presso lo studio di questo in LA SPEZIA, VIA CRISPI 147;

– ricorrente –

contro

S.S., rappresentato e difeso dagli Avvocati LUIGI MANZI e CESARE GLENDI ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, in ROMA, VIA FEDERICO CONFALONIERI 5;

– controricorrente e ricorrente incidentale condizionato –

avverso la sentenza n. 471/2014 della CORTE di APPELLO di GENOVA, pubblicata l’8/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 15/06/2018 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione notificato in data 4.12.2009, P.A., titolare dell’omonima impresa individuale, conveniva dinanzi al Tribunale di La Spezia S.S. domandando il pagamento dei lavori di ristrutturazione eseguiti nell’anno 2005 nell’immobile di proprietà del convenuto, per l’importo complessivo di Euro 147.604,00, oltre IVA, di cui il committente aveva corrisposto soltanto Euro 68.000,00, oltre IVA.

Si costituiva in giudizio S.S., opponendosi alla domanda e in particolare contestando la mancata esecuzione dei lavori a regola d’arte e il loro mancato completamento in diverse parti, per ottenere il quale egli si era dovuto rivolgere ad altre imprese, con i conseguenti esborsi.

Istruita la causa mediante produzioni documentali ed escussione di testimoni, esclusa C.T.U., in ragione della modifica dello stato dei luoghi, con sentenza n. 825/2012, depositata in data 12.11.2012, il Tribunale, parzialmente accogliendo la domanda, condannava il convenuto a pagare la somma complessiva di Euro 53.924,64, comprensiva di IVA, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; rigettava ogni altra domanda proposta dalle parti; compensava la metà delle spese di lite tra le parti, ponendo l’altra metà a carico del convenuto.

Avverso tale sentenza proponeva appello S.S.; resisteva l’appellato, chiedendo il rigetto dell’appello e, in via subordinata, nella denegata ipotesi di rimessione in istruttoria e di ammissione dei mezzi di prova ex adverso richiesti, insisteva nelle istanze istruttorie formulate, e nella richiesta di espletamento di C.T.U. descrittiva dei luoghi di causa e che accertasse la quantità, qualità e valore delle opere realizzate.

Con sentenza n. 471/2014, depositata l’8.4.2014, la Corte d’Appello di Genova accoglieva l’appello proposto da S.S., pronunciando la risoluzione del contratto di appalto in oggetto e condannando l’appellato alla rifusione delle spese di entrambi i gradi di giudizio.

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione P.A. sulla base di due motivi; resiste S.S. con controricorso, proponendo ricorso incidentale condizionato, sulla base di altrettanti motivi, illustrati con memoria difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente principale deduce la “violazione e/o erronea applicazione degli artt. 1454 e 1662 c.c.”, osservando che la parte committente ha provato di aver formulato diffida ad adempiere nei confronti dell’impresa appaltatrice sul presupposto del mancato rispetto da parte di quest’ultima dei termini contrattualmente stabiliti per la consegna dell’opera. Decorso inutilmente il termine di 15 giorni concesso per l’ultimazione delle opere, parte committente ha affidato ad altre ditte l’ultimazione delle opere. Orbene, l’impresa appaltatrice ha sempre evidenziato nei giudizi di merito: a) che i lavori avevano potuto iniziare soltanto due mesi dopo il termine iniziale contrattualmente previsto, perchè solo in data 30.6.2005 furono rilasciati i necessari titoli autorizzativi; b) che, essendo state richieste da parte committente ed eseguite da parte appaltatrice numerose e consistenti opere extra-capitolato, che avevano inevitabilmente reso impossibile il rispetto del termine pattuito, difettavano gli stessi presupposti che avrebbero legittimato il committente a manifestare la diffida ad adempiere ai sensi e per gli effetti degli artt. 1454 e 1662 c.c.; c) che, in ogni caso, il termine concesso di 15 giorni non era congruo e commisurato alle opere ancora da eseguirsi. La Corte d’Appello non ha tenuto conto di tali rilievi e ha pronunciato la risoluzione del contratto, nonostante essa abbia ritenuto di non accogliere la domanda del committente di condanna dell’odierno ricorrente al pagamento della penale da ritardo, sul corretto rilievo che l’esecuzione di numerose e significative opere extra-capitolato avesse comportato l’impossibilità per l’appaltatore di rispettare i termini di consegna originariamente previsti.

1.1. – Il motivo non è fondato.

1.2. – Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la diffida di cui all’art. 1454 c.c. e l’inutile decorso del termine fissato per l’adempimento non eliminano la necessità, ai sensi dell’art. 1455 c.c., di procedere all’accertamento giudiziale della gravità dell’inadempimento in relazione alla situazione verificatasi alla scadenza del termine (Cass. n. 9314 del 2007; conf. Cass. n. 18696 del 2014). Orbene, se alla scadenza del termine di 15 giorni imposto dal committente per l’ultimazione delle opere, non poteva, secondo la Corte di merito, farsi applicazione della convenuta penale da ritardo (in quanto il termine originario di consegna non teneva conto dei consistenti lavori extra-capitolato), allo stesso modo la Corte avrebbe dovuto ritenere che l’inevitabile ritardo dovesse rilevare nella valutazione della gravità o meno dell’inadempimento da parte della ditta appaltatrice.

1.3. – Il motivo è privo di conferenza rispetto al decisum, in quanto censura l’illegittimità della pronunciata risoluzione del contratto di appalto per inottemperanza alla diffida ad adempiere e per la mancata protrazione del termine di consegna di due mesi in relazione al ritardo nel rilascio delle autorizzazioni edilizie. In realtà, la risoluzione del contratto è stata dichiarata per ragioni (afferenti la inadempienza dell’appaltatore circa il mancato compimento dell’opera) del tutto diverse da quelle assunte dal ricorrente a base della censura. E’ principio costante che, in tema di risoluzione contrattuale per inadempimento, la valutazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 1455 c.c., della non scarsa importanza dell’inadempimento deve ritenersi implicita, ove l’inadempimento stesso si sia verificato (come nel caso di specie), con riguardo alle obbligazioni primarie ed essenziali del contratto, ovvero quando, dal complesso della motivazione, emerga che il giudice lo abbia considerato tale da incidere in modo rilevante sull’equilibrio negoziale (Cass. n. 20957 del 2017; Cass. n. 2075 del 2013; Cass. n. 22521 del 2011; Cass. n. 17328 del 2011; Cass. n. 1227 del 2006).

Peraltro, per la parte relativa all’asserito gran numero e consistenza di opere extra-capitolato, che secondo il ricorrente avrebbe reso impossibile il rispetto del termine contrattuale convenuto, il Giudice di secondo grado, non solo non ha ignorato tale punto, ma l’ha fatto oggetto di specifica decisione di merito, accertando che detti lavori non erano affatto esclusi dall’appalto, che era poco credibile una modificazione verbalmente concordata del contratto in corso d’opera e che, in ogni caso, sarebbe stato onere della ditta appaltatrice provare la circostanza. Nella fattispecie, la Corte di merito ha individuato l’inadempimento che ha giustificato la risoluzione del contratto, non già in una inosservanza marginale dei patti contrattuali e in specie in una ritardata consegna, bensì nella mancata prestazione essenziale costituita dal completamento dell’opera. Tale accertamento di fatto è logico ed adeguato, essendo quindi insindacabile in sede di legittimità.

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione e/o erronea applicazione dell’art. 1458 c.c., con riguardo agli effetti della risoluzione per inadempimento nei contratti a esecuzione continuata o periodica”, deducendo l’erroneità della valutazione della Corte di merito di non far luogo alla condanna del committente al pagamento di quanto dovuto per l’opera eseguita antecedentemente alla risoluzione del contratto, sul presupposto che, trattandosi del pagamento di un compenso e non già del richiesto corrispettivo, difettasse autonoma domanda dell’appaltatore. La Corte d’Appello, nel ritenere che al contratto d’appalto de quo dovesse applicarsi, quanto meno in via analogica, la disciplina prevista per i contratti ad esecuzione continuata e periodica, non ha tratto da tale assunto il necessario corollario logico-giuridico, e cioè che la risoluzione opera in tal caso ex nunc, ai sensi dell’art. 1458 c.c., comma 1.

2.1. – Il motivo è fondato.

2.2. – Per principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. n. 6181 del 2011), nei contratti a prestazioni corrispettive, la retroattività (art. 1458 c.c., comma 1) della pronuncia costitutiva di risoluzione per inadempimento, collegata al venir meno della causa giustificatrice delle attribuzioni patrimoniali già eseguite, comporta l’insorgenza a carico di ciascun contraente, ed indipendentemente dalle inadempienze a lui eventualmente imputabili, dell’obbligo a restituire la prestazione ricevuta: la sentenza che pronuncia la risoluzione del contratto per inadempimento produce, infatti, un effetto liberatorio ex nunc, rispetto alle prestazioni da eseguire, ed un effetto recuperatorio ex tunc, rispetto alle prestazioni eseguite. Una volta pronunciata la risoluzione del contratto, in forza della operatività retroattiva di essa, stabilita dall’art. 1458 c.c., si verifica per ciascuno dei contraenti ed in modo avulso dall’imputabilità dell’inadempienza, rilevante ad altri fini, una totale restitutio in integrum (cfr. anche Cass. n. 15705 del 2013; Cass. n. 3455 del 2015; Cass. n. 13405 del 2015) e, pertanto, tutti gli effetti del contratto vengono meno e con essi tutti i diritti che ne sarebbero derivati e che si considerano come mai entrati nella sfera giuridica dei contraenti stessi. L’obbligazione restitutoria non ha, quindi, natura risarcitoria, derivando dal venire meno, per effetto della pronuncia costitutiva di risoluzione, della causa delle reciproche obbligazioni (nei sensi suddetti, tra le tante: Cass. n. 7829 del 2003; Cass. n. 3555 del 2003; Cass. n. 341 del 2002; n. 7470 del 2001). Ciò precisato, la Corte ritiene che nel caso di risoluzione del contratto di appalto, sebbene pronunciato per colpa dell’appaltatore, non osta a che questi, in detrazione alle ragioni di danno spettanti al committente, abbia diritto al riconoscimento di compenso per le opere già effettuate, e delle quali comunque il committente stesso si sia giovato (cfr. anche, Cass. n. 5444 del 1997).

2.3. – E’ errata, dunque, nei presupposti e nelle conseguenze, l’affermazione della Corte di merito, secondo cui poichè il compenso nei contratti ad “esecuzione prolungata” (quali, a suo giudizio, quelli di appalto) non è corrispondente al corrispettivo – ne discenderebbe che, non avendo l’appaltatore formulato espressa domanda di pagamento del compenso per tutte le opere eseguite, questo non può essergli riconosciuto.

3. – Con il primo motivo di ricorso incidentale condizionato il conroricorrente deduce la “Violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4”. Già nel giudizio di appello lo S. aveva dedotto la violazione da parte del primo Giudice del principio di non contestazione sotto concorrenti profili: a) per non avere tenuto conto che l’onere di prendere precisa posizione rispetto a quanto allegato dall’altra parte riguarda solo i fatti esplicitati in modo esaustivo, mentre nella fattispecie l’atto di citazione in primo grado contiene un generico riferimento sia al contratto stipulato tra le parti, con l’allegato computo metrico estimativo sottoscritto dai contraenti, sia a un computo metrico consuntivo, unilateralmente elaborato dall’odierno ricorrente, che comprende confusamente lavori contrattuali ed extracontrattuali e fa riferimento a parametri diversi; di fronte ad allegazioni così generiche parte convenuta di null’altro era onerata se non richiamare gli accordi contrattuali e attendere che venisse dato corso alle verifiche tecniche richieste dall’attore; b) per aver omesso di considerare che il principio di non contestazione non trova applicazione con riguardo a regole legali o contrattuali di elaborazione di calcoli o conteggi, collocandosi l’applicazione di queste regole nell’ambito dell’esercizio dei poteri del Giudice; c) per non essersi uniformato all’insegnamento del Supremo Collegio secondo cui il principio di non contestazione non consente al Giudice di decidere a prescindere dal complesso delle risultanze istruttorie agli atti e in specie dalla documentazione prodotta.

3.1. – Il motivo non è fondato.

3.2. – La Corte di merito (sottolineato che lo S. aveva lamentato che il Tribunale avesse erroneamente applicato il principio di non contestazione nel quantificare il credito dell’appaltatore) ha esplicitamente osservato come il primo giudice avesse fatto corretta applicazione di tale principio, avendo dato atto che “l’istruzione si è caratterizzata per l’acquisizione di dichiarazioni di contenuto contrastante, specialmente quanto alle testimonianze di persone in rapporti di comunanza di interessi con le parti, per ragioni di dipendenza o stretta parentela”; per cui la controversia andava risolta “attribuendo decisivo rilievo alla documentazione prodotta dalle parti e a quanto può e deve essere giudicato non contestato in relazione alle posizioni concretamente assunte dalle parti in corso di causa”. La Corte d’appello, quindi (con un giudizio sottratto al sindacato di questa Corte), ha evidenziato che il Tribunale aveva ritenuto non contestata l’effettiva esecuzione dei lavori, compresi quelli extracapitolato (conseguentemente quantificandone l’importo), giacchè (ed in quanto) lo S. (negli atti del giudizio di primo grado e segnatamente nella comparsa di costituzione e risposta e nelle memorie ex art. 183 c.p.c.) si era limitato “a contestare che i lavori eseguiti dall’impresa appaltatrice del P. fossero stati eseguiti a regola d’arte e completati”.

Pertanto, nella specie, va ritenuto che la Corte di merito abbia correttamente fatto applicazione del principio di non contestazione, evidenziandone e specificandone l’ambito operativo ed applicativo (rispetto alla domanda di liquidazione del dovuto) in ragione delle difese concretamente svolte nel giudizio dal controricorrente.

4. – Con il secondo motivo di ricorso incidentale condizionato, il controricorrente ha dedotto la “Violazione o falsa applicazione dell’art. 1382 c.c., nonchè dell’art. 1661 c.c.. Denunzia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3”, in quanto nel contratto di appalto era pattuita una penale di Euro 200,00 per ogni giorno di ritardo. Lo S., nell’atto di appello, aveva impugnato la sentenza di primo grado relativamente a tale punto, che aveva ritenuto che la penale fosse privata di efficacia per la non contestata presenza di lavori extra capitolato, che non potevano non aver modificato le previsioni relative al termine di consegna. Per il ricorrente incidentale, il Tribunale ha erroneamente dato per scontato che la presenza di lavori extra capitolato valesse a modificare le previsioni relative al termine di consegna, quando, a norma degli artt. 1661 e 1183 c.c. e secondo la giurisprudenza di legittimità in materia, il committente ben può apportare variazioni al progetto iniziale senza che ciò comporti rinuncia al termine di consegna, salvo che si tratti di variazioni di notevole entità (Cass. n. 2290/1995; n. 20484/2011). Il Giudice di primo grado avrebbe dovuto verificare, in concreto, l’entità delle opere aggiuntive eseguite dall’appaltatore e se tali opere potessero giustificare l’inosservanza del termine pattuito. Ove il Giudice di primo grado avesse proceduto a tale accertamento, avrebbe constatato che le opere extra capitolato erano di modesta entità.

4.1. – Il motivo è inammissibile.

4.2. – A fronte della domanda di condanna della ditta appaltatrice al pagamento della penale pattuita, la Corte d’appello rileva che tale richiesta non può trovare accoglimento, poichè (come osservato dal primo giudice) “l’avvenuta pacifica esecuzione dei lavori extracapitolato non può non avere determinato – come conseguenza – una modifica delle pattuizioni concernenti il termine di consegna dei lavori”; irrilevante appalesandosi anche la istanza di verificazione del contratto prodotto dal committente disconosciuto dall’appaltatore.

Sulla base di tali argomentazioni deve ritenersi che il giudice d’appello, avendo esaustivamente indicato le fonti e le ragioni del proprio convincimento (senza alcuna violazione delle norme evocate), ha posto in essere un accertamento di fatto sorretto da adeguata e logica motivazione, come tale immune dalle censure sollevate dal ricorrente incidentale, che sostanzialmente si limita a prospettare una diversa ricostruzione delle vicende che hanno dato luogo alla presente controversia (Cass. n. 1916 del 2011). Spetta infatti solo al giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione, dare prevalenza all’uno o all’altro mezzo di prova, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge, in cui alla prova è assegnato un valore legale (Cass. n. 6064/2008; Cass. n. 9275 del 2018).

A fronte di ciò, le censure mosse alla decisione impugnata si risolvono, in buona sostanza, nella richiesta generale e generica al giudice di legittimità di una (ri)valutazione alternativa delle ragioni poste a fondamento in parte qua della sentenza impugnata (Cass. n. 1885 del 2018).

5. – Il primo motivo di ricorso principale ed il ricorso incidentale condizionato vanno dunque rigettati. Il secondo motivo di ricorso principale va accolto e la sentenza impugnata va cassata, in relazione alla censura accolta, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Genova, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nei confronti del controricorrente, ricorrente incidentale condizionato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo dei ricorso principale ed il ricorso incidentale; accoglie il secondo motivo del ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata, in relazione alla censura accolta, e rinvia la stessa alla Corte d’appello di Genova, altra sezione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del controricorrente, ricorrente incidentale condizionato, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 15 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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