Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.27649 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIUSTI Alberto – Presidente –

Dott. SCALISI Antonino – rel. Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10835-2015 proposto da:

C.G., GU.AN., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CATINI, che le rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

V.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ELEONORA DUSE 35, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO PAPPALARDO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1436/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/07/2018 dal Consigliere ANTONINO SCALISI.

FATTI DI CAUSA

V.A. proponeva appello, sulla base di un articolato motivo, avverso la sentenza n. 445, emessa in data 29/4//2006 dal Tribunale di Tivoli, che ha rigettato la domanda di usucapione di un terreno sito nel Comune di *****, proposta da V.A. nei confronti di C.G. e Gu.An., condannando l’attore al rilascio dell’immobile e al pagamento delle spese di lite. Il Tribunale ha argomentato il rigetto della domanda sul fatto che: “le deposizioni di L.M. e C.M., benchè fornite da testi legati da rapporti di parentela con le convenute o da indiretto interesse nei fatti di causa, contraddicono validamente ciò che è stato sostenuto dai testi di parte attrice poichè sostanzialmente confermate da P.E., il quale, benchè, già amico di G.S., ha reso una deposizione della cui veridicità, come per le deposizioni di parte attrice, non vi è ragione di dubitare”. Instauratosi il contraddittorio, C.G. e Gu.An. chiedevano il rigetto dell’appello perchè infondato. La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 1436 del 2014, accoglieva l’appello e, per l’effetto, dichiarava V.A. proprietario per usucapione ventennale dell’immobile, sito nel Comune di Guidonia Montecelio. Condannava gli appellati al pagamento delle spese del doppio grado del giudizio. Secondo la Corte distrettuale dalle dichiarazioni dei testi di parte attrice della cui attendibilità non vi è motivo di dubitare, atteso che, a differenza dei testi di parte convenuta L.M. e C.M., non sono legati da nessun vincolo di parentela con le parti, nè di qualsivoglia interesse ai fatti di causa, risulta che il V., sin dal 1978, ha sempre avuto il pieno ed esclusivo possesso del terreno per cui è causa, che ha provveduto a recintare prima con una costruzione in muratura, poi sostituita con una in c.a. La cassazione di questa sentenza è stata chiesta da G.G. e Gu.An., con ricorso affidato a due motivi, illustrati con memoria. Attilio V. ha resistito con controricorso, illustrato con memoria. In prossimità dell’udienza in Camera di Consiglio, le parti hanno depositato memorie ex art. 380 bis1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.= Con il primo G.G. e Gu.An. lamentano violazione e falsa applicazione dell’art. 1140,1141 e 1159 c.c.art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Secondo i ricorrenti, il richiamato muro di recinzione sul quale la Corte di Appello avrebbe fondato la sua decisione, in verità, non esisterebbe, così come risulterebbe dalle foto versate in atti e dalla prova testimoniale se letta correttamente. La motivazione della Corte di Appello di Roma, sempre, secondo i ricorrenti, sarebbe priva di supporto probatorio e, quindi, apparente, anche laddove afferma che a partire dagli anni 70 il V. avrebbe avuto il possesso esclusivo sul terreno de quo che provvedeva a coltivare così come risulterebbe da una corretta valutazione della prova testimoniale, perchè la Corte distrettuale, non avrebbe tenuto conto che la semplice coltivazione del fondo non dimostra la sussistenza dell’animus possidendi che andava, invece, dimostrato. 1.1.= Il motivo è infondato ed, essenzialmente, perchè l’assunta violazione di legge si basa e presuppone una diversa valutazione e ricostruzione delle risultanze di causa, censurabile – e solo entro certi limiti – sotto il profilo del vizio di motivazione, secondo il paradigma previsto per la formulazione di detto motivo. Va qui ribadito che in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 ord. giud.); viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (in tal senso essenzialmente cfr. Cass. n. 16698 e 7394 del 2010); 1.2. = Senza dire che il preteso errore denunciato, tutt’al più, integrerebbe un’ipotesi di errore revocatorio, dovendosi ritenere che l’errore di fatto revocatorio, ex art. 395 c.p.c., n. 4 consiste nel c.d. “abbaglio dei sensi” e, cioè, nel travisamento delle risultanze processuali dovuto a mera svista, che conduce a ritenere inesistenti circostanze pacificamente esistenti o viceversa, ovvero in un errore di fatto quale divergenza tra la realtà processuale e ciò che risulta espressamente dalla sentenza. Epperò, l’errore di cui si dice andava denunciato mediante impugnazione per revocazione e non mediante ricorso per la cassazione della sentenza. 1.3.= A sua volta, è di tutta evidenza che la Corte distrettuale, nel ritenere che il V. abbia posseduto il bene uti dominus ha tenuto conto non solo che il V. coltivasse il fondo, ma, anche, del fatto che il terreno è stato recintato dallo stesso con una costruzione in muratura, poi sostituita con una in cemento armato, circostanza quest’ultima che, rappresentando una trasformazione del bene e/o, comunque, un inizio di una costruzione sul fondo de quo, e/o, comunque, l’esclusione che altri potessero possedere, è, come, correttamente, ha inteso la Corte distrettuale, espressione di animus possidendi uti dominus. 2.= Con il secondo motivo, le ricorrenti lamentano nullità della sentenza per violazione del contraddittorio, essendo stata la decisione impugnata, collegialmente deliberata in data 30 gennaio 2013, e, cioè in epoca antecedente all’udienza di precisazione delle conclusioni (28 marzo 2013) e prima della scadenza per il deposito di comparse conclusionali e repliche, in violazione al disposto dell’art. 352 c.p.c. e delle più elementari regole del contraddittorio. Secondo i ricorrenti, la sentenza sarebbe nulla per violazione del contraddittorio perchè sarebbe stata redatta (30 gennaio 2013) ancor prima dell’udienza collegiale (28 febbraio 2013) e depositata il 4 marzo 2014. A ciò si aggiunga che, nella parte motiva della sentenza, parte appellante V.A. viene chiamato costantemente S., nome probabilmente mutuato da altra vicenda processuale che ha ispirato una prematura decisione. Non solo, ma se la Corte prima di formare la sua decisione avesse letto gli atti difensivi, avrebbe avuto una visione più chiara del materiale probatorio e ciò avrebbe impedito di fondare la propria decisione su circostanze di fatto che non emergono inequivocabilmente dalle risultanze istruttorie. 2.1. = Il motivo è infondato. E’ affermazione ricorrente nella giurisprudenza di questa Corte che la diversità fra la data di deliberazione della sentenza indicata in calce alla medesima, e la data dell’udienza collegiale, fissata per la deliberazione stessa, non è di per sè sola sufficiente a far ritenere, nel caso che quest’ultima sia successiva, che la sentenza sia stata deliberata prima di tale udienza, a far ritenere, cioè, superata la presunzione di rituale decisione della causa da parte del collegio: la diversità si configura invero, in via di principio, come frutto di mero errore materiale, inidoneo a incidere sulla validità della sentenza, anche in mancanza di attivazione del procedimento di correzione, salvo che non ricorrano altri, specifici elementi dimostrativi della rispondenza al vero della indicazione e dunque di distorsioni verificatesi nell’iter processuale (Cass. n. 9697 del 2008). Ora, nel caso in esame, appare del tutto evidente, tenuto conto della data di deposito della sentenza in cancelleria (4 marzo 2014), che la data 30/1/2013 riporta una errata indicazione dell’anno 2013, anzichè 2014. Inconferenti sono, poi, le osservazioni dei ricorrenti in merito alla errata indicazione dell’appellante S., anzichè V., perchè, comunque, tale errore non è presente nell’intestazione della sentenza e neppure nel dispositivo, ma solo in alcune parti della motivazione (pag. 2 ultima riga e pag. 3). Così come inconferente è l’osservazione secondo cui se la Corte distrettuale avesse letto le memorie conclusive avrebbe maturato altra decisione, perchè le difese delle parti erano già presenti nel processo e, dunque, tutte all’attenzione del Giudicante. In definitiva, il ricorso va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate con il dispositivo. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte delle ricorrenti, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna e ricorrenti, in solido, a rimborsare a parte controricorrente le spese del presente giudizio di cassazione che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% del compenso e accessori come per legge; dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile di questa Corte di Cassazione, il 20 luglio 2018. Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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