LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 2783-2017 proposto da:
S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOVANNI BATTISTA VICO 31, presso lo studio dell’avvocato ENRICO SCOCCINI, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONIO TALAMONTI, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
BARILLA G. E R. FRATELLI S.P.A.;
– intimata –
nonchè da:
BARILLA G. E R. FRATELLI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE TRIFIRO’, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA PERON e STEFANINO BERETTA, giusta delega in atti;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 398/2016 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 16/11/2016, R.G.N. 412/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/05/2018 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, inammissibilità o rigetto del ricorso incidentale, assorbimento del 2 motivo;
udito l’Avvocato ANTONIO STROZZIERI per delega ANTONIO TALAMONTI;
udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALE per delega verbale SALVATORE TRIFIRO’.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Ascoli Piceno rigettava la domanda proposta da S.S. nei confronti della Barilla G. e R. Fratelli s.p.a. intesa a conseguire la declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 8/4/2015 in relazione al comportamento assunto durante un periodo di malattia conseguente ad infortunio sul lavoro.
Adita dal lavoratore, la Corte d’Appello di Ancona con sentenza resa pubblica il 16/11/2016, in riforma della pronuncia di primo grado, accertava l’insussistenza della giusta causa di licenziamento, dichiarava risolto il rapporto di lavoro fra le parti e condannava la società al pagamento in favore di S.S., dell’indennità risarcitoria spettante ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 nella misura di diciotto mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
La Corte distrettuale perveniva a tale convincimento, in estrema sintesi, sul rilievo che la condotta oggetto di incolpazione era consistita nello svolgimento – durante il periodo di malattia – di una attività quotidiana ritenuta incompatibile con lo stato di salute del lavoratore. Tale condotta integrava violazione dell’obbligo di diligenza che incombe sul lavoratore e che avrebbe dovuto indurlo a rispettare le prescrizioni mediche concernenti l’osservanza di un periodo di riposo dopo il verificarsi dell’evento infortunistico. Il dipendente avrebbe dovuto, quindi, astenersi dal compiere attività che, sebbene non particolarmente gravose, perchè consistite nella quotidiana collaborazione alla vita familiare, si ponevano obiettivamente in contrasto con le prescrizioni mediche impartite.
Sotto altro versante, la Corte giudicava la sanzione applicata non proporzionata rispetto al comportamento posto in essere dal lavoratore, perchè non connotato da profili di tale gravità da impedire, anche temporaneamente, la prosecuzione del rapporto. Gli approdi ai quali era pervenuta la esperita CTU medico-legale, escludevano, infatti, che lo svolgimento di attività nei giorni successivi all’infortunio – seppure non esattamente rispettosa delle prescrizioni mediche – avesse “determinato un aggravamento della malattia”. Discendeva coerente, dalle esposte premesse in fatto, l’applicazione della tutela indennitaria prescritta dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 novellato.
Avverso tale decisione il lavoratore interpone ricorso per cassazione affidato a due motivi.
Resiste con controricorso la società, che spiega ricorso incidentale sostenuto da due motivi, successivamente illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo del ricorso principale si denuncia falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18 e art. 2119 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si criticano gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito, tralasciando di considerare che l’addebito formulato dalla parte datoriale concerneva in via prioritaria la simulazione fraudolenta dell’infortunio. Tale mancanza integrava, ontologicamente, la vera essenza del rilievo disciplinare, la cui sussistenza risultava smentita già nella fase sommaria del primo grado, posto che la genesi lavorativa dell’infortunio era stata acclarata dalla espletata consulenza medico-legale.
L’unitaria operazione valutativa delle mancanze ascritte al lavoratore, avrebbe dovuto indurre i giudici del gravame alla declaratoria di nullità del licenziamento per la insussistenza del fatto, con applicazione della tutela approntata dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4 novellato ex L. n. 92 del 2012.
2. Il motivo presenta evidenti profili di inammissibilità.
Secondo l’insegnamento di questa Corte, cui va data continuità, qualora una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata nè indicata nelle conclusioni ivi epigrafate, il ricorrente che riproponga tale questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale scritto difensivo o atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (ex plurimis, vedi Cass. 22/4/2016 n.8206, Cass. 18/10/2013 n.23675).
Nel giudizio di cassazione, infatti, che ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte, non sono prospettabili nuove questioni di diritto o temi di contestazione diversi da quelli dedotti nel giudizio di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili di ufficio o, nell’ambito delle questioni trattate, di nuovi profili di diritto compresi nel dibattito e fondati sugli stessi elementi di fatto dedotti (in termini, Cass.26/3/2012 n.4787).
Nello specifico, le condizioni per scrutinare detta censura non sussistono, perchè l’iter motivazionale percorso dalla Corte distrettuale non reca alcun riferimento alla simulazione dell’infortunio quale oggetto di specifica contestazione di addebito formulata da parte datoriale in data 8/3/15, di guisa che la questione sollevata si atteggia come sicuramente eccentrica rispetto al thema decidendum, non avendo indicato il ricorrente i tempi e modi di prospettazione della relativa questione nel corso del giudizio di merito; nè può tralasciarsi di considerare che non risulta riportato il contenuto della lettera di contestazione oggetto di censura, in violazione del principio di specificità dei motivi cui va modulato il ricorso per cassazione ex art. 366 c.p.c., n. 6, e del quale il principio di autosufficienza è corollario (vedi Cass. 3/1/14, n. 48, Cass. 18/10/13, n. 23675 ed in motivazione Cass. S.U. 22/5/2012 n.8077).
La censura non si sottrae, dunque, ad un giudizio di inammissibilità.
3. Con il secondo motivo si prospetta falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18,artt. 1176,2104 e 2119 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si critica l’iter argomentativo seguito dai giudici del gravame i quali hanno scrutinato la condotta assunta dal lavoratore nel periodo di malattia, elaborando un giudizio in astratto ed ex ante, piuttosto che, come doveroso, un giudizio in concreto ed ex post. Applicando il suddetto metodo ermeneutico, avrebbero dovuto escludere la violazione degli obblighi di correttezza e buona fede scaturenti dalla obbligazione lavorativa, in quanto il mancato rigoroso rispetto della prescrizione medica, non aveva arrecato – secondo le conclusioni rassegnate dall’ausiliare medico legale – alcun pregiudizio al processo di guarigione in corso.
4. Il motivo non è fondato.
In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia, la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente univoci. In linea di principio, (con riferimento allo svolgimento di attività lavorativa nei confronti di terzi) si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente assente per malattia sia di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa – valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata, nonchè alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro – sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione che la dottrina inserisce nella categoria dei doveri preparatori e strumentali rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. Cass. 1/7/2005 n.14046, Cass. 29/11/2012 n.21253, e da ultimo Cass.27/4/2017 n.10416).
Ad ulteriore specificazione di tale dictum, si è precisato (sempre con riferimento allo svolgimento di attività di lavoro per conto di terzi), che la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante” (Cass. n.14046/2005 cit.).
A siffatti principi si è conformata la Corte di merito che, con accertamento in fatto adeguatamente argomentato, come tale insindacabile in questa sede di legittimità (vedi Cass. 15/1/16, n. 586), ha dedotto che a seguito dell’infortunio, il medico specialista aveva prescritto che il paziente dovesse rimanere a riposo con tutore per 15 giorni con ghiaccio in loco; ha precisato che l’attività quotidiana svolta dal lavoratore, documentata dall’indagine ispettiva disposta dalla società, sia pure con il supporto del tutore, non aveva rispettato i dettami della prescrizione sanitaria; ha quindi concluso, con valutazione ex ante, che tale comportamento, aveva reso incerto il positivo esito del processo di guarigione, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto, oltre che degli specifici obblighi contrattuali di diligenza, così ponendosi in linea con i numerosi arresti di questa Corte secondo cui costituisce illecito disciplinare l’espletamento di attività extralavorativa durante il periodo di assenza per malattia non solo se da tale comportamento derivi un’effettiva impossibilità temporanea della ripresa del lavoro, ma anche quando la ripresa sia solo messa in pericolo dalla condotta imprudente (ex multis, vedi Cass. 5/8/15, n. 16465).
La statuizione della Corte di merito oggetto di critica, in quanto congrua e conforme a diritto per quanto sinora detto, si sottrae alla censura all’esame.
5. Con il primo motivo di ricorso incidentale la società denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18,artt. 1175,1176,1375,2104 e 2106 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto che la condotta del lavoratore non integrasse gli estremi della giusta causa di recesso, per non avere pregiudicato o ritardato la guarigione.
La valutazione della fattispecie doveva essere esplicata esclusivamente in astratto ed ex ante, con esclusione di ogni ulteriore scrutinio alla stregua delle emergenze scaturite dagli espletati accertamenti medico-legali.
6. Il motivo va disatteso.
Secondo le linee ermeneutiche dettate da questa Corte, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare l’irrogazione della massima sanzione disciplinare.
Quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, laddove l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito è incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici.
Mentre il giudizio di sussunzione è giudizio di diritto, in quanto tale sottoponibile anche a questa Suprema Corte, quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l’entità del danno, il grado della colpa o l’intensità del dolo, l’esistenza o non di precedenti disciplinari a carico del dipendente (vedi Cass.29/3/2017 n.8136, Cass. 26/4/2012 n.6498).
7. E’ quanto ha fatto la gravata pronuncia, che con motivazione immune da censure ha ritenuto che l’inadempimento degli specifici obblighi contrattuali di diligenza posto in essere dal lavoratore, non fosse di gravità tale da integrare giusta causa di recesso; ha valorizzato a tal uopo, la circostanza che la condotta assunta dal lavoratore, sia pure incauta, era stata posta in essere nella erronea consapevolezza che l’adozione del supporto medico gli consentisse “di poter condurre una vita normale, peccando così di leggerezza nel non rispettare la prescrizione di riposo impostagli dai medici curanti”; ha quindi concluso, per l’applicazione della sanzione approntata dal comma 5 dell’art. 18 novellato, in considerazione della effettiva sussistenza del fatto, sia pur sorretto da un elemento psicologico non connotato da profili di tale intensità da integrare una giusta causa di recesso.
La censura non attinge, dunque, la correttezza della sussunzione della fattispecie nel precetto normativo operata dal giudice di merito, secondo gli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (vedi ex aliis, Cass. 15/4/16, n. 7568; Cass. 24/3/15, n. 5878; Cass. 26/4/12, n. 6498), avendo la Corte territoriale, per quanto sinora detto, correttamente applicato i principi regolanti la materia; siccome infondata, deve essere, pertanto, respinta.
8. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 5 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si prospetta l’erroneità della statuizione concernente la quantificazione dell’indennità risarcitoria sancita dalla richiamata disposizione, che non ha considerato il comportamento gravemente negligente assunto dal ricorrente, enfatizzandone esclusivamente l’atteggiamento collaborativo, frutto, invece, della sola consapevolezza circa l’indifendibilità della condotta posta in essere.
9. Anche tale doglianza non è meritevole di accoglimento.
Come questa Corte ha avuto modo di osservare, in materia di sindacato di legittimità sulla misura dell’indennità risarcitoria (con peculiare riferimento alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5, in caso di illegittima opposizione del termine al contratto di lavoro), la determinazione, operata dal giudice di merito, tra il minimo ed il massimo è censurabile – al pari dell’analoga valutazione per la determinazione dell’indennità di cui alla L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 – solo in caso di motivazione assente, illogica o contraddittoria (vedi ex plurimis, Cass. 8/6/2006, n. 13380, 22/1/2014, n. 1320).
Nello specifico, la Corte di merito ha modulato il giudizio di quantificazione dell’indennità risarcitoria “forte” facendo riferimento a taluni indici obiettivi, quali il riferimento all’anzianità di servizio del dipendente, alla natura collaborativa dell’atteggiamento assunto nella fase degli accertamenti, alla imponenza delle dimensioni proprie della parte datoriale, con motivazione che non risponde ai requisiti della mera apparenza, della materiale inesistenza ovvero della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta, che avrebbero potuto giustificare l’esercizio del sindacato di legittimità.
L’espletato accertamento investe, quindi, pienamente la quaestio facti, e rispetto ad esso il sindacato di legittimità si arresta entro il confine segnato dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014.
10.In definitiva, al lume delle suesposte considerazioni, entrambi i ricorsi vanno respinti.
La situazione di reciproca soccombenza giustifica infine l’integrale compensazione fra le parti delle spese inerenti al presente.
La circostanza che i ricorsi siano stati proposti in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,comma 17 e di provvedere in conformità.
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi. Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, a norma dell’art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 30 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018
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