LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 9473-2014 proposto da:
S.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE, 71, presso lo studio dell’avvocato ELISABETTA GASPARINI PICCARO, rappresentato e difeso dall’avvocato SERENA ZORZI, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
G.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ETTORE MARIA GLIOZZI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 315/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 12/04/2013, R.G.N. 474/2012.
RILEVATO CHE: con sentenza non definitiva nr. 3372 del 2012 il Tribunale di Torino accertava la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno tra G.A. e S.C. dall’1.9.1996 al 5.3.2008; con successiva sentenza definitiva nr. 850 del 2012, condannava il secondo a corrispondere alla prima, a titolo di differenze retributive, la somma complessiva di Euro 84.868,44 oltre accessori e spese; con sentenza nr. 315 del 2013, la Corte d’appello di Torino respingeva gli appelli proposti da S.C., condividendo la valutazione del materiale probatorio operata dal giudice di primo grado; ha proposto ricorso per cassazione, S.C., affidato ai seguenti motivi: con il primo motivo, è dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ed insufficiente motivazione in relazione ad un punto decisivo della controversia in ordine all’an; la sentenza è censurata per non aver la Corte di appello valutato le emergenze documentali ed in particolare per aver la Corte territoriale erroneamente esaminato il documento che attestava il pagamento delle somme dovute a titolo di tredicesima e quattordicesima e di trattamento di fine rapporto; con il secondo motivo, è dedotta violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. ed insufficiente motivazione in relazione ad un punto decisivo della controversia in ordine all’an; si censura l’impianto motivazionale della decisione impugnata per aver i giudici di merito ritenuto maggiormente attendibili le dichiarazioni dei testi indotti dalla lavoratrice piuttosto che quelle rese dai testi indicati dalla parte datoriale; a tal fine, la parte ricorrente contrappone le diverse risultanze al fine di dimostrare l’illogicità del percorso argomentativo dei giudici del merito; con il terzo motivo, è dedotta “mancata valutazione ed applicazione” dell’art. 2094 c.c. per aver la Corte di appello omesso di pronunciare in merito alla sussistenza degli indici presuntivi della subordinazione; con il quarto motivo è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonchè vizio di motivazione in ordine ad un punto decisivo per il giudizio; si censura la sentenza per aver riconosciuto come dovute somme in relazione alle quali non era stata raggiunta la prova; ha resistito con controricorso G.A.; ha depositato memoria, ex art. 380 bis 1 c.p.c., S.C..
CONSIDERATO CHE: le doglianze complessivamente svolte nei quattro motivi investono la sentenza in relazione alla valutazione del materiale probatorio, di modo che anche la deduzione delle violazioni di legge contenuta nelle rubriche dei motivi scherma in realtà deduzione di vizi di motivazione; il ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, una questione di malgoverno degli art. 115 e 116 c.p.c. può porsi solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; analogamente, una questione di violazione degli artt. 2094 e 2697 c.c. può porsi, alternativamente se il giudice di merito: 1) determini erroneamente i criteri astratti e generali per la qualificazione del rapporto (costituendo invece apprezzamento di fatto la valutazione del concreto atteggiarsi del rapporto) ovvero 2) in assenza della prova del fatto contestato, applichi la regola di giudizio basata sull’onere della prova, individuando erroneamente la parte onerata della stessa; nessuna di tali situazioni è illustrata nei motivi del ricorso, censurandosi piuttosto attività riservate al giudice di merito; spetta a questi, infatti, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento, la valutazione delle prove, il controllo della loro attendibilità e concludenza, la scelta, fra le risultanze istruttorie, di quelle ritenute idonee ad acclarare i fatti oggetto della controversia; si tratta di profili insindacabili in sede di legittimità se non nei ristretti limiti in cui lo è il vizio di motivazione, secondo la formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ratione temporis vigente; la sentenza è soggetta al regime stabilito dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. con L. n. 134 del 2012, essendo stata depositata nel 2013; come ripetutamente chiarito da questa Corte, la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 va interpretata come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione; è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; le censure che si imputano alla sentenza non integrano omissioni motivazionali di tale gravità e tanto meno configurano il vizio specifico ex art. 360 c.p.c., n. 5 che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); in definitiva, pretendendosi dalla Corte un nuovo giudizio di fatto, estraneo a questa sede di legittimità, il ricorso va dichiarato complessivamente inammissibile; le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, nr. 115, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15 % ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Adunanza Camerale, il 28 giugno 2018. Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018