LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –
Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 20818/2015 proposto da:
L.M.T., + ALTRI OMESSI, tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO VISCONTI 99, presso lo studio dell’avvocato BERARDINO IACOBUCCI, rappresentati e difesi dall’avvocato AURELIO ARNESE, giusta delega in atti;
– ricorrenti –
contro
MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, C.F.
*****, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI N. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 6814/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 03/09/2014 R.G.N. 3220/2011.
RILEVATO
1. con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza di primo grado che aveva rigettato le domande proposte dagli odierni ricorrenti nei confronti del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, volte al riconoscimento del loro diritto all’ equiparazione, quanto al trattamento economico, al personale delle qualifiche ad esaurimento, di cui al D.P.R. n. 748 del 1972, artt. 60 e 61, in ragione dello svolgimento di mansioni del tutto identiche a quelle del suddetto personale, in quanto proveniente dalla ex 9^ qualifica funzionale;
2. per la cassazione di questa sentenza i ricorrenti indicati in epigrafe hanno proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, al quale resiste con controricorso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
CONSIDERATO
3. i ricorrenti denunciano, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 e dell’art. 28 del CCNL del Comparto Ministeri 1998-2001;
4. le questioni oggetto del presente ricorso hanno già costituito oggetto di esame da parte di questa Corte che, con numerose sentenze (4334/2018, 19275/2017, 19041/2017, 18300/2017, 17920/2017, 8714/2017, 7350/2017, 24979/2016, 18714/2016, 18578/2016, 13051/2016, 25396/2015, 18096/2015, 9313/2011, 11982/2010), ha affermato che:
5. in materia di pubblico impiego privatizzato, il principio espresso dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 45, secondo il quale le amministrazioni pubbliche garantiscono ai propri dipendenti parità di trattamento contrattuale, opera nell’ambito del sistema di inquadramento previsto dalla contrattazione collettiva e vieta trattamenti migliorativi o peggiorativi a titolo individuale, ma non costituisce parametro per giudicare le differenziazioni operate in quella sede, in quanto la disparità trova titolo non in scelte datoriali unilaterali lesive, come tali, della dignità del lavoratore, ma in pattuizioni dell’autonomia negoziale delle parti collettive, le quali operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato, di regola sufficiente, salva l’applicazione di divieti legali, a tutelare il lavoratore in relazione alle specificità delle situazioni concrete;
6. la distinzione in termini stipendiali fra il personale appartenente a ruolo ad esaurimento e gli altri dipendenti della ex 9^ qualifica funzionale, tutti ormai inseriti nell’area contrattuale “C” dai CCNL, lungi dal determinare una violazione di legge da parte della contrattazione collettiva, costituisce, anzi, attuazione della norma transitoria contenuta nello stesso D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 3, in virtù della quale i dipendenti delle qualifiche ad esaurimento di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748, artt. 60 e 61 (e successive modificazioni ed integrazioni) e quelli di cui alla L. 9 marzo 1989, n. 88, art. 15, in presenza della soppressione dei ruoli, conservano le qualifiche medesime “ad personam”: ciò significa che tali qualifiche costituiscono una consapevole eccezione legislativa rispetto all’assetto ordinario, eccezione prevista dallo stesso testo (il D.Lgs. n. 165 del 2001) cui appartiene la norma (art. 45) che si assume essere stata violata o falsamente applicata;
7. l’interpretazione sistematica impedisce l’invocata estensione del trattamento stipendiale corrispondente a tali qualifiche sopravvissute “ad personam”, pena lo svuotamento dello stesso portato precettivo della summenzionata previsione transitoria, in un capovolgimento del normale rapporto tra norme transitorie e disposizioni a regime che comporterebbe un sostanziale (e inedito) allineamento (in termini di conseguenze sul piano retributivo) delle seconde alle prime;
8. il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 45 cpv., non vieta ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, ma solo quelli contrastanti con specifiche previsioni normative, restando escluse dal sindacato del giudice le scelte compiute in sede di contrattazione collettiva;
9. il principio di parità di trattamento nell’ambito dei rapporti di lavoro pubblico, sancito dal cit. art. 45, vieta trattamenti individuali migliorativi o peggiorativi rispetto a quelli previsti dal contratto collettivo, ma non costituisce parametro per giudicare delle eventuali differenziazioni operate in quella sede;
10. non sarebbe ipotizzabile nel caso di specie un contrasto della pattuizione collettiva con il principio di non discriminazione, inidoneo a vietare ogni trattamento differenziato nei confronti delle singole categorie di lavoratori, rilevando sotto tale profilo solo le specifiche previsioni normative contenute nell’ordinamento (Cass. 10105/2013);
11. il principio di parità nasce storicamente non solo e non tanto dall’esigenza di recuperare uguaglianza o, meglio, esatta giustizia distributiva, quanto dalla necessità di regolare l’uso d’un potere privato all’interno d’una comunità organizzata; questo bisogno si manifesta – cioè – per colmare il vuoto di “contraddittorio” ove manchi istituzionalmente la possibilità che il soggetto in posizione subalterna faccia valere le proprie ragioni contro le scelte discrezionali del soggetto in posizione preminente; ciò non si verifica rispetto alla contrattazione collettiva, in cui le parti operano su un piano tendenzialmente paritario e sufficientemente istituzionalizzato.;
12. non è ravvisabile nella complessiva disciplina, legale e convenzionale, che viene in esame la violazione di disposizioni comunitarie e, segnatamente, della direttiva comunitaria 2000/78 CE, nonchè dei principi di cui alla sentenza 577/08;
13. ai principi innanzi richiamati, il Collegio intende dare continuità, non rinvenendosi nelle prospettazioni difensive sviluppate nel ricorso elementi che giustifichino l’esonero di questa Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti, sul quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione (assegnatale dall’art. 65 ord. giud., di cui al R.D. 30 gennaio 1941, n. 12 e succ. modificazioni, ma di rilevanza costituzionale, essendo anche strumentale al suo espletamehto il principio, sancito dall’art. 111 Cost., dell’indeclinabilità del controllo di legittimità delle sentenze) di assicurare l’esatta osservanza, l’uniforme interpretazione della legge e l’unità del diritto oggettivo nazionale;
14. va, infatti, osservato che, diversamente da quanto opinano i ricorrenti, il CCNL Comparto Ministeri del 16.2.1999 normativo 1998 – 2001 economico 1998 – 1999 con l’art. 28, si limita a definire la struttura della retribuzione ma null’altro dispone in ordine al trattamento economico del personale inquadrato nella categoria C;
15. sulla scorta delle considerazioni svolte il ricorso va rigettato;
16. le spese seguono la soccombenza;
17. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte:
Rigetta il ricorso.
Condanna i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 16.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 6 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018