Corte di Cassazione, sez. I Civile, Sentenza n.27704 del 30/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7739/2015 proposto da:

Fallimento *****, in persona del curatore dott. D.F.G., elettivamente domiciliato in Roma, Via Lucrezio Caro n. 63, presso lo studio dell’avvocato Manca Filippo, rappresentato e difeso dall’avvocato Loffreda Augusto, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Unicredit s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Bruno Buozzi n. 77, presso lo studio dell’avvocato Tornabuoni Filippo, rappresentata e difesa dall’avvocato Laterza Paolo, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Unicredit Credit Management Bank s.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 653/2014 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 25/09/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/07/2018 dal cons. NAZZICONE LOREDANA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato Gabriele Ferabecoli, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 25 settembre 2014, la Corte d’appello di Lecce, in parziale riforma della decisione di primo grado, ha ridotto ad Euro 155.727,55 la somma dovuta dalla Unicredit s.p.a., quale importo indebitamente percepito con riguardo al contratto di conto corrente bancario intercorso fra le parti, cui era stato applicato un tasso ultralegale e la capitalizzazione trimestrale.

La Corte, per quanto ancora rileva, ha ritenuto, con l’ausilio di c.t.u., la natura solutoria delle rimesse effettuate, in quanto non è stata provata l’esistenza di un’apertura di credito o di affidamenti nel periodo considerato, con conseguente operatività della prescrizione decennale dai singoli versamenti.

Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione il fallimento della società, sulla base di un motivo. Resiste la banca con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con l’unico motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e art. 115 c.p.c., nonchè il vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione, oltre all’illegittima applicazione del D.L. n. 225 del 2010, art. 2, comma 61, convertito dalla L. n. 101 del 2011, per avere la corte d’appello disposto la rinnovazione della c.t.u., e, poi, in accordo con le risultanze della medesima, considerato le rimesse come solutorie, mentre esse hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista, in via presuntiva, ed il conto risultava affidato in via di fatto.

2. – Il motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.

Come palesa lo svolgimento del medesimo, ove ripetutamente assume la natura solutoria delle rimesse, il ricorso mira a sottoporre alla Corte un nuovo giudizio sul fatto, precluso in sede di legittimità.

Anche la censura di vizio di motivazione è inammissibile, perchè esula dalla fattispecie dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (nel testo applicabile ratione temporis risultante dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134).

In sostanza, il ricorrente insiste nella ritenuta disponibilità relativa ad un preteso affidamento di fatto: ma la Corte del merito ne ha risolutivamente escluso la prova; nè essa ha fondato la decisione sulla normativa dichiarata incostituzionale (da Corte cost. n. 78/2012).

Neppure merita censura la sentenza impugnata, laddove ha ritenuto decorrente la prescrizione non dalla chiusura finale del conto, ma dai singoli versamenti, in assenza di un’apertura di credito: essendosi essa pienamente conformata alla costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui le rimesse sul conto corrente dell’imprenditore sono da considerare “ripristinatorie” quando il conto stesso, all’atto della rimessa, risulti “scoperto”, onde per accertare se una rimessa del correntista sia destinata al pagamento di un proprio debito verso la banca ed abbia quindi funzione solutoria, ovvero valga solo a ripristinare la provvista sul conto corrente, occorre fare riferimento al criterio del “saldo disponibile” del conto (per tutte, Cass., sez. un., 2 dicembre 2010, n. 24418).

Presupponendo infatti il decorso del termine di prescrizione del diritto alla ripetizione che sia intervenuto un atto giuridico definibile come “pagamento”, che l’attore pretende essere indebito, la sola annotazione di ogni singola posta di interessi che si assumono illegittimamente addebitati dalla banca al correntista è, di per sè, scarsamente significativa, ai fini della decorrenza del termine di prescrizione dell’azione di ripetizione: occorre, invece, verificare se, pendente il contratto di apertura di credito e prima della chiusura del conto, il correntista abbia effettuato quei versamenti.

Poichè la decorrenza della prescrizione dalla data del pagamento è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti, in mancanza di un’apertura di credito non può che concludersi per detto dies a quo.

In definitiva, sul punto va ribadito come, qualora si tratti di versamenti eseguiti su un conto in passivo (o “scoperto”), cui non accede alcuna apertura di credito a favore del correntista, o quando i versamenti siano destinati a coprire un passivo eccedente i limiti dell’accreditamento, allora dovrà dirsi che quei versamenti integrino la nozione di “pagamento”; il contrario, quando i versamenti in conto, non avendo il passivo superato il limite dell’affidamento concesso al cliente, consistano in meri atti ripristinatori della provvista, pur sempre nella disponibilità del cliente.

In ordine all’onere della prova, è opportuno chiarire come esso si atteggi nei giudizi in questione.

a) Il cliente, il quale agisce ex art. 2033 c.c., per la ripetizione dell’indebito corrisposto alla banca nel corso del rapporto di conto corrente, ha l’onere di provare i fatti costitutivi del diritto vantato: vale a dire, a fronte dell’annotazione di poste passive sul suo conto corrente nell’assunto costituenti dazione indebita, la causa petendi dell’azione, in ragione della natura non dovuta di quegli addebiti (per l’esistenza di un’indebita capitalizzazione, interessi non consentiti, costi non concordati, e così via).

In tal senso sono plurime decisioni di questa Corte in materia di domanda di ripetizione di indebito oggettivo, secondo le quali il creditore istante è tenuto a provare i fatti costitutivi della sua pretesa: quindi, la dazione e la mancanza di una causa che lo giustifichi, ovvero il venir meno di questa (cfr. Cass. 25 gennaio 2011, n. 1734; 17 marzo 2006, n. 5896; 13 novembre 2003, n. 17146).

b) A sua volta, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dalle annotazioni passive in conto, quale fatto estintivo, essa ha l’onere di allegare l’inerzia, il tempo del pagamento ed il tipo di prescrizione invocata.

Deve considerarsi, in proposito, che l’eccezione di prescrizione è validamente proposta quando la parte ne abbia allegato il fatto costitutivo, e cioè l’inerzia del titolare, e manifestato la volontà di avvalersene (da ultimo, Cass. 22 febbraio 2018, n. 4372 e Cass. 26 luglio 2017, n. 18581, che richiamano precedenti ulteriori, fra cui Cass. 29 luglio 2016, n. 15790; Cass. 20 gennaio 2014, n. 1064).

c) Se, a questo punto, il tempo decorso dalle annotazioni passive integri il periodo necessario per il decorso della prescrizione, diviene onere del cliente provare il fatto modificativo, consistente nell’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quei versamenti come mero ripristino della disponibilità accordata e, dunque, possa spostare l’inizio del decorso della prescrizione alla chiusura del conto. Apertura di credito che non è di per sè, come è noto, un contratto necessariamente riconnesso a quello di conto corrente.

Giova al riguardo osservare come la decisione citata dal ricorrente (Cass. 26 febbraio 2014, n. 4518, non massimata), laddove in motivazione ha statuito che “i versamenti eseguiti su conto corrente, in corso di rapporto hanno normalmente funzione ripristinatoria della provvista e non determinano uno spostamento patrimoniale dal solvens all’accipiens” e che “Tale funzione corrisponde allo schema causale tipico del contratto”, ha quale presupposto, appunto, l’esistenza di un contratto di apertura di credito: onde il principio va ricondotto all’ambito di specie suo proprio.

Come si è in molte altre pronunce precisato, occorre dunque distinguere “a seconda che il contratto risulti “affidato” o meno: in caso di conto “non affidato”, tutte le rimesse devono automaticamente reputarsi solutorie, con conseguente inesistenza di alcun onere in capo alla banca di individuarle specificamente” (Cass. 24 maggio 2018, n. 12977; Cass. civ. (ord.), 22-02-2018, n. 4372).

Ne deriva che grava sull’attore in ripetizione, al fine di poter considerare detti versamenti alla stregua di meri atti di ripristino della disponibilità – come tali, non aventi lo scopo e l’effetto di uno spostamento patrimoniale in favore della banca e, dunque, inidonei al decorso della prescrizione – l’onere di provare l’esistenza di un affidamento.

In definitiva, poichè la decorrenza della prescrizione dalla data del pagamento è condizionata al carattere solutorio, e non meramente ripristinatorio, dei versamenti, essa sussiste sempre in mancanza di un’apertura di credito: onde, eccepita dalla banca la prescrizione del diritto alla ripetizione dell’indebito per decorso del termine decennale dal pagamento, è onere del cliente provare l’esistenza di un contratto di apertura di credito, che qualifichi quel pagamento come mero ripristino della disponibilità accordata.

Essendosi la corte del merito conformata al principio esposto, anche la censura proposta in diritto si palesa infondata.

3. – Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite, che liquida in Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfetarie al 15% ed agli accessori come per legge.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018

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