Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.27759 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16930-2017 proposto da:

L.F. in proprio e nella qualità di associato dello STUDIO ASSOCIATO BIGHELLI & LODA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA RICCARDO GRAZIOLI LANTE 7, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MOROSINI, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO ***** SRL IN LIQUIDAZIONE, in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIORGIO ASCHIERI;

– controricorrente –

avverso il decreto del TRIBUNALE di VERONA, depositato il 26/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/06/2018 dal Consigliere Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA.

FATTI DI CAUSA

1.- L.F. ha proposto domanda di insinuazione, in via di “prededuzione privilegiata ai sensi del combinato disposto dell’art. 2751 bis cod. civ. e art. 111 L. fall.”, nel passivo fallimentare della s.r.l. ***** per crediti derivanti dall’effettuazione di attività professionale. Più in particolare, ha titolato la sua richiesta nell’effettuazione dell’attestazione ex art. 161, comma 3, L. fall. di un piano concordatario presentato dalla detta società e nella redazione della connessa relazione giurata ex art. 160, comma 2, L. fall..

Il giudice delegato ha respinto la domanda, riportandosi alla seguente motivazione: “escluso per inadempimento contrattuale all’attività professionale in qualità di attestatore del piano ex art. 161, comma 3, L. fall., difettando anche il presupposto dell’utilità prestata, secondo il principio stabilito da Cass., n. 12119/2016. Si rileva l’attestazione di credito IVA inesistente per Euro 192.952,00 con conseguente assenza di presupposti per la fattibilità giuridica del piano concordatario. Trattasi del diritto di rivalsa IVA a seguito di atto di accertamento conseguente a superamento del plafond dell’esportatore abituale, esercitabile solo previo pagamento della maggiore imposta accertata, compresi sanzioni e interessi, così come previsto dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 60, comma 7 modificato dal D.L. n. 1 del 2012, art.93 e chiarito dall’Agenzia delle Entrate nella circolare n. 35/E del 17 dicembre 2013”.

2.- Con decreto del 26 maggio 2017, il Tribunale di Verona ha poi rigettato l’opposizione che L.F. aveva proposto sulla base del rilievo che la censura mossagli è attinente, in realtà, a “un problema interpretativo di una norma tributaria”, nonchè dell’ulteriore osservazione per cui, “sotto il profilo dell’utilità, l’esclusione della prededuzione a favore del professionista non può fondarsi sulla valutazione ex post della concreta utilità della prestazione”.

In proposito, il Tribunale ha premesso che, “al fine di effettuare l’attestazione di cui all’art. 161, comma 3, L. fall., il professionista deve redigere una relazione motivata dalla quale risultino, oltre che l’attività svolta, le ragioni che hanno portato a ritenere veridici i dati aziendali e fattibile il piano e, laddove esso si fondi su un evento improbabile o giuridicamente non sostenibile, il professionista è tenuto a darne conto”. Cosa non avvenuta nel caso concreto.

“L’attestatore si è limitato”, ha proseguito il decreto, “ad avvalorare il piano così come predisposto senza alcun cenno alla normativa tributaria – che subordina chiaramente il diritto di rivalersi dell’imposta o della maggiore imposta relativa ad avvisi di accertamento o rettifica nei confronti dei cessionari di beni o dei committenti dei servizi, non solo a seguito del pagamento dell’imposta o della maggiore imposta, ma anche delle sanzioni e degli interessi – e senza alcun vaglio, anche critico, delle indicazioni fornite dalla stessa Agenzia delle Entrate”. Nel piano, e nella attestazione del medesimo, “non si fa cenno delle condizioni poste dalla normativa per la detraibilità dell’IVA evasa e si indica solamente che sarebbe stata proposta una transazione fiscale per il pagamento, nella percentuale proposta ai chirografi, della sanzione e degli interessi”.

Di conseguenza, la “mera indicazione che la fattibilità del piano era condizionata all’accettazione della transazione fiscale da parte dell’Agenzia delle Entrate non può evidentemente soddisfare quanto richiesto all’accertatore non solo in termini di corretta informazione, ma in ordine alla valutazione sulla stessa sostenibilità del piano. E’ mancata, e manca tuttora, una convincente argomentazione in ordine alla accoglibilità della proposta di transazione e al superamento del disposto dell’art. 60”.

3.- Contro il decreto del Tribunale di Verona è insorto L.F., con ricorso che ha articolato due motivi per la cassazione dello stesso.

Resiste, con controricorso, il Fallimento.

Entrambe le parti hanno altresì depositato memorie ex art. 380 bis cod. proc. civ..

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.- Il primo motivo di ricorso è intestato “violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 161, comma 3, L. fall., art. 1176 c.c., comma 2, artt. 1218 e 2236 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1”.

Nel merito sostiene che il “dott. L. ha adempiuto correttamente alle proprie obbligazioni in applicazione dei criteri di diligenza (di cui, appunto, al predetto art. 1176 c.c., comma 2) in ossequio al mandato conferitogli da GS”. Egli “ha ritenuto di condividere… l’interpretazione fornita da GS” in relazione a una problematica posta dalla normativa dell’IVA e, “condividendola”, ha “attestato la fattibilità giuridica del piano concordatario della società”, pure segnalando, peraltro, che la stessa rimaneva nel concreto condizionata all’accettazione della transazione ex art. 182 ter, L. fall. da parte dell’Agenzia.

“Una diversa interpretazione di un coacervo di norme (fiscali e fallimentari) applicabili a una fattispecie complessa come quella oggetto del concordato de quo, non può configurarsi” puntualizza il motivo – “come un “inadempimento” da parte del professionista attestatore alle proprie obbligazioni, in particolare laddove non è così pacifica la disciplina”.

D’altronde – incalza ancora il motivo -, l’attestazione di un piano concordatario implica, di per sè stessa, l’applicazione della norma dell’art. 2236 cod. civ. con la conseguente limitazione della responsabilità del professionista al caso di dolo o colpa grave. Nel concreto, poi, la s.r.l. ***** era stata ammessa alla procedura di concordato (poi fatta oggetto di rinuncia), senza obiezioni o riserve: “l’intervenuta ammissione alla procedura concordataria costituisce già di per sè una presunzione di adempimento ex art. 1218 cod. civ. da parte del dott. L. alle proprie obbligazioni”.

5.- Il motivo non merita di essere accolto.

In proposito va rilevato, in via per così dire preliminare, che non risulta condivisibile la tesi del ricorrente, per cui l’attestazione di un piano concordatario comporterebbe sempre e comunque – l’applicazione della disciplina dettata dall’art. 2236 cod. civ.. Lo svolgimento in concreto della detta attività potrà anche implicare, al ricorrere di determinate evenienze, la “soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà”; tuttavia, non si scorge alcuna ragione per predicare automatismi di sorta in materia. L’importanza del compito affidato dalla legge all’attestatore del piano segnala, piuttosto, l’esigenza di rigore, non certo quella di esonero o di riduzione della responsabilità. Del resto, l’affermazione svolta dal ricorrente si ferma, a questo proposito, sul piano della semplice allegazione.

Neppure si vede perchè l’ammissione alla procedura concordataria dovrebbe implicare presunzione di adempimento dell’attestatore del piano e inversione dell’onere della prova, come pure ritiene il ricorrente. Per sè, l’attestazione è uno strumento a disposizione delle verifiche del tribunale (e per le valutazioni dei creditori), non l’oggetto del controllo. Anche a questo riguardo, d’altro canto, il ricorrente non viene a fornire di supporti argomentativi la tesi che afferma.

6.- Ciò posto, va adesso rilevato come non possa ritenersi corretta l’affermazione del ricorrente, per cui la presenza di una questione giuridica “opinabile” esclude la configurabilità di un inadempimento dell’attestatore, che accolga una o l’altra delle soluzioni possibili.

Di là dai margini di effettiva “opinabilità” della questione giuridica sottoposta nel caso concreto all’esame dell’attestatore (in realtà pressochè inesistente, come ha riscontrato il Tribunale, in ragione del tenore della norma dell’art. 60, comma 7, che è inequivoco nella richiesta di includere nel pagamento anche sanzioni e interessi), il punto non s’incentra – di per sè, almeno – sui termini della soluzione del problema che venga accolta, o “condivisa”, dell’attestatore.

Secondo quanto riscontrato dal decreto impugnato (con rilevazione comunque non sindacabile in sede di giudizio di legittimità), nel caso in esame l’attestatore non ha neppure dato conto del fatto che la proposta formulata dalla società veniva a profilare la sussistenza di una “questione giuridica” e, quindi, della “non pacificità” della soluzione adottata dalla stessa. Tanto meno ha esposto le ragioni per le quali tale soluzione risultava condivisibile (e, anzi, propriamente condivisa dall’attestatore) o che, comunque, rendevano la medesima possibile e (più o meno) credibile.

7.- Il secondo motivo di ricorso – intestato “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 111, L. fall. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1 – assume che “una volta accertato il corretto adempimento da parte del dott. L. alle proprie obbligazioni professionale di attestatore, il relativo credito gode del beneficio della prededuzione”.

Il rigetto del primo motivo di ricorso comporta assorbimento del motivo in discorso.

8.- In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese seguono il criterio della soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida nella misura di Euro 2.400,00 (di cui Euro 100,00 per esborsi).

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater della ricorrenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, di misura pari a quello dovuto per il ricorso, a mente del medesimo art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile, il 14 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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