LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15367-2017 proposto da:
C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUCREZIO CARO 62, presso lo studio dell’avvocato SABINA CICCOTTI, rappresentato e difeso dagli avvocati FABRIZIO GUERRERA, MARIANNA ELISABETTA GURRADO;
– ricorrente –
contro
FALLIMENTO ***** SRL;
– intimato –
avverso la sentenza n. 290/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 24/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/06/2018 dal Consigliere Dott. ALDO ANGELO DOLMETTA.
FATTI DI CAUSA
1.- La curatela del Fallimento della ***** società a responsabilità limitata costituita nell’ottobre 1994 e dichiarata fallita nell’aprile ***** – ha convenuto avanti al Tribunale di Messina C.S., insieme ad altri soggetti, per chiedere l’accertamento della violazione, da parte di questi, degli obblighi inerenti alla carica di amministratore della società, con condanna al risarcimento dei conseguenti danni.
Constatata la sussistenza di gravi condotte lesive poste in essere in danno della società (per non avere questa presentato bilanci, nè tenuto altre scritture contabili obbligatorie, nè versato i dovuti contributi previdenziali; per non essere stata versata nei conti correnti bancari della società “parte ingente degli incassi dei vari punti vendita”), con sentenza del maggio 2014 il Tribunale di Messina ha affermato la responsabilità dell’amministratore C.. Rilevato che i fatti accertati non erano direttamente riconducibili a una sua condotta commissiva, il giudice ha tuttavia ritenuto la responsabilità del medesimo per colpa in vigilando sulla base degli artt. 2487 e 2392 cod. civ., nel testo precedente alla riforma del 2003.
2.- Con pronuncia del 24 marzo 2017, la Corte di Appello di Messina ha rigettato l’appello proposto da C.S., confermando la sentenza resa dal giudice di primo grado.
A fronte del rilievo dell’amministratore – per cui lo “specifico assetto organizzativo della s.r.l.” poi fallita “si configurava non come organo “amministrativo collegiale” (consiglio di amministrazione), ma come sistema di “amministrazione disgiunta” (tra i due amministratori, F. e C.)” -, la Corte territoriale ha osservato, in particolare, che la società era “dotata di un sistema di amministrazione collegiale”: così risultando sia dall’art. 11 dello statuto (che prevedeva la nomina di due amministratori), sia pure dall’art. 6 dell’atto costitutivo (“la società è amministrata da un consiglio di amministrazione, composto da due membri scelti fin da ora nella persone di F.A. e C.S., che accettano. Essi durano in carica a tempo indeterminato. Ad essi spetta, disgiuntamente e a firme separate, il potere di amministrazione…”). E ha altresì rilevato che l’adozione del metodo disgiuntivo nell’amministrazione delle società di capitali non vale a escludere la “responsabilità di alcuni amministratori per le violazioni commesse dagli altri”, non facendo in ogni caso venire meno l’obbligo di attenta vigilanza sul generale andamento della gestione.
A fronte dell’altro rilievo dell’amministratore – di insussistenza in concreto del nesso di causalità tra il suo comportamento omissivo e il danno provocato dai fatti commessi da altri soggetti -, la Corte territoriale ha rilevato che la norma dell’art. 2392 cod. civ. (versione vigente all’epoca) “deve essere interpretata nel senso che ciascuno dei componenti del consiglio di amministrazione è tenuto ad attivarsi allo scopo di esercitare un controllo effettivo sull’operato degli altri”. Perciò, l’amministratore non può “sottrarsi alla responsabilità adducendo che le operazioni integranti l’illecito sono state poste in essere, con ampia autonomia, da un altro soggetto”; non risulta scriminante, di conseguenza, il fatto che l’amministratore, “pur avendo accettato l’incarico”, “si sia totalmente disinteressato della società”.
A fronte del rilievo ancora ulteriore dell’amministratore facente perno sulla circostanza che nel luglio 1995 l’amministratore C. aveva presentato le dimissioni dall’incarico -, la Corte territoriale ha in contrario affermato che ai sensi dell’art. 2487 e 2385 cod. civ. (come vigenti all’epoca) la “rinuncia all’ufficio di amministrazione ha effetto immediato solo se rimane in carica la maggioranza del consiglio di amministrazione”.
3.- Nei confronti della sentenza della Corte messinese è insorto C.S., che, presentando ricorso, ha articolato sette motivi per la cassazione della medesima.
Il Fallimento non ha svolto attività difensive nel presente giudizio di legittimità.
Il ricorrente ha poi depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
4.- Il primo motivo e il secondo motivo di ricorso vanno trattati in modo congiunto, in ragione della loro sostanziale omogeneità.
Il primo motivo è intestato “violazione e falsa applicazione degli artt. 2380, 2384 e 2487 vecchio testo cod. civ., nonchè degli artt. 1362, 1363, 1366,1367 e 1369 cod. civ. per l’erronea configurazione dell’esistenza di un consiglio di amministrazione della s.r.l. fallita, anzichè di un sistema di amministrazione disgiuntiva”.
A sua volta, il secondo motivo invoca “violazione e falsa applicazione degli artt. 2392 e 2487 vecchio testo cod. civ. per erronea configurazione, in capo al singolo amministratore, di un dovere di vigilanza sul generale andamento della gestione, nell’ipotesi di amministrazione disgiuntiva della s.r.l.”.
5.- Ritiene dunque il ricorrente che l’errore di base della decisione della Corte messinese sia stato quello di trascurare di considerare lo specifico assetto organizzativo della s.r.l., come risultante dall’adozione del modello organizzativo dell'”amministrazione binaria disgiuntiva”. Tale modello questo il nocciolo di fondo del pensiero sviluppato dai motivi in esame – si pone in termini di “radicale inconciliabilità” con quello “dell’amministrazione “consiliare” o “delegata””.
5.1.- Più in particolare, il ricorrente assume la sussistenza (con riferimento, naturalmente, al sistema vigente all’epoca dei fatti, come anteriore alla riforma del 2003) di un vero e proprio “principio logico-giuridico di inconciliabilità tra C.d.A.e amministrazione affidata a due amministratori in via disgiuntiva”.
Sotto il profilo normativo, rileva che la norma dell’art. 2487 (vecchio testo) richiama, in punto di amministrazione della s.r.l., “quasi tutte le norme in materia di s.p.a., ma non invece… l’art. 2380, comma 2 (vecchio testo), che imponeva tassativamente – ma per le sole s.p.a. e non anche per le s.r.l. – l’adozione del sistema organizzativo a “collegialità piena”” (il testo allora vigente dell’art. 2380, comma 2 prevedendo che “quando l’amministrazione è affidata a più persone, queste costituiscono il consiglio di amministrazione”).
Sotto il profilo della logica, assume che – nel modello organizzativo dell’amministrazione disgiuntiva – gli amministratori “operano individualmente e non come componenti di un organo”, “senza necessità di una previa delibera consiliare o delega dei poteri del consiglio”. Trattasi di sistema propriamente “antitetico” – si nota – a quello dell’amministrazione collegale, perchè nel modello disgiuntivo, “gli amministratori hanno, ciascuno, il pieno e incondizionato potere di gestione e di rappresentanza della società”.
5.2.- “Oltre a integrare violazione… delle norme di diritto societario”, la sentenza impugnata è illegittima – prosegue il ricorrente – “perchè costituisce falsa applicazione delle regole in materia del contratti, avendo disatteso l’unica corretta possibile interpretazione” delle nome di autonomia organizzativa della società poi fallita. Secondo il ricorrente (che in particolare sottolinea come lo statuto non prevedesse la nomina di un presidente del consiglio, nel caso lo stesso fosse formato da soli due amministratori), i criteri letterale, sistematico, di interpretazione secondo buona fede oggettiva e di conservazione del contratto convergono tutti verso la “medesima conclusione: si trattava di un’amministrazione disgiuntiva e non collegiale”.
5.3.- Di conseguenza, la Corte ha del tutto errato – così procede il ricorrente – quando ha ascritto all’amministratore C. la violazione del dovere di vigilanza sull’andamento della gestione ex art. 2392 (vecchio testo): è questo un “evidente fraintendimento del meccanismo di funzionamento dell’organo amministrativo collegiale della s.r.l., basato sull’erroneo assunto della conciliabilità del consiglio di amministrazione col diverso sistema di amministrazione disgiuntiva”.
Nel sistema ad amministrazione disgiuntiva, resta esclusa la stessa presenza e operatività di un organo collegiale di governo: la “possibilità riconosciuta al singolo componente del C.d.A. di sottrarsi a responsabilità per le decisioni illegittime e dannose, qualora abbia fatto constare il suo dissenso nei modi previsti dalla legge, è di per sè incompatibile con l’esercizio disgiuntivo del potere di gestione”. “Nel sistema dell’amministrazione disgiuntiva della s.r.l. la dialettica interna tra gli amministratori si impernia sul potere di veto dell’altro amministratore e di devoluzione ai soci, decidenti “a maggioranza” in assemblea”, secondo quanto del resto prevedono esplicitamente – per il diritto attualmente vigente le norme dell’art. 2475 c.c., comma 3 e art. 2479 cod. civ..
6.- Il primo motivo di ricorso e il secondo motivo di ricorso non meritano di essere accolti.
Il ricorrente si ferma a una considerazione per così dire teorica dei modelli di organizzazione gestoria disgiuntivo e collegiale, che per l’appunto assume quali modelli “puri” e, di conseguenza, anche nettamente contrapposti tra loro.
E’ allora il caso di rilevare che – secondo la valutazione di questa Corte (Cass., 24 aprile 1963, n. 1084) e di parte maggioritaria della dottrina – nel regime di legge vigente all’epoca dei fatti la norma dell’art. 2380 c.c., comma 2 trovava applicazione anche nei confronti del tipo della s.r.l.. Il che significa, all’evidenza, che in quel regime normativo aveva cittadinanza un modello “temperato” – non già quello “puro” di amministrazione disgiuntiva nella s.r.l. (del resto, nel regime attuale il modello disgiuntivo va comunque coniugato, per il tema della responsabilità che qui viene direttamente in interesse, anche con la norma dell’art. 2476, comma 7, pure attraverso il medio rappresentato dall’art. 2257 comma 2, come richiamato dall’art. 2475 c.c., comma 3).
7.- Nel caso di specie, la Corte territoriale non ha basato la propria soluzione direttamente sul piano della disciplina legale, come rappresentata dalla norma dell’art. 2380, comma 2.
Essa ha fatto immediato riferimento, piuttosto, alla clausola dell’art. 6 dell’atto costitutivo della società poi fallita, rilevando che la previsione di un “potere, non limitato, di amministrazione disgiunta, ordinaria e straordinaria, e a firme separate, non specifici incarichi per singoli segmenti di attività” non collideva con la contestuale previsione di un “consiglio di amministrazione”; e così ritenendo le due disposizioni coordinabili tra loro.
Nel che, per la verità, non si scorgono errori di utilizzo dei canoni ermeneutici fissati dalla legge o di altro. E’ da rilevare, piuttosto, come la lettura della clausola, che è sostenuta dal ricorrente, venga a comportare in buona sostanza un non necessario e non condivisibile effetto amputativo del contenuto del testo negoziale (che, tra l’altro, non si limita a prevedere la generica presenza di un consiglio di amministrazione, ma si spinge sino a indicare nelle nominate persone di F. e C. l’iniziale composizione dell’organo in discorso).
8.- La presenza di un potere di amministrazione disgiuntiva non rende, in effetti, inconcepibile la contemporanea sussistenza di un consiglio di amministrazione, nè la manifesta inutile. Tanto più quando il potere di agire disgiuntivo sia come puntualmente segnala, per il caso in esame, la Corte messinese – del tutto generale; e cioè di vocazione onnicomprensiva.
In una simile situazione, il consiglio di amministrazione può, in realtà, utilmente svolgere una funzione di trasmissione e raccolta delle informazioni (su quanto è stato fatto e su quanto rimane da fare), di coordinamento decisionale (posto che una gestione dell’impresa sociale a mezzo di amministrazione disgiuntiva non si identifica di certo con una gestione cieca o random), di verifica e controllo dell’operato dei singoli amministratori (per lo svolgimento di queste attività tra due persone non manifestandosi, d’altro canto, una particolare esigenza di nomina di un presidente del consiglio).
Nè risulta oggettivamente incompatibile con l’esercizio disgiuntivo della gestione l’eventualità di dissenso (da annotare, poi, nel verbale consiliare) di un amministratore rispetto agli intendimenti e propositi dell’altro; come anche in relazione al ravvisato caso di porre rimedio a quanto già stato fatto. Ma, naturalmente, la divergenza di opinioni tra amministratori può avere anche altri sbocchi, come la canalizzazione di certe decisioni verso l’assemblea; o anche, al limite, l’approntamento di misure di tutela “esterna” (lo stesso ricorso segnala che l’amministratore C. era socio per il 25% del capitale): e così, ad esempio, alla denunzia ex art. 2409 cod. civ., nel sistema allora vigente applicabile alle s.r.l. in ragione del richiamo operato dall’art. 2488 cod. civ., comma 4.
9.- Il terzo motivo e il quarto motivo di ricorso vanno trattati in modo congiunto, riguardando entrambi le dimissioni comunicate dall’amministratore C. nel luglio 1995.
In proposito, il terzo motivo denunzia “violazione e falsa applicazione dell’art. 2385 cod. civ. vecchio testo, per avere erroneamente ritenuto inefficace la rinuncia alla carica dell’amministratore in regime di amministrazione disgiuntiva nella s.r.l.”.
Il quarto motivo assume, poi, “omesso esame di un fatto decisivo a causa del mancato apprezzamento della iscrizione nel registro delle imprese delle dimissioni di un amministratore con poteri disgiuntivi e della conseguente permanenza in carica di un amministratore unico”.
10.- Secondo il ricorrente, la Corte ha errato nel dichiarare la permanente responsabilità dell’amministratore C. pur dopo la comunicazione delle sue dimissioni.
“In caso di adozione di un modello di amministrazione di tipo personalistico”, così si rileva, “si applica alla s.r.l. non già l’art. 2385 sull’amministrazione collegiale nella s.p.a., bensì l’art. 2260 cod. civ., che rinvia alle norme sul mandato, e in particolare all’art. 1727 cod. civ., che presuppone l’effetto immediato delle dimissioni come negozio unilaterale recettizio”, come pure confermato – si aggiunge – dalla pronuncia di Cass., 14 febbraio 2000, n. 1727 cod. civ..
Di conseguenza, “l’unico obbligo che ha l’amministratore dimissionario di s.r.l. “con poteri disgiuntivi” è quello di informare i soci e di convocare l’assemblea” per l’adozione dei provvedimenti che saranno ritenuti opportuno. E a ciò l’amministratore C. ha senz’altro provveduto, a mezzo telegramma inviato in data 30 maggio 1995.
Piuttosto, è da rilevare – soggiunge ancora il ricorrente, in relazione al sollevato vizio di omesso esame di fatto decisivo che la Corte di Appello “non ha considerato il fatto, di per sè decisivo,… che la lettera di dimissioni dell’amministratore dott. C. era stata regolarmente iscritta in data 24 luglio 1995 nel registro tenuto presso la Cancelleria commerciale del Tribunale”.
11.- Il terzo motivo e il quarto motivo di ricorso non meritano di essere accolti.
I due motivi riprendono, nella sostanza delle cose, il tema – già sviluppato nei primi due motivi di ricorso – di una presunta radicabile incompatibilità tra il sistema dell’amministrazione disgiuntiva e quello dell”amministrazione collegiale, senz’altro optando per l’adozione secca, nella specie concreta, del primo modello organizzativo con compiuta esclusione del secondo.
Non v’è dubbio, tuttavia, che l’adozione del modello dell’amministrazione disgiuntiva vada calata nel contesto complessivo delle concrete determinazioni statutarie della s.r.l. di poi fallita. Che, come rileva puntualmente la Corte messinese, pure hanno previsto la presenza di un consiglio di amministrazione (inizialmente composto da F. e da C.). Nè, volendo ancora rimanere sul semplice piano dell’autonomia statutaria, risulta qui una qualche previsione specifica sulle modalità operative relative alla cessazione degli amministratori dalla carica consiliare.
Sì che, in definitiva, non si vede ragione per non ritenere l’applicazione al caso in esame della disciplina dettata nell’art. 2385, che del resto risulta espressamente richiamata – per il tipo della società a responsabilità limitata – dalla disposizione dell’art. 2487 c.c., comma 2 (testo vigente all’epoca).
Nè tale soluzione è da ritenere in contrasto – come per contro prospetta il ricorrente – con la pronuncia di Cass., n. 1602/2000, sopra citata. In effetti, questa sentenza riguarda propriamente il caso di una società in nome collettivo ed è univoca, inoltre, nel riferire il suo argomentare al solo genere delle società di persone.
12.- Posta la ritenuta applicazione della disciplina dell’art. 2385 cod. civ., nessuna rilevanza potrebbe possedere il fatto dell’affermata “convocazione” assembleare, fatta dall’amministratore C. a mezzo telegramma (peraltro, di data di un mese e mezzo anteriore alla comunicazione della rinuncia all’incarico e di cui, inoltre, il ricorrente omette di trascrivere il testo, in violazione della regola di autosufficienza di cui all’art. 366 cod. proc. civ.).
Di fronte alla norma dell’art. 2385 cod. civ. non potrebbe comunque essere considerato decisivo, poi, il mancato esame della avvenuta “iscrizione” nel registro della Cancelleria del Tribunale della lettera di dimissioni (peraltro, neppure dell’iscrizione e della relativa lettera viene trascritto il testo).
13.- Il quinto motivo di ricorso assume “violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2392 (vecchio testo) e 2394 c.c. e dell’art. 2697 cod. civ., con riferimento alla dimostrazione del nesso di causalità tra il preteso inadempimento dell’amministratore e il danno per la società fallita, nonchè dell’art. 2257 cod. civ., per l’inosservanza delle regole dell’amministrazione disgiuntiva e la configurazione di un (inesistente) potere-dovere di prevenzione dei fatti dannosi dell’altro amministratore”.
Il motivo nega, nella sostanza, che l’amministratore C. fosse gravato di un obbligo di vigilanza generale sulla gestione ai sensi dell’art. 2392 cod. civ. (vecchio testo).
Un simile dovere è consentaneo – illustra il motivo all’adozione di un modello organizzativo basato sulla sussistenza di un consiglio di amministrazione. Nella specie, invece, la società era organizzata sul perno del modulo dell’amministrazione disgiuntiva. E tale sistema – in cui le “interazioni” tra amministratori sono “giocoforza episodiche” non conosce la presenza di doveri generali di vigilanza, l’eventuale responsabilità di un amministratore per il comportamento di un altro amministratore qui supponendo, in realtà, una “previa conoscenza delle operazioni e dei fatti distrattivi riferibili all’altro amministratore”.
14.- Il motivo non merita di essere accolto.
Di là da ogni rilievo sull’effettiva correttezza della ricostruzione dei presupposti di responsabilità degli amministratori per il caso di modello disgiuntivo “puro” (in effetti, sembra davvero difficile ipotizzare un agire efficiente di impresa nel caso in cui due amministratori disgiuntivi, a ciascuno dei quali è affidato l’intero potere gestorio, si tengano reciprocamente all’oscuro dei loro distinti e individui operati), sta in fatto che – secondo la corretta interpretazione compiuta dalla Corte messinese – le tavole statutarie della s.r.l. poi fallita prevedevano la costituzione e l’operatività di un consiglio di amministrazione. Con la conseguente applicazione della disciplina contenuta nell’allora vigente testo dell’art. 2392 cod. civ..
15.- Il sesto motivo di ricorso assume vizio di “omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, con riferimento alle condotte poste in essere dal ricorrente al fine di dissociarsi dall’operato dell’altro amministratore e provocare le decisioni dell’assemblea”.
Ad avviso del ricorrente, la Corte messinese ha trascurato di prendere in considerazione la seguente serie di fatti: l’essere l’amministratore C. rimasto “del tutto estraneo all’affitto e, a maggior ragione, alla gestione dei supermercati 3A rilevati dal Gruppo *****”; l’avere lo stesso con telegramma del 30 maggio 1995 contestato “formalmente l’operato dell’altro amministratore F.”; disposto “tempestivamente, per quanto era in suo potere la convocazione dell’assemblea dei soci”; “formalizzato la sua rinuncia alla carica in data 18 luglio 1995”; ceduto la propria quota societaria a terzi in data 1 agosto 1995.
Si tratta di circostanze – aggiunge il ricorrente – in sè stesse decisive per escludere comunque la sussistenza di un qualunque inadempimento da parte dell’amministratore C..
16.- Il motivo non merita di essere accolto.
Di là dalla constatazione che – avendo la Corte messinese rimproverato al ricorrente la violazione del dovere di generale vigilanza sulla gestione – la mancata partecipazione di questi all’affitto e alla gestione dei supermercati non può in ogni caso essere assunto come circostanza decisiva per esonerarlo da responsabilità, sta in fatto che il motivo non indica “dove” e “come” la detta circostanza (non presa in modo espresso in esame dalla sentenza impugnata) sia stata rilevata nell’ambito del giudizio di merito. Risulta di conseguenza non rispettato il necessario requisito dell’autosufficienza del ricorso di cui all’art. 366 cod. proc. civ..
Pure in violazione del requisito dell’autosufficienza risultano, al di là di ogni altro rilievo, le circostanze relative al telegramma inviate a fine maggio, alla lettera di dimissioni e all’iscrizione della medesima nel registro della Cancelleria del luglio successivo, secondo quanto già rilevato nell’ambito dell’esame del quarto motivo di ricorso (cfr. specificamente nel n. 12). Non può, infine, essere considerato fatto decisivo quello rappresentato dalla cessione della partecipazione sociale, che C. ha posto in essere nell’agosto del 1995. Questa vicenda, infatti, non risulta in alcun modo incidere sulla posizione di amministratore del detto C..
17.- Il settimo motivo assume violazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2 in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 4 per “illegittima regolazione delle spese processuali di primo e di secondo grado”.
Nel merito, il motivo assume che le richiamate statuizioni sulle spese sono da ritenere illegittime in ragione del fatto che, “per i motivi già esposti, la sentenza impugnata deve essere cassata”.
Il mancato accoglimento dei precedenti motivi, che sono stati presentati dal ricorrente, comporta pertanto assorbimento della presente doglianza.
8.- In conclusione, il ricorso va respinto.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 quater della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a mente del medesimo art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seta Sezione civile, il 14 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018
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