Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.27789 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, e MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi n. 12 presso l’Avvocatura Generale dello Stato che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

V.C., elettivamente domiciliata in Roma, via Nazario Sauro n.16 presso lo studio degli Avv.ti Massimo Pistilli e Stefania Reho che la rappresentano e difendono, per procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n.4472/1/16 della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, depositata il giorno 11.07.2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 11 luglio 2018 dal Consigliere Roberta Crucitti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per i ricorrenti l’Avv. Fabrizio Di Rubbo;

udito per la controricorrente l’Avv.Massimo Pistilli.

FATTI DI CAUSA

V.C. impugnò il diniego opposto dall’Amministrazione finanziaria all’istanza di rimborso dell’Irpef trattenuta e versata nell’anno 2010 sugli importi corrispostile dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca a seguito di condanna pronunciata dal Tribunale – sezione lavoro che tali somme aveva riconosciuto in favore della contribuente a titolo di risarcimento del danno a fronte del divieto legale di conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato della successione di rapporti di lavoro a tempo determinato.

La Commissione tributaria provinciale rigettò il ricorso, ritenendo che l’importo erogato fosse tassabile D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 2, ma la decisione, appellata dalla contribuente è stata integralmente riformata, con la sentenza indicata in epigrafe, dalla Commissione tributaria regionale del Lazio (d’ora in poi C.T.R.) la quale ha accolto il ricorso introduttivo.

In particolare, secondo il Giudice di appello era evidente che il risarcimento cui il Ministero della Pubblica istruzione è stato condannato non ha una funzione sostitutiva o integrativa del reddito del percepiente. In altri termini, per il giudice del merito tale risarcimento non era sostitutivo della retribuzione ma, pur essendo solo occasionalmente parametrato nella determinazione del suo ammontare a determinate mensilità della retribuzione, aveva natura meramente ristoratrice.

Avverso la sentenza propongono ricorso, su due motivi, l’Agenzia delle Entrate e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.

La contribuente resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il primo motivo di ricorso, con il quale si denuncia la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, di motivazione apparente è infondato. Per consolidato orientamento di questa Corte (v., tra le altre, di recente Cass. n. 9105 del 07/04/2017), che si condivide, ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento.

1.1. Nel caso in esame, invece, dalla lettura integrale della sentenza impugnata, emerge che, seppure a volte in forma involuta, il Giudice di appello ha illustrato sufficientemente l’iter logico seguito e gli elementi, in fatto e in diritto, utilizzati per giungere alla sua decisione.

2. Con il secondo motivo, formulato in via subordinata, si deduce la violazione e /o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, laddove la C.T.R. aveva escluso l’assoggettabilità a tassazione dell’indennità risarcitorie, corrisposte dalla contribuente in virtù della sentenza del Tribunale, violando il principio di diritto in base al quale tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistenti nella perdita di redditi (esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o morte) e, quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro sono soggette a tassazione.

2.1. L’assunto non è condivisibile. La norma di riferimento è costituita dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, il quale stabilisce che: I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti e le indennità conseguite, anche in forme assicurative, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.

2.2 In materia costituisce, ormai, ius receptum che “tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistente nella perdita di redditi, ad esclusione di quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro costituiscono redditi da lavoro dipendente e come tali sono assoggettati a tassazione separata ed a ritenuta d’acconto (v. Cass. n. 3582/2003, n. 22803/2006, n. 10972/2009; id. n. 2196/2012 tutte in tema di indennità risarcitorie conseguente a risoluzione del rapporto di lavoro, e Cass. n. 20482/2013 in tema di somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo).

2.3. Tali principi erano già stati affermati da Cass. n. 23795 del 24/11/2010 la quale aveva statuito che “in tema di imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 2, e art. 46, (sul primo dei quali nessuna innovazione deve ritenersi abbia apportato il D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 32, – convertito nella L. 22 marzo 1995, n. 85), si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente escluso, che tale erogazione, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà né in redditi sostituiti, né nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro”. Nel caso, allora al suo esame, la Corte, nell’affermare tali principi, ebbe a confermare la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva riconosciuto il diritto al rimborso dell’IRPEF ad un lavoratore per una somma erogatagli dal datore di lavoro, a seguito di transazione giudiziale, a titolo di danno morale e di danno all’immagine derivanti dalle particolari modalità con le quali era stato svolto e poi interrotto il rapporto di lavoro, trattandosi di ristoro di danno emergente relativo alla integrità psicofisica del lavoratore e alla sua reputazione professionale. In estrema sintesi può, quindi, affermarsi che sono esclusi dalla tassazione di cui al citato art. 6 quegli importi che il lavoratore percepisca a titolo di ristoro del danno emergente e non anche tutti gli indennizzi, originati dal rapporto di lavoro, volti a ristorare un lucro cessante.

3. Così inquadrato e interpretato il sistema normativo di riferimento (come posto a base del ricorso anche dalla stessa Agenzia delle Entrate) il punto controverso rimane la natura, o meglio il titolo giuridico, degli importi, percepiti dall’odierna controricorrente, in virtù di sentenze del Tribunale del lavoro che le hanno riconosciuto la spettanza di una somma, parametrata alla misura di alcune mensilità di retribuzione, per il danno subito a causa della mancata conversione degli illegittimi rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto legale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 36, ritenendo la ricorrente trattarsi di indennizzo aventi origine o, comunque, causa nei rapporti di lavoro a tempo determinato e non avendo, in ogni caso, la lavoratrice provato, come da suo onere, di avere chiesto e ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli patrimoniali consistenti nel mancato guadagno, anche futuro, derivante dalla mancata stipula di un contratto di lavoro a tempo (in)determinato.

3.1. Soccorrono, in materia, le Sezioni Unite di questa Corte le quali, con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di chance di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.”.

In particolare la Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito che il danno risarcibile D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non è un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro e, quindi, da perdita del posto di lavoro ma è altro, ovvero nell’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile. Ciò posto, le Sezioni Unite, sempre nella stessa pronuncia – nel fornire un’interpretazione adeguatrice orientata alla conformità costituzionale della normativa ordinaria e qualificato tale canone di danno presunto come danno comunitario – hanno, quindi, affermato l’ulteriore principio per cui “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto/fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. n. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5.

3.2. Attribuita, pertanto, all’importo corrisposto all’odierna controricorrente, in virtù dei superiori principi, natura risarcitoria da perdita di chance (ovvero di risarcimento di danno comunitario) estranea ai rapporti di lavoro posti in essere, nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, la soluzione non può che essere favorevole alla contribuente, dovendosi rilevare, da un canto, che, nel caso in specie, non può neppure porsi un problema in ordine all’onere probatorio posto a carico del lavoratore (come eccepito dalla ricorrente) in quanto tale onere è già stato ritenuto assolto dal Giudice del lavoro nelle sentenze in cui ha riconosciuto la sussistenza del danno, e dall’altro, non potendosi revocare in dubbio che le somme riconosciute dal Giudice del lavoro siano destinate a risarcire un danno emergente, a nulla rilevando il diverso “tipo normativo” di parametro utilizzato, da quel Giudice, al fine della concreta quantificazione.

3.3. La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, da tempo ferma nel ritenere che la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa costituisca danno patrimoniale risarcibile, sotto forma di danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) da perdita di una possibilità attuale (v. Cass. n. 11322 del 21 luglio 2003; id. n. 12243 del 25 maggio 2007, in termini Cass. n. 19604 del 30 settembre 2016).

4. Conclusivamente, alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte e richiamata la normativa di riferimento come sopra illustrata, va affermato che gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non sono assoggettabili a tassazione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 1.

5. Ne consegue il rigetto del ricorso con compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio, attese la novità e peculiarietà delle questioni trattate.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Compensa integralmente tra le parti le spese processuali.

Così deciso in Roma, il 11 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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