LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12803/2017 proposto da:
MINISTERO ISTRUZIONE UNIVERSITA’ RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
G.E., elettivamente domiciliata in ROMA VIA NAZARIO SAURO 16, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA REHO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO PISTILLI giusta delega in calce;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7225/2016 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 23/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2018 dal Consigliere Dott. ANDREA VENEGONI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato DI RUBBO che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato PISTILLI che ha chiesto il rigetto.
FATTI DI CAUSA
L’Agenzia delle Entrate ricorre, sulla base di un motivo, contro la sentenza della CTR del Lazio che, in accoglimento dell’appello della contribuente G.E., ha dichiarato illegittimo il diniego di rimborso delle somme assoggettate a ritenuta sugli importi liquidati in favore di quest’ultima a seguito di sentenza del giudice del lavoro che ha riconosciuto la illegittimità delle ripetute proroghe del rapporto di lavoro a tempo determinato da parte del MIUR.
Resiste la contribuente con controricorso.
Quest’ultima ha anche depositato memoria in data 6.7.2018.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso l’ufficio deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La CTR avrebbe errato nel ritenere le somme corrisposte al contribuente come non tassabili, e quindi non assoggettabili a ritenuta, in quanto risarcitorie, atteso che l’art. 6 TUIR, comma 2, stabilisce che tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro sono soggette a tassazione, con esclusione di quelle dipendenti da invalidità permanente o da morte.
In particolare, le somme che costituiscono lucro cessante sono da assoggettare a tassazione.
Il motivo è infondato.
La norma di riferimento è costituita dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, del il quale stabilisce che: i proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti e le indennità conseguite, anche in forme assicurative, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
In materia costituisce, ormai ius receptum che “tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistente nella perdita di redditi, ad esclusione di quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro costituiscono redditi da lavoro dipendente e come tali sono assoggettati a tassazione separata ed a ritenuta d’acconto (v. Cass. n. 3582/2003, n. 22803/2006, n. 10972/2009; id. n. 2196/2012 tutte in tema di indennità risarcitorie conseguente a risoluzione del rapporto di lavoro, e Cass. n. 20482/2013 in tema di somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo).
Tali principi erano già stati affermati da Cass. n. 23795 del 24/11/2010 la quale aveva statuito che “in tema di imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 2 e D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 46 (sul primo dei quali nessuna innovazione deve ritenersi abbia apportato il D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 32 – convertito nella L. 22 marzo 1995, n. 85), si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente escluso, che tale erogazione, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro”. Nel caso, allora al suo esame, la Corte, nell’affermare tali principi, ebbe a confermare la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva riconosciuto il diritto al rimborso dell’IRPEF ad un lavoratore per una somma erogatagli dal datore di lavoro, a seguito di transazione giudiziale, a titolo di danno morale e di danno all’immagine derivanti dalle particolari modalità con le quali era stato svolto e poi interrotto il rapporto di lavoro, trattandosi di ristoro di danno emergente relativo alla integrità psicofisica del lavoratore e alla sua reputazione professionale. In estrema sintesi può, quindi, affermarsi che sono esclusi dalla tassazione di cui al citato art. 6, quegli importi che il lavoratore percepisca a titolo di ristoro del danno emergente e non anche tutti gli indennizzi, originati dal rapporto di lavoro, volti a ristorare un lucro cessante.
Così inquadrato e interpretato il sistema normativo di riferimento (come posto a base del ricorso anche dalla stessa Agenzia delle Entrate) il punto controverso rimane la natura, o meglio il titolo giuridico, degli importi, percepiti dall’odierna controricorrente, in virtù della sentenza del Tribunale del lavoro che le ha riconosciuto la spettanza di una somma, parametrata alla misura di alcune mensilità di retribuzione, per il danno subito a causa della mancata conversione degli illegittimi rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto legale di cui al D.Lgs. n. 165 del 2011, art. 36, ritenendo la ricorrente trattarsi di indennizzi aventi origine o, comunque, causa nei rapporti di lavoro a tempo determinato e non avendo, in ogni caso, la lavoratrice provato, come da suo onere, di avere chiesto e ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli patrimoniali consistenti nel mancato guadagno, anche futuro, derivante dalla mancata stipula di un contratto di lavoro a tempo (in)determinato.
Soccorrono, in materia, le Sezioni Unite di questa Corte le quali, con la sentenza n. 5072 del 15 marzo 2016, hanno affermato il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 c.c.”.
In particolare la Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito che il danno risarcibile D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non è un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro e, quindi, da perdita del posto di lavoro ma è altro, ovvero nell’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile. Ciò posto, le Sezioni Unite, sempre nella stessa pronuncia – nel fornire un’interpretazione adeguatrice orientata alla conformità costituzionale della normativa ordinaria e qualificato tale canone di danno presunto come danno comunitario – hanno, quindi, affermato l’ulteriore principio per cui “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5.”, Sulla scia di tale sentenza, anche altre decisioni di questa Corte sulla medesima questione hanno affermato il medesimo principio (si veda, tra le più recenti, Cass. n. 25117 del 2017).
Attribuita, pertanto, all’importo corrisposto all’odierna controricorrente, in virtù dei superiori principi, natura risarcitoria da perdita di chance (ovvero di risarcimento di danno comunitario) estranea ai rapporti di lavoro posti in essere nella legittima impossibilità di procedere alla loro conversione, la soluzione non può che essere favorevole alla controricorrente, dovendosi rilevare, da un canto, che, nel caso in specie, non può neppure porsi un problema in ordine all’onere probatorio posto a carico del lavoratore (come eccepito dalla ricorrente) in quanto tale onere è già stato ritenuto assolto dal Giudice del lavoro nelle sentenze in cui ha riconosciuto la sussistenza del danno, e dall’altro, non potendosi revocare in dubbio che le somme riconosciute dal Giudice del lavoro siano destinate a risarcire un danno emergente, a nulla rilevando il diverso “tipo normativo” di parametro utilizzato, da quel Giudice, al fine della concreta quantificazione.
La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, da tempo ferma nel ritenere che la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa costituisca danno patrimoniale risarcibile, sotto forma di danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) da perdita di una possibilità attuale (v. Cass. n. 11322 del 21 luglio 2003; id. n. 12243 del 25 maggio 2007, in termini Cass. n. 19604 del 30 settembre 2016). In quanto tale, la somma in questione esula dall’ambito dell’art. 6 tuir (sez. V, n. 29579 del 2011).
Conclusivamente, alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte e richiamata la normativa di riferimento come sopra illustrata, va affermato che gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non sono assoggettabili a tassazione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 1.
Ne consegue il rigetto del ricorso con compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio, attese la novità e peculiarietà delle questioni trattate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa integralmente tra le parti le spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018