LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –
Dott. BERNAZZANI Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12801-2017 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;
– ricorrenti –
contro
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA NAZARIO SAURO 16, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA REHC, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO PISTILLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 7223/2016 della COMM.TRIB.REG. di ROMA, depositata il 23/11/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2018 dal Consigliere Dott. PAOLO BERNAZZANI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEPE ALESSANDRO che ha concluso per. il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato DI RUBBO che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato PISTILLI che ha chiesto il rigetto.
FATTI DI CAUSA
Il contribuente A.A. formulava istanze di rimborso IRPEF con riferimento alle somme di denaro percepite a titolo risarcitorio in virtù della sentenza del Tribunale di Viterbo, sez. lavoro, n. 698/11 a seguito dell’accertata illegittimità della reiterazione dei contratti di lavoro a tempo determinato stipulati con il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Il medesimo deduceva, in particolare, la non assoggettabilità a tassazione della somma percepita, attesa la natura non retributiva ma esclusivamente risarcitoria delle somme versate dal MIUR quale sostituto d’imposta in virtù della sentenza menzionata.
L’Ufficio rigettava l’istanza di rimborso, ritenendo che le somme erogate dal MIUR, trovando origine nell’estinzione del rapporto di lavoro, fossero da considerare corrisposte a titolo di risarcimento da lucro cessante e, in quanto tali, da assoggettare a tassazione separata ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2 e art. 17.
Avverso il provvedimento di diniego il contribuente proponeva ricorso alla competente Commissione Tributaria Provinciale di Viterbo; si costituiva in giudizio l’Ufficio il quale, ribadita la piena assoggettabilità alla tassazione delle somme corrisposte, ai sensi dell’art. 6, comma 2, t.u.i.r., chiedeva il rigetto del ricorso del contribuente.
Con sentenza n. 780/01/15, depositata in data 10/11/2015, la Commissione Tributaria Provinciale rigettava il ricorso, ritenendo che l’importo erogato risultasse tassabile D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 2.
La suddetta decisione veniva appellata dal contribuente, il quale deduceva difetto di motivazione e violazione di legge, in ordine alla natura dell’erogazione tassata dall’Ufficio, ribadendo la natura esclusivamente risarcitoria delle somme percepite dal MIUR; difetto di motivazione e violazione di legge, in ordine alla ripartizione dell’onere probatorio, avendo la CTP ravvisato in capo al contribuente l’onere di provare di aver domandato ed ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi da quelli tesi al ristoro degli emolumenti non percepiti. Si costituiva in giudizio l’Ufficio chiedendo il rigetto dell’appello.
Con sentenza n. 7223/06/16, pronunciata il 03/10/2016, depositata in data 23/11/2016, la CTR del Lazio accoglieva l’appello dei contribuenti.
In particolare, secondo il Giudice di appello trattandosi di violazione di norme sul contratto di lavoro a tempo determinato, in presenza del divieto legale di conversione, in ambito pubblico, di una serie di contratti a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, doveva ritenersi che il risarcimento del danno previsto dal Giudice del Lavoro non avesse funzione sostitutiva o integrativa del reddito (lucro cessante), ma natura ristoratrice (danno emergente) e che l’indicazione di diverse mensilità di retribuzione costituisse solo il riferimento ad un parametro numerico per la quantificazione del danno.
Per la cassazione della sentenza propongono ricorso, su unico motivo, l’Agenzia delle Entrate e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca.
Resiste il contribuente mediante controricorso, ulteriormente illustrato con deposito di memoria ex art. 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6 nell’interpretazione dello stesso fornita dalla giurisprudenza di questa Corte, laddove la C.T.R. ha escluso l’assoggettabilità a tassazione delle indennità risarcitorie percepite dal contribuente, in virtù delle sentenza del Giudice del lavoro, violando il principio di diritto in base al quale tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi (esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte) e, quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggano, comunque, origine dal rapporto di lavoro sono soggette a tassazione.
1.1. In particolare, secondo la prospettazione dei ricorrenti, il danno riconosciuto dal Giudice del lavoro, derivante dalla mancata stipula di un contratto a tempo non determinato e dalla conseguente perdita del lavoro e della retribuzione, era da inquadrarsi nella tipologia del risarcimento del lucro cessante con la conseguenza che le somme corrisposte, in quanto sostitutive del reddito, andavano (come da costante giurisprudenza di questa Corte) assoggettate a tassazione.
2. Tale assunto non è condivisibile.
2.1. La norma di riferimento è costituita dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, il quale stabilisce che: I proventi conseguiti in sostituzione di redditi, anche per effetto di cessione dei relativi crediti e le indennità conseguite, anche in forme assicurative, a titolo di risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi, esclusi quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, costituiscono redditi della stessa categoria di quelli sostituiti o perduti.
2.2. In materia costituisce, ormai, ius receptum che “tutte le indennità conseguite dal lavoratore a titolo di risarcimento dei danni consistente nella perdita di redditi, ad esclusione di quelli dipendenti da invalidità permanente o da morte, e, quindi, tutte le indennità aventi causa o che traggono origine dal rapporto di lavoro, comprese le indennità per la risoluzione del rapporto per illegittimo comportamento del datore di lavoro costituiscono redditi da lavoro dipendente e come tali sono assoggettati a tassazione separata ed a ritenuta d’acconto” (v. Cass. n. 3582/2003, n. 22803/2006, n. 10972/2009, n. 2196/2012, tutte in tema di indennità risarcitorie conseguente a risoluzione del rapporto di lavoro, e Cass. n.20482/2013, in tema di somme corrisposte a titolo di risarcimento del danno da licenziamento illegittimo).
2.3. Tali principi sono stati recepiti, altresì, da Cass. 24/11/2010, n.23795, la quale aveva statuito che “in tema di imposte sui redditi di lavoro dipendente, dalla lettura coordinata del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 6, comma 2 e art. 46(sul primo dei quali nessuna innovazione deve ritenersi abbia apportato il D.L. 23 febbraio 1995, n. 41, art. 32 convertito nella L. 22 marzo 1995, n. 85), si ricava che, al fine di poter negare l’assoggettabilità ad IRPEF di una erogazione economica effettuata a favore del prestatore di lavoro da parte del datore di lavoro, è necessario accertare che la stessa non trovi la sua causa nel rapporto di lavoro e, se ciò non viene positivamente escluso, che tale erogazione, in base all’interpretazione della concreta volontà manifestata dalle parti, non trovi la fonte della sua obbligatorietà nè in redditi sostituiti, nè nel risarcimento di danni consistenti nella perdita di redditi futuri, cioè successivi alla cessazione od all’interruzione del rapporto di lavoro”. Nel caso sottoposto al suo esame, la Corte, nell’affermare tali principi, ebbe a confermare la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva riconosciuto il diritto al rimborso dell’IRPEF ad un lavoratore per una somma erogatagli dal datore di lavoro, a seguito di transazione giudiziale, a titolo di danno morale e di danno all’immagine derivanti dalle particolari modalità con le quali era stato svolto e poi interrotto il rapporto di lavoro, trattandosi di ristoro di danno emergente relativo alla integrità psicofisica del lavoratore e alla sua reputazione professionale.
In estrema sintesi può, quindi, affermarsi che sono esclusi dalla tassazione di cui al citato art. 6 quegli importi che il lavoratore percepisca a titolo di ristoro del danno emergente e non anche tutti gli indennizzi, originati dal rapporto di lavoro, volti a ristorare un lucro cessante.
3. Così inquadrato e interpretato il sistema normativo di riferimento (come posto a base del ricorso anche dalla stessa Agenzia delle Entrate) il punto controverso rimane la natura, o meglio il titolo giuridico, degli importi, percepiti dall’odierno controricorrente, in virtù di una sentenza del Tribunale del lavoro che ha riconosciuto la spettanza di una somma, parametrata alla misura di alcune mensilità di retribuzione, per il danno subito a causa della mancata conversione degli illegittimi rapporti di lavoro a tempo determinato in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto legale di cui al D.lgs. n. 165 del 2011, art. 36 ritenendo i ricorrenti trattarsi di indennizzi aventi origine o, comunque, causa nei rapporti di lavoro a tempo determinato e non avendo, in ogni caso, il lavoratore provato, come da suo onere, di avere chiesto e ottenuto il risarcimento di danni ulteriori e diversi rispetto a quelli patrimoniali consistenti nel mancato guadagno, anche futuro, derivante dalla mancata stipula di un contratto di lavoro a tempo (in)determinato.
3.1. Soccorrono, in materia, le Sezioni Unite di questa Corte le quali, con la sentenza 15/03/2016, n.5072 hanno affermato il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego privatizzato, il danno risarcibile di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 5, non deriva dalla mancata conversione del rapporto, legittimamente esclusa sia secondo i parametri costituzionali che per quelli Europei, bensì dalla prestazione in violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori da parte della P.A., ed è configurabile come perdita di “chance” di un’occupazione alternativa migliore, con onere della prova a carico del lavoratore, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ.”.
In particolare la Corte, a Sezioni Unite, ha chiarito che il danno risarcibile D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non è un danno da mancata conversione del rapporto di lavoro e, quindi, da perdita del posto di lavoro, ma è altro, ovvero nell’evenienza ordinaria è la perdita di chance risarcibile come danno patrimoniale nella misura in cui l’illegittimo (soprattutto se prolungato) impiego a termine abbia fatto perdere al lavoratore altre occasioni di lavoro stabile. Ciò posto, le Sezioni Unite, sempre nella stessa pronuncia – nel fornire un’interpretazione adeguatrice orientata in chiave di conformità alla Costituzione della normativa ordinaria e qualificato tale canone di danno presunto come danno comunitario – hanno affermato l’ulteriore principio per cui “nel regime del lavoro pubblico contrattualizzato, in caso di abuso del ricorso al contratto di lavoro a tempo determinato da parte di una pubblica amministrazione, il dipendente, che abbia subito la illegittima precarizzazione del rapporto di impiego, ha diritto, fermo restando il divieto di trasformazione del contratto a tempo determinato a tempo indeterminato posto dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, comma 5, al risarcimento del danno previsto dalla medesima disposizione, con esonero dell’onere probatorio, nella misura e nei limiti di cui alla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, comma 5”.
3.2. Attribuita, pertanto, all’importo corrisposto all’odierno controricorrente, in virtù dei superiori principi, natura risarcitoria da perdita di chance (ovvero di risarcimento di danno comunitario), estranea al rapporto di lavoro posto in essere nella legittima impossibilità di procedere alla sua conversione, la soluzione non può che essere favorevole allo stesso contribuente, dovendosi rilevare, da un canto, che, nel caso in specie, non può neppure porsi un problema in ordine all’onere probatorio posto a carico del lavoratore (come eccepito in sede di ricorso) in quanto tale onere è già stato ritenuto assolto dal Giudice del lavoro nella sentenza in cui ha riconosciuto la sussistenza del danno, e dall’altro, non potendosi revocare in dubbio che le somme riconosciute dal Giudice del lavoro siano destinate a risarcire un danno emergente, a nulla rilevando il diverso “tipo normativo” di parametro utilizzato, da quel Giudice, al fine della concreta quantificazione.
3.3.La giurisprudenza di questa Corte è, infatti, da tempo ferma nel ritenere che la perdita di chance, consistente nella privazione della possibilità di sviluppi e progressioni nell’attività lavorativa costituisca danno patrimoniale risarcibile, sotto forma di danno emergente, qualora sussista un pregiudizio certo (anche se non nel suo ammontare) da perdita di una possibilità attuale (v., in termini, Cass. 30/09/2016, n. 19604; Cass. 21/07/2003, n. 11322; Cass. 25/05/2007, n. 12243).
4. Conclusivamente, alla luce di tutte le considerazioni sin qui svolte e richiamata la normativa di riferimento come sopra illustrata, va affermato che gli importi riconosciuti dal Giudice del lavoro quale risarcimento del danno D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 36, comma 5, non sono assoggettabili a tassazione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 6, comma 1.
5. Dalle illustrate considerazioni discende il rigetto del ricorso, con compensazione integrale tra le parti delle spese di questo giudizio, attese la novità e peculiarietà delle questioni trattate.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Compensa integralmente tra le parti le spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018