Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.27934 del 31/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1937/2015 R.G. proposto da:

D.P.P., rappresentata e difesa dagli Avv. Francesca Penzo e Cristina Gandolfi, con domicilio eletto in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CALDERARA DI RENO;

– intimato –

avverso l’ordinanza della Corte d’appello di Bologna depositata il 31 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4 luglio 2018 dal Consigliere Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. D.P.P., già proprietaria di un appartamento sito in Calderara di Reno (BO), via Garibaldi n. 2, riportato in catasto al foglio *****, particella *****, convenne in giudizio il Comune di Calderara di Reno, per sentir determinare l’indennità dovuta per l’espropriazione dell’immobile, disposta con decreto del 3 giugno 2013 per la realizzazione di un programma di riqualificazione urbana approvato ai sensi della L.R. Emilia Romagna 3 luglio 1998, n. 19.

Si costituì il Comune e resistette alla domanda.

1.1. Il giudizio fu successivamente riunito ad un altro promosso dalla stessa attrice ed avente ad oggetto l’opposizione proposta avverso la stima nel frattempo notificatale.

1.2. Con ordinanza del 31 luglio 2014, la Corte d’appello di Bologna ha determinato l’indennità di espropriazione in Euro 73.000,00, ordinandone il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti, detratto l’importo già corrisposto.

A fondamento della decisione, la Corte ha richiamato la stima effettuata dal c.t.u. con metodo sintetico-comparativo, rilevando che la stessa era fondata su atti di compravendita aventi ad oggetto altri appartamenti situati nel medesimo edificio e stipulati tra l’anno 2005 e l’anno 2013, nonchè su dati risultanti dall’Osservatorio Immobiliare FIAIP e dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia delle entrate; ha aggiunto che il c.t.u. aveva proceduto al confronto con le condizioni degli appartamenti adottati come termini di comparazione, pervenendo ad una maggiorazione del 10% del prezzo per l’immobile dell’attrice, in considerazione delle migliori condizioni di manutenzione; ha ritenuto eccessiva la maggiorazione del 45% invocata dalla D.P., in considerazione della riferibilità delle finiture degli appartamenti all’epoca della costruzione e dell’assenza di modifiche migliorative apportate dall’attrice; ha reputato infine irrilevante l’andamento in calo del mercato immobiliare registratosi tra il 2005 e il 2013, osservando che le condizioni dell’immobile risultavano equivalenti a quelle anteriori allo intervento pubblico e dando atto dell’assenza di prospettive di apprezzamento commerciale in conseguenza del progetto di riqualificazione.

2. Avverso la predetta ordinanza la D.P. ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi. Il Comune non ha svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, artt. 32 e 38, dell’art. 42 Cost. e dell’art. 17 della Carta dei Diritti Fondamentali della Unione Europea, sostenendo che l’importo liquidato dall’ordinanza impugnata non corrisponde alla nozione di giusta indennità emergente dalle predette disposizioni, in quanto inidoneo a compensare l’intera diminuzione patrimoniale da lei subita: premesso infatti che l’appartamento espropriato era l’unico di sua proprietà ed era destinato a sua abitazione, afferma che l’importo riconosciutole risulta insufficiente per l’acquisto di un nuovo immobile, non consentendole di sostenere le spese di agenzia e del rogito notarile, quelle occorrenti per il trasloco e gli allacciamenti delle utenze. Precisato inoltre che l’indennità, pur essendo legata al valore di mercato dell’immobile espropriato, deve costituire un ristoro integrale del sacrificio imposto al diritto di proprietà, e deve quindi rispondere a criteri di proporzionalità, ragionevolezza ed equità, osserva che nella specie la privazione della proprietà ha avuto per lei conseguenze rovinose, non disponendo ella di altri immobili ed essendo disoccupata e priva di reddito, nonchè affetta da problemi di salute. Aggiunge che, nella determinazione del valore di mercato, l’ordinanza impugnata non ha considerato che l’asportazione di alcuni materiali di finitura dell’appartamento non poteva costituire motivo di deprezzamento dello immobile, in quanto consentita dall’art. 32 cit. e comunque autorizzata dalla Amministrazione comunale.

1.1. Il motivo è infondato.

La pretesa al riconoscimento di un’indennità superiore al valore di mercato dell’immobile espropriato trova infatti fondamento nell’asserita destinazione dello stesso ad abitazione della ricorrente e nell’indisponibilità da parte di quest’ultima di altri immobili di sua proprietà da adibire al medesimo uso, nonchè dei mezzi economici per la sistemazione in un altro immobile da acquistare in sostituzione di quello espropriato. Tale assunto trova soltanto parzialmente conforto nell’ordinanza impugnata, nella quale si riferisce che l’appartamento in questione era destinato ad abitazione, ma non si fa cenno all’uso personale dello stesso da parte dell’espropriata, nè alle altre circostanze allegate a sostegno dell’impugnazione: in proposito, la ricorrente si limita a richiamare le dichiarazioni rese alla prima udienza di comparizione dinanzi alla Corte d’appello, lamentandone la mancata valutazione da parte dell’ordinanza impugnata, senza però indicare le prove documentali fornite a riscontro del proprio assunto, ed eventualmente trascurate dalla Corte distrettuale, ovvero i mezzi istruttori dei quali avrebbe vanamente richiesto l’ammissione, sicchè le censure risultano fondate, in definitiva, sullo omesso esame di un fatto rimasto totalmente privo di supporto probatorio.

Il D.P.R. n. 327 del 2001, art. 38 nel disciplinare la liquidazione della indennità dovuta per l’espropriazione di costruzioni legittimamente edificate, prevede d’altronde che la stessa dev’essere commisurata al valore venale, da determinarsi, ai sensi dell’art. 32, sulla base delle caratteristiche che il bene espropriato presentava al momento dell’accordo di cessione o alla data di emanazione del decreto di esproprio. La nozione di “valore venale” cui ha inteso far riferimento il legislatore del 2001 viene pacificamente considerata equivalente a quella precedentemente richiamata dalla L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39 secondo cui l’indennità dovuta all’espropriato doveva consistere “nel giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una libera contrattazione di compravendita”, e quindi nel valore di mercato del bene, da determinarsi attraverso le indagini e sulla base dei criteri suggeriti dalla scienza estimativa. In quanto volti ad individuare il punto d’incontro tra il prezzo che il proprietario del bene potrebbe accettare per la vendita dello stesso e quello che un eventuale compratore sarebbe disposto a pagare per il suo acquisto, tali criteri tengono certamente conto dell’incidenza delle spese occorrenti per il trasferimento, che si traducono inevitabilmente in un maggior costo per l’acquirente ed in un minore introito per l’alienante, ma non anche delle spese che quest’ultimo sarebbe costretto a sostenere ove volesse procedere alla sostituzione del bene alienato, trattandosi di oneri solo indirettamente ed eventualmente connessi con il trasferimento, e la cui entità può venire in considerazione soltanto ex parte venditoris, quale elemento soggettivo di valutazione della convenienza dell’affare, mentre non assume alcun rilievo nell’ambito della concorrente e contrapposta valutazione del compratore, interessato esclusivamente alle caratteristiche oggettive del bene da acquistare. Significativa, in proposito, è la circostanza che lo stesso criterio del “valore di surrogazione” o “valore di sostituzione”, elaborato dalla scienza estimativa quale metodo alternativo per la determinazione del giusto prezzo di un bene, non fa affatto riferimento allo importo che il venditore sarebbe disposto ad accettare in vista della sostituzione dello stesso con un altro bene, ma al costo che il compratore sarebbe costretto a sostenere per l’acquisto o la produzione di un altro bene che presenti la stessa utilità di quello da stimare. In riferimento alla liquidazione dell’indennità di espropriazione, l’individuazione della maggiore spesa che l’espropriato dovrebbe sostenere per l’acquisto e la sistemazione di un altro immobile conforme alle proprie esigenze comporterebbe d’altronde l’introduzione di elementi soggettivi di valutazione, forieri di disparità di trattamento tra proprietari di beni aventi caratteristiche omogenee, e comunque idonei a far sorgere complicazioni nel procedimento di stima, in contrasto con le finalità di semplificazione ed accelerazione che ispirano l’intera disciplina dettata dal D.P.R. n. 327 del 2001, artt. 20-22.

Sotto un diverso profilo, è poi opportuno ricordare che il ripristino della applicabilità generale del criterio del valore venale, accantonato per la liquidazione delle indennità di espropriazione relative alle aree non edificate fin dall’entrata in vigore della L. 22 ottobre 1971, n. 865, ha avuto luogo sulla scorta della giurisprudenza della Corte EDU, la quale, sulla premessa che un atto dell’autorità pubblica volto ad incidere sul diritto di proprietà deve realizzare un giusto equilibrio tra le esigenze dell’interesse generale e gl’imperativi della salvaguardia dei diritti fondamentali degli individui, ha affermato che tale equilibrio risulta alterato se l’indennizzo non consiste in una somma che si ponga “in rapporto ragionevole con il valore del bene”. Tale orientamento è stato condiviso anche dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 348 del 2007, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis, commi 1 e 2, convertito con modificazioni dalla L. 8 agosto 1992, n. 359, in quanto prevedeva per l’espropriazione di suoli edificabili la liquidazione di un’indennità oscillante in definitiva tra il 50 ed il 30% del valore di mercato del bene, ed ulteriormente falcidiata dall’imposizione fiscale, e non assicurava quindi un “serio ristoro” della diminuzione patrimoniale subìta dall’espropriato, risultando il predetto importo inferiore alla soglia minima accettabile di riparazione, e traducendosi dunque nella pratica vanificazione dell’oggetto del diritto di proprietà. Nella medesima ottica, la sentenza n. 181 del 2011 ha in seguito dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis cit., comma 4 in combinato disposto con la L. n. 865 del 1971, art. 15, comma 1, secondo periodo e art. 16, commi 5 e 6, riguardanti l’espropriazione di suoli agricoli o comunque non edificabili, in quanto, commisurando l’indennità al valore agricolo medio calcolato dalle commissioni provinciali competenti, dettavano un criterio astratto che prescindeva dalle caratteristiche dell’area espropriata, ignorando ogni dato valutativo inerente ai requisiti specifici del bene. Nell’enunciare il predetto principio, la Corte EDU ha peraltro riconosciuto che, nella disciplina dell’indennità di espropriazione, i singoli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento, tanto ai fini della scelta delle modalità di attuazione, quanto ai fini della valutazione della compatibilità, nell’interesse generale, delle relative conseguenze con la necessità di raggiungere l’obiettivo della legge che sta alla base dell’espropriazione, concludendo quindi che, se da una parte la mancanza totale di indennizzo è giustificabile solo in circostanze eccezionali, dall’altra non è sempre garantita dalla CEDU una riparazione integrale. Allo stesso modo, la Corte costituzionale ha sottolineato che l’art. 42 Cost., nel prescrivere alla legge di riconoscere e garantire il diritto di proprietà, ne mette in risalto la funzione sociale, osservando che quest’ultima dev’essere posta dal legislatore e dagli interpreti in stretta relazione con l’art. 2 Cost., che richiede a tutti i cittadini l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale. E’ proprio l’adempimento di tali doveri a giustificare, oltre alla possibilità d’introdurre meccanismi di correzione rispetto al valore venale del bene, la previsione di criteri di determinazione dell’indennità di espropriazione volti a semplificarne la liquidazione, al fine di accelerare la definizione del procedimento ablativo, anche a costo di un limitato sacrificio degl’interessi dell’espropriato, ferma restando l’esigenza che l’importo a quest’ultimo riconosciuto sia “in ragionevole rapporto” con il valore di mercato dell’immobile e costituisca un “serio ristoro” per la privazione della proprietà.

Con ciò non si vuole affatto negare la rilevanza di altri interessi eventualmente coinvolti nella vicenda ablativa, quale il diritto all’abitazione, previsto anche dall’art. 8 della CEDU come risvolto di quello al rispetto della vita privata e familiare, nei cui confronti, tuttavia, la stessa Convenzione ammette l’ingerenza della pubblica autorità, a condizione che la stessa “sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria per la sicurezza nazionale, l’ordine pubblico, il benessere economico del paese, la prevenzione dei reati, la protezione della salute o della morale, o la protezione dei diritti e delle libertà altrui”. La tutela di tale diritto, incluso dalla Corte costituzionale tra quelli fondamentali della persona, come bene primario irrinunciabile per la dignità umana e requisito caratterizzante la socialità cui si conforma lo Stato democratico (cfr. sent. n. 49 del 1987; n. 217 del 1988; n. 252 del 1983), non deve necessariamente trovare spazio in sede di liquidazione dell’indennità di espropriazione, potendo essere affidata anche ad altri interventi, eventualmente collegati alla stessa procedura espropriativa, e volti ad agevolare l’accesso alla proprietà della casa di abitazione, conformemente a quanto previsto dall’art. 47 Cost.. Tra questi interventi va annoverato proprio quello previsto dalla L.R. n. 19 del 1998, ai sensi della quale è stato approvato il piano di riqualificazione urbanistica per la cui realizzazione è stato espropriato l’immobile della ricorrente: l’art. 3 di detta legge, nel prevedere il coinvolgimento dei proprietari degl’immobili interessati dal piano, contemplava infatti il ricorso all’espropriazione soltanto come extrema ratio, per l’ipotesi in cui non si fosse riusciti a raggiungere un’intesa con gli stessi; sostiene la ricorrente che tale intesa nella specie sarebbe stata raggiunta, ma non avrebbe poi trovato attuazione, a causa del ritardo nella realizzazione del piano, che le avrebbe impedito di aderirvi, non disponendo più ella delle risorse necessarie per la partecipazione al progetto di riqualificazione: tale assunto, tuttavia, non solo è rimasto anch’esso totalmente sfornito di prova, ma non potrebbe in alcun modo giustificare le conseguenze che la ricorrente pretende di ricollegarvi, non potendo l’inadempimento della predetta intesa condurre alla liquidazione di una maggiore indennità di espropriazione, ma, al più, all’affermazione della responsabilità del Comune per i danni eventualmente subiti dalla D.P..

Quanto infine al deprezzamento dell’immobile espropriato determinato dalla rimozione delle rifiniture asportate dalla ricorrente, la censura da quest’ultima proposta non trova riscontro nella motivazione dell’ordinanza impugnata: la stessa, infatti, nel ritenere eccessivo l’aumento del valore di stima proposto dal consulente di parte, si è limitata a dare atto dello stato in cui il c.t.u. aveva trovato l’immobile, dotato di rifiniture risalenti all’epoca della costruzione e privo di modifiche migliorative apportate dall’attrice, la quale, nel contestare tale accertamento, omette ancora una volta d’indicare gli elementi forniti a sostegno del proprio assunto.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce l’omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ribadendo che nella liquidazione dell’indennità la Corte d’appello non ha tenuto conto della particolare natura del bene espropriato, consistente nella sua casa di abitazione, e le ha pertanto riconosciuto una somma che non rispecchia nè le caratteristiche dello immobile nè il suo valore di mercato. Essa ha aderito acriticamente alla stima compiuta dal c.t.u., senza tener conto dell’inadeguatezza delle fotografie allegate e della mancanza di giustificazioni a sostegno del valore unitario indicato e dell’aumento del 10% riconosciuto in relazione alle condizioni di manutenzione ed alle modifiche apportate all’immobile. L’ordinanza impugnata ha inoltre omesso di valutare gli elementi addotti da c.t. di parte nonchè di procedere autonomamente alla determinazione dell’indennità, che non deve necessariamente corrispondere al valore di stima, astenendosi anche dall’indicare gli elementi concretamente incidenti sul proprio apprezzamento e di precisare le condizioni degl’immobili assunti come termini di paragone; essa non ha infine considerato che l’appartamento espropriato, oltre ad essere in ottime condizioni di manutenzione, era l’unico ad avere subito modifiche migliorative rispetto all’epoca della costruzione, ed ha omesso ingiustificatamente di valutare l’incidenza dell’intervento di riqualificazione urbana, pervenendo alla liquidazione di un valore unitario inferiore perfino a quello individuato dalla Commissione provinciale espropri.

2.1. Il motivo è inammissibile.

La motivazione dell’ordinanza impugnata dà adeguatamente conto delle ragioni poste a fondamento della decisione, richiamando diffusamente i risultati delle indagini compiute dal c.t.u. e condividendone argomentatamente le valutazioni, in modo tale da rendere perfettamente ricostruibile il percorso logico-giuridico seguito per giungere alla determinazione del valore di mercato dell’immobile espropriato. Nel contestare tale apprezzamento, la ricorrente non è in grado d’indicare circostanze di fatto eventualmente trascurate dalla Corte territoriale o carenze logiche del predetto ragionamento, ma si limita ad insistere sul valore di elementi già presi in considerazione dalla sentenza impugnata, in tal modo dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di motivazione, una rilettura degli atti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di controllare la correttezza giuridica delle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata, nonchè la coerenza logica delle stesse, nei limiti in cui le relative anomalie motivazionali sono ancora deducibili con il ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134. Tale disposizione circoscrive infatti l’anomalia motivazionale denunciabile con il ricorso per cassazione ai soli casi in cui il vizio si converte in violazione di legge, per mancanza del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, ed esclude pertanto la possibilità di estendere l’ambito di applicabilità della norma in esame al di fuori delle ipotesi, nella specie neppure prospettate, in cui la motivazione manchi del tutto sotto l’aspetto materiale e grafico, oppure formalmente esista come parte del documento, ma risulti meramente apparente, perplessa, o costituita da argomentazioni talmente inconciliabili da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum, e tale vizio emerga immediatamente e direttamente dal testo della sentenza (cfr. ex plurimis, Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053 e 8054; Cass., Sez. 6, 8 ottobre 2014, n. 21257), restando invece esclusa la possibilità di far valere, sotto tale profilo, l’omesso esame di elementi istruttori (cfr. Cass., Sez. lav., 9/07/2015, n. 14234; Cass., Sez. 6, 1/07/2015, n. 13448; 10/02/2015, n. 2498).

3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 91 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata per aver immotivatamente disposto la compensazione delle spese processuali, senza tener conto dell’esito del giudizio.

3.1. Il motivo è inammissibile.

In tema di spese processuali, il sindacato del Giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è infatti limitato alla verifica dell’eventuale violazione del principio secondo cui le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, spettando invece alla discrezionalità del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporne in tutto o in parte la compensazione, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in presenza di altri giusti motivi (cfr. tra le più recenti, Cass., Sez. 6, 17/10/2017, 24502; Cass., Sez. 1, 4/08/2017, n. 19613; Cass., Sez. 5, 31/03/2017, n. 8421).

4. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra provvedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della corrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 4 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2018

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