LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – Consigliere –
Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –
Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 15245-2014 proposto da:
S.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TEANO 247, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CICCAZZO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNA COGO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L.G. FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 3944/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 27/05/2013 r.g.n. 6279/2009.
La Corte, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore, pronuncia la seguente ORDINANZA.
RILEVATO
che la Corte d’Appello di ROMA con sentenza n. 3944/13, pubblicata il 27 maggio 2013, in riforma della impugnata pronuncia accoglieva per quanto di ragione il gravame interposto da B.C. contro POSTE ITALIANE S.p.a., avverso la sentenza n. 13478 – 17/07/2008 emessa dal locale giudice del lavoro, per l’effetto dichiarando la nullità del termine (finale) apposto al contratto di lavoro a tempo determinato, con conseguente conversione del rapporto a tempo determinato, per cui accertava anche la prosecuzione giuridica del rapporto dopo il 30 giugno 2002, ancora in atto, con la condanna, inoltre, della società appellata al pagamento dell’indennizzo L. n. 183 del 2010, ex art. 32 in ragione di cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori, compensate integralmente le spese relative al doppio grado del giudizio;
che contro la suddetta decisione d’appello hanno proposto parziale impugnazione, mediante ricorso per cassazione, S.M., in proprio e quale esercente la potestà sui minori S.V. e Ma., tutti quali eredi della suddetta B.C., deceduta il *****, come da atto del 27 maggio – 3 giugno 2014, affidato a due motivi, cui ha resistito POSTE ITALIANE S.p.a. tramite controricorso in data 2 / 3 luglio 2014, in seguito illustrato da memoria.
CONSIDERATO
che con il primo motivo parte ricorrente ha lamentato la quantificazione del suddetto indennizzo ex cit. art. 32, ritenuto esiguo, per cui ha denunciato la violazione e falsa applicazione di detta norma di legge, in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 8 nonchè con la medesima doglianza la omessa e carente motivazione su un fatto controverso oggetto di contrasto tra e parti (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), sostenendo che la corte distrettuale aveva escluso dalla liquidazione dell’indennità i parametri del comportamento e delle condizioni delle parti, ed inoltre errato nel valutare i tre parametri dalla medesima Corte presi a riferimento. Inoltre, non era stato applicato la L. n. 604 del 1966, art. 8 che faceva riferimento all’ultima retribuzione globale di fatto, ciò che nella specie risultava rilevante, poichè vi era stati due contratti a termine, il secondo con scadenza al 30-09-2005, data alla quale perciò occorreva aver riguardo per l’individuazione dell’ultima retribuzione;
con il secondo motivo di ricorso è stata lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè la omessa, illogica e contraddittoria motivazione su di un aspetto rilevante della domanda, risultando del tutto errata l’argomentazione in forza della quale erano state integralmente compensate le spese di lite;
che il primo motivo di ricorso va disatteso per le seguenti ragioni;
che, invero, non sono sindacabili in questa sede di legittimità gli accertamenti in punto di fatto compiuti dagli aditi giudici di merito, neppure ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (secondo il testo attualmente vigente, con riferimento alla sentenza de qua, risalente al 23 aprile – 27 maggio 2013), non risultando omesso l’esame di alcun fatto storico e decisivo, nè alcuna motivazione inferiore al c.d. minimo costituzionale, nei sensi indicati dalle note pronunce di questa Corte a sezioni unite, nn. 8053 e 8054 del 2014, sicchè non è consentito altro e diverso apprezzamento delle acquisite emergenze istruttorie;
che, invero, la motivazione della qui impugnata sentenza ha richiamato, tra l’altro, per intero il testo del succitato art. 32, comma 5, laddove si fa riferimento espresso all’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati dalla L. n. 604 del 2006, art. 8 nonchè la norma di interpretazione autentica dettata della L. n. 92 del 2012, art. 13 osservando quindi in particolare che quanto alla misura dell’indennità, si teneva conto da un lato delle rilevanti dimensioni aziendali e dell’elevato numero dei dipendenti occupato dal datore di lavoro e dall’altro della limitata durata dell’assunzione a termine, nonchè della stipulazione di contratti a termine le indennità poteva essere liquidata nella misura di cinque mensilità … Quanto, poi, alla decorrenza degli accessori, secondo la Corte capitolina occorreva fare riferimento alla data di scadenza del termine illegittimamente apposto, per cui, richiamati gli argomenti svolti dalla sentenza di questa Corte n. 3056 del 29 febbraio 2012, avuto riguardo alla natura dichiarativa della declaratoria di nullità del termine, per effetto dell’esperimento dell’azione di nullità parziale da parte del lavoratore, occorreva avere riguardo alla mora ex re di cui all’art. 1219 c.c.. Inoltre, tenuto conto dellefinalità sanzionatorie dell’indennizzo di cui all’art. 32, analogamente a quanto previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 8 per il caso di licenziamento illegittimo nell’ambito della cosiddetta tutela obbligatoria – la cui indennità era stata da sempre ritenuta penale forfettaria assorbente tutte le conseguenze dell’illecito – la decorrenza degli accessori doveva ritenersi coincidente con la scadenza del rapporto;
che, invero, circa la quantificazione dell’indennità, la determinazione tra un minimo ed un massimo della misura della stessa spetta al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità solo per motivazione assente, illogica o contraddittoria (cfr. Cass. 17 marzo 2014, n. 6122; Cass. 31 marzo 2014, n. 7458), motivazione nella specie del tutto adeguata in relazione ai richiamati criteri di cui al cit. art. 8, con valutazione congrua e logica giungendo alla quantificazione in ragione di cinque mensilità, peraltro senza alcuna ulteriore precisazione sul quantum;
che, per contro, parte ricorrente inammissibilmente pretende in questa sede un riesame di merito della determinazione dell’indennizzo, laddove in effetti se ne censura la motivazione (cfr. sul punto anche Cass. 6 civ. – L n. 2498 del 10/02/2015: l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo, censurabile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie, sicchè il fatto storico non può identificarsi con il difettoso esame dei parametri della liquidazione dell’indennità L. 4 novembre 2010, n. 183, ex art. 32, comma 5, sui quali il giudice di merito conduce la valutazione ai fini della liquidazione della stessa.
Conforme, id. n. 13448 del 2015);
che, inoltre, non risultando in alcun modo indicato nella sentenza de qua alcun preciso elemento di fatto, da cui poter desumere l’entità dell’ultima retribuzione globale di fatto, nè alcun chiaro riferimento temporale, per stabilire se la stessa debba intendersi riferita al primo contratto a termine con scadenza al 30 giugno 2002, ovvero al secondo, stipulato per il periodo 3 agosto 10 settembre 2005 (per il quale vi è stato evidente assorbimento, da parte della sentenza d’appello, in relazione alla nullità, parziale, dichiarata in relazione al primo, perciò con decorrenza anteriore, pure riguardo ai suddetti accessori, decorrenza questa sulla quale ad ogni modo si è formato il giudicato per effetto di mancata impugnazione, non avendo POSTE ITALIANE proposto nemmeno impugnazione incidentale in proposito, sicchè questa Corte non può e non deve in alcun modo pronunciarsi al riguardo), la condanna deve quindi necessariamente considerarsi generica, di guisa che inoltre nemmeno può venire in rilievo in questa sede un suo presupposto di fatto, quale l’individuazione temporale dell’ultima retribuzione ex cit. art. 32, comma 5 (peraltro, va anche osservato che il ricorso d’appello, poi deciso nell’anno 2013, risaliva al 16 luglio 2009, di guisa che operava il regime transitorio di cui allo stesso art. 32, comma 7 relativamente ai giudizi d’impugnazione pendenti, sicchè ove necessario, ai soli fini della determinazione della indennità, il giudice poteva fissare alle parti un termine per l’eventuale integrazione della domanda e delle relative eccezioni ed esercita i poteri istruttori ai sensi dell’art. 421 c.p.c.. Anche sul punto -relativamente alle questioni prospettate con il primo motivo – il ricorso, tuttavia, appare estremamente generico e non autosufficiente, nei sensi invece richiesti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6);
che, invece, appare fondato nei seguenti termini il secondo motivo, dovendosi rilevare in primo luogo che il giudizio di cui è processo risulta introdotto con ricorso depositato il 28 luglio 2007, sicchè a tale data occorre fare riferimento per individuare il testo degli artt. 91 e 92 c.p.c. nella specie ratione temporis applicabili (cfr. in part. l’art. 58, comma 1 – Disposizioni transitorie – della L. 18 giugno 2009, n. 69 in materia di processo civile, in 4/7/2009, che quindi nella specie non trova applicazione, non ricorrendo le ipotesi contemplate dagli altri successivi commi);
che, pertanto, si appalesano del tutto inconferenti le argomentazioni in base alle quali la Corte capitolina, pur avendo in effetti pressochè integralmente accolto la domanda di parte attrice, fatta eccezione per quanto concerne la sola liquidazione dell’indennizzo a titolo di risarcimento (ma soltanto per effetto dello jus superveniens ex L. n. 183 del 2010, in vigore dal 24-10-2010, con effetti favorevoli unicamente per la parte datoriale al riguardo), compensava interamente le spese di lite, ipotizzando un contrasto nella giurisprudenza di merito, in verità del tutto insussistente, e novità legislative in materia, come visto del tutto marginali, siccome limitate a ridurre la sola portata del risarcimento del danno in base a contratto di lavoro, però illegittimamente stipulato a tempo determinato, donde il diritto dell’interessata a vedersi riconoscere l’invocata stabilità della sua posizione lavorativa, fin dall’anno 2002, per effetto di domanda, tuttavia accolta soltanto a distanza di oltre dieci anni nell’aprile del 2013;
che, invero, la laconica motivazione in base alla quale le spese venivano compensate è contraria al chiaro disposto dell’art. 92 codice di rito, comma 2 (testo in vigore da gennaio 2006 al tre luglio 2009, nella specie come detto tuttavia applicabile per effetto dell’anzidetto regime transitorio: “Se vi è soccombenza reciproca o concorrono altri giusti motivi, esplicitamente indicati nella motivazione, il giudice può compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti”), dovendosi all’evidenza escludere, per quanto già detto, la soccombenza reciproca e la esplicita indicazione dei giusti motivi, invece richiesti, di guisa che trova applicazione il criterio fondamentale e generale della soccombenza, di regola operante in materia ai sensi dell’art. 91 c.p.c.;
che, pertanto, l’accoglimento del secondo motivo di ricorso comportata la cassazione sul punto dell’impugnata sentenza, per cui inoltre, non occorrendo particolari accertamenti di fatto al riguardo, la causa sul punto può essere decisa nel merito, ex art. 384 c.p.c., con la condanna della società al pagamento delle spese di lite, relative ai due gradi del giudizio di merito, giusta la liquidazione di cui al seguente dispositivo;
che, invece, quanto al giudizio di legittimità, essendo fondato soltanto il secondo motivo di ricorso, da rigettarsi invece per la prima doglianza, le relative spese possono validamente essere compensate per la metà, con la condanna quindi della società controricorrente per il resto, attesa la parziale soccombenza di quest’ultima;
che essendo, infine, risultata l’impugnazione di cui al ricorso, sebbene in parte, fondata, non ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater in ordine al raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
la Corte accoglie il secondo motivo di ricorso e rigetta il primo. Cassa l’impugnata sentenza, in relazione al motivo accolto, e, decidendo nel merito, Condanna POSTE ITALIANE S.p.a. al rimborso, in favore della sua controparte, delle spese relative al doppio grado del giudizio di merito, che liquida in Euro =3000,00= per compensi professionali ed in Euro =137,00= per esborsi, con riferimento al primo grado, nonchè in Euro =3500,00= per compensi professionali ed in Euro =145,00= per esborsi, relativamente all’appello, oltre accessori di legge. Dichiara, altresì, compensate per la metà le spese del giudizio di legittimità e condanna la società controricorrente al pagamento della residua quota, liquidata in Euro =2000,00= per compensi professionali ed in Euro =100,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, con attribuzione delle sole spese di questo giudizio a favore dell’avv. Giovanna Cogo, procuratrice antistataria costituita per la parte ricorrente.
Così deciso in Roma, il 23 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2018