Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.28268 del 06/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20603-2017 proposto da:

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI n.12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.D., + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso il decreto della CORTE D’APPELLO di ROMA depositato il 19/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/06/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

Con ricorso depositato il 4.6.2012 C.D., + ALTRI OMESSI hanno adito la Corte di Appello di Roma per ottenere il riconoscimento dell’equo indennizzo per la durata irragionevole del processo in relazione alla procedura di fallimento dello ***** Spa, società dichiarata fallita con sentenza del Tribunale di Napoli n.329/1992, con stato passivo approvato il 15.7.1993 e decreto di chiusura emesso il 14.12.2011.

Con il decreto impugnato, depositato il 19.5.2017, la Corte di Appello di Napoli ha ritenuto ragionevole, per la procedura fallimentare, la durata di anni 7 dalla formazione dello stato passivo ed ha quindi ravvisato una durata eccessiva di 11 anni, riconoscendo a ciascun richiedente la somma di Euro 500 per ciascun anno di ritardo.

Interpone ricorso per la cassazione di detto provvedimento il Ministero, affidandosi a tre motivi. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 perchè la Corte di Appello avrebbe erroneamente riconosciuto a ciascuno degli istanti la somma di Euro 5.500, senza avvedersi che in effetti gli stessi avevano concluso, in primo grado, invocando un indennizzo globalmente ammontante ad Euro 15.000. Ad avviso del ricorrente, il vizio di ultrapetizione sarebbe da ravvisare nella mancata considerazione del fatto che le conclusioni erano state formulate dagli istanti in modo unitario, che questi ultimi erano stati impersonalmente indicati nel ricorso come “parte istante”, che il valore della causa era stato indicato pari ad Euro 15.000 e che nella narrativa dell’atto introduttivo era stato indicato un indennizzo per anno pari ad Euro 1.250.

Il motivo è inammissibile in quanto si rivolge contro l’interpretazione della domanda, che per costante giurisprudenza è riservata al giudice di merito, tranne quando riverberi in questione di giurisdizione (Cass. Sez. U, Sentenza n.1513 del 27/01/2016, Rv.638245) o in error in procedendo (Cass. Sez. L, Sentenza n.12022 del 08/08/2003, Rv. 565844; Cass. Sez. L, Sentenza n.15496 del 11/07/2007, Rv.598739; Cass. Sez. 5, Ordinanza n.25259 del 25/10/2017, Rv.646124). In ogni caso, nessuno dei vari argomenti utilizzati dal ricorrente appare decisivo al fine di dimostrare l’intento dei richiedenti di contenere la loro domanda nei limiti dell’importo globale di Euro 15.000. Infatti dalla lettura del ricorso si evince esattamente il contrario, posto che alla pag.15 si afferma che gli odierni intimati avevano concluso, nella fase di merito, invocando “… il risarcimento integrale dei danni subiti, quantificati in Euro 15.000,00 o in subordine in quella diversa misura, maggiore o minore, che codesta Ecc. ma Corte di Appello riterrà equa e giusta”. Di fronte a tali conclusioni è irrilevante sia il fatto che nel ricorso sia stato indicato un valore di Euro 15.000, trattandosi evidentemente di dichiarazione formulata ai soli fini della quantificazione del contributo unificato dovuto per l’iscrizione al ruolo generale della procedura, sia la circostanza che i richiedenti fossero indicati complessivamente come “parte istante”. Del pari irrilevante è il fatto che nell’atto introduttivo i ricorrenti avessero indicato un indennizzo di Euro 1.250 per ciascun anno di ritardo, poichè la circostanza deve comunque essere apprezzata alla luce delle conclusioni rassegnate dagli odierni intimati ed il giudice di merito non è tenuto ad applicare l’importo richiesto dagli istanti (come è avvenuto nel caso di specie, avendo la Corte territoriale riconosciuto una somma inferiore per ciascun anno di ritardo irragionevole).

Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l’omessa motivazione su un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè la Corte territoriale avrebbe omesso di esaminare le eccezioni mosse dall’Avvocatura nelle fasi di merito, aventi ad oggetto rispettivamente:

l’intervento del fondo di garanzia gestito dall’INPS;

il pagamento nel corso della procedura fallimentare di un acconto mediante il riparto parziale dell’attivo della procedura;

l’importo delle somme residue spettanti ai richiedenti.

Ad avviso del ricorrente, la Corte territoriale avrebbe determinato l’indennizzo annuo in Euro 500 per ciascun richiedente, senza tener conto del pregiudizio concreto patito da ciascuno di essi, singolarmente considerato, e senza valutare se i maggiori tempi di durata del fallimento fossero collegati a maggiori realizzi sul piano dell’attivo della procedura. Inoltre, l’uniformità del criterio adottato dalla Corte di Appello (Euro 500 per singolo anno per ciascuno dei richiedenti) non terrebbe nel debito conto le peculiarità delle varie posizioni soggettive, documentate – tra l’altro – dal fatto che taluni dei richiedenti (nella specie, G.L. e Li.) avevano proposto opposizione al passivo fallimentare.

Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta l’apparenza della motivazione in riferimento all’art. 111 Cost., comma 2 e all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte territoriale avrebbe operato un generico richiamo agli interessi degli istanti, senza tener conto dell’entità effettiva della cd. “posta in gioco” e senza valutare entità del credito originario e prospettive di realizzo dello stesso. In tal modo, secondo il ricorrente la liquidazione equitativa del danno sarebbe stata operata dal giudice del merito in astratto e non in concreto.

La seconda e terza doglianza, che possono essere esaminate congiuntamente perchè tra loro connesse, sono infondate. Ed invero la Corte di Appello, nel decreto impugnata, ha affermato doversi riconoscere a ciascuno dei ricorrenti un indennizzo di Euro 500 per ciascun anno di ritardo, affermando che detto importo “è da ritenersi ragionevole e idoneo ad assicurare un adeguato ristoro alla parte interessata” e che la “modesta entità residua dei crediti come rilevabili dallo stato passivo” comportava un “affievolimento del patema d’animo ed effetto riduttivo dell’impatto dell’irragionevole ritardo sulla psiche dei richiedenti, tale da giustificare lo scostamento dai parametri indennitari fissati dalla Corte”.

Trattasi di valutazione attinente il merito della questione, e segnatamente la determinazione del quantum dell’indennizzo, che si sottrae al sindacato della S.C. laddove essa sia, come nel caso di specie, sostenuta da adeguata motivazione.

A ciò si aggiunge che nelle procedure fallimentari l’intervento del fondo di garanzia dell’INPS non ha effetto sul diritto all’indennizzo ma ne giustifica soltanto l’eventuale decurtazione: cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n.26421 del 16/12/2009(Rv.611955) secondo cui “In tema di equa riparazione da durata irragionevole di una procedura fallimentare, il mancato esperimento, da parte del lavoratore creditore del fallito, dell’azione nei confronti del Fondo di garanzia gestito dall’INPS per il conseguimento delle prestazioni previdenziali di cui alla L. n. 297 del 1982 ed al D.Lgs. n. 80 del 1992 non condiziona l’insorgenza del diritto all’indennizzo, ai fini della quale è sufficiente la prova del fallimento del datore di lavoro e dell’ammissione del credito al passivo, potendo invece rilevare in sede di liquidazione dell’indennizzo, così da giustificare una eventuale decurtazione del minimo annuo indicato dalla CEDU, ma l’onere di provare detta inerzia compete all’Amministrazione, al fine di argomentare da essa la minore penosità dell’attesa per la definizione del processo” (conforme, Cass. Sez. 6-2, Sentenza n.7136 del 20/03/2017, non massimata).

Nel caso di specie, la Corte di Appello ha considerato l’intervento del fondo di garanzia e ha affermato che di conseguenza, pur non trattandosi di questione meramente bagattellare in quanto inerente crediti da lavoro, si poteva tuttavia riconoscere un indennizzo contenuto in Euro 500 per ciascun anno di ritardo ingiustificato.

Considerato che il giudizio è stato instaurato con ricorso depositato il 4.6.2012, la decisione appare conforme ai principi elaborati da questa Corte con riferimento al contesto normativo anteriore all’entrata in vigore del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che ha modificato la L. 24 marzo 2001, n. 89, posto che l’indennizzo annuo accordato in concreto dal giudice di merito è addirittura inferiore all’importo base annuo di Euro 750 per i primi tre anni e di Euro 1.000 per i successivi (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n.21840 del 14/10/2009, Rv.610458 e Cass. Sez. 61, Ordinanza n. 17922 del 30/07/2010, Rv. 614433).

Da quanto precede consegue il rigetto del ricorso.

Nulla per le spese, alla luce del mancato svolgimento di attività difensiva in questo grado a cura degli intimati.

P.Q.M.

la Corte respinge il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, il 18 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2018

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