Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.28317 del 07/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14356/2017 proposto da:

VINICOLA OLEARIA DI F.L. & C. SNC, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEI PRATI DEGLI STROZZI 22, presso lo STUDIO LEGALE VENETO, rappresentata e difesa dagli avvocati ANTONIO BELSITO, MICHELE IPPEDICO;

– ricorrente –

contro

R.D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA TAGLIAMENTO 76, presso lo studio dell’avvocato GIUSUPPE NACCARATO, rappresentato e difeso dall’avvocato SUSANNA BALDUCCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 564/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 09/03/2017:

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 25/09/2018 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO.

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 9.3.2017, la Corte d’appello di Bari ha confermato, per quanto qui interessa, la statuizione di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a R.D. da Vinicola ed Olearia di F.L. & C. s.n.c., ritenendo sussistenti i presupposti per la stabilità reale e la prova dell’avvenuto svolgimento di lavoro straordinario e senza procedere a compensatio lucri cum damno in relazione alle somme percepite dal lavoratore licenziato a titolo di indennità di disoccupazione;

che avverso tale pronuncia Vinicola ed Olearia di F.L. & C. s.n.c. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura;

che R.D. ha resistito con controricorso;

che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il primo motivo, la ricorrente denuncia “violazione e comunque falsa applicazione di norme di diritto in riferimento alle disposizioni normative inerenti la applicazione della garanzia della tutela reale in favore dei lavoratori” così il ricorso, pag. 3) per avere la Corte di merito ritenuto che alla declaratoria d’illegittimità del licenziamento dovesse seguire la reintegra, nonostante che al momento dell’intimazione del licenziamento essa occupasse alle proprie dipendenze quindici lavoratori e due di essi fossero fratelli del datore di lavoro;

che, con il secondo motivo, la ricorrente si duole di omesso esame delle risultanze istruttorie per avere la Corte territoriale ritenuto provato lo svolgimento di lavoro straordinario;

che, con il terzo motivo, la ricorrente lamenta che dall’indennità risarcitoria riconosciuta all’odierno controricorrente in dipendenza della declaratoria d’illegittimità del licenziamento la Corte di merito non abbia detratto, quale aliunde perceptum, l’indennità di disoccupazione di cui era stata provata la corresponsione;

che, con riguardo al primo motivo, è consolidato il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recala da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità se non nei ristretti limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra le più recenti Cass. n. 24155 del 2017);

che, nella specie, il motivo di censura incorre precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulato con riguardo ad una presunta violazione delle “disposizioni normative inerenti la applicazione della garanzia della tutela reale in favore dei lavoratori”, pretende di criticare l’accertamento di merito elle la Corte territoriale ha effettuato in ordine alle normali esigenze produttive e occupazionali dell’azienda, che è invece insindacabile in sede di legittimità fuori dai limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra le più recenti Cass. n. 362 del 2016, sulla scorta di Cass. nn. 609 del 2000 e 6421 del 2001); che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di disposizioni di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, atteso che in tal modo si consentirebbe la surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito (Cass. n. 8758 del 2017);

che il motivo è del pari inammissibile nella parte in cui denuncia che i giudici di merito non avrebbero tenuto conto, ai fini dell’accertamento in discorso, del rapporto di parentela esistente tra il datore di lavoro e due dei lavoratori occupati, trattandosi di questione di fatto di cui la Corte territoriale non parla e di cui non si dice, in violazione del principio di specificità, quando e come sarebbe stata fatta valere in giudizio (v. in tal senso Cass. n. 20518 del 2008);

che a conclusioni non dissimili si perviene con riguardo al secondo motivo, dal momento che la sua stessa formulazione (cfr. spec. pagg. 15-17 del ricorso) tradisce l’intento di sottoporre a questa Corte una richiesta di rivalutazione del materiale istruttorio acquisito al processo, che è cosa non consentita in questa sede di legittimità (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014 e innumerevoli successive conformi);

che il terzo motivo e invece inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 1, essendo consolidato l’orientamento secondo cui le prestazioni di carattere previdenziale che il lavoratore abbia percepito in dipendenza di un licenziamento successivamente dichiarato illegittimo non costituiscono aliunde perceptum, detraibile a titolo di compensatio lucri cum damno, trattandosi di emolumenti che, a seguito della declaratoria d’illegittimità del recesso, perdono il titolo giustificativo e debbono essere restituiti a richiesta dell’ente previdenziale, con la conseguenza che non realizzano un effettivo incremento patrimoniale del lavoratore (così Cass. S.U. 12194 del 2002 e numerose successive conformi);

che il ricorso, conclusivamente, va dichiarato inammissibile provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018

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