Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.28319 del 07/11/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18161/2017 proposto da:

D.M.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 2, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO AMERICO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI CAGLIARI, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOIGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 139/2017 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 09/05/2017.

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 25/09/2018 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO.

RILEVATO IN FATTO

che, con sentenza depositata il 9.5.2017, la Corte d’appello di Cagliari ha confermato la decisione di primo grado che aveva rigettato l’impugnativa proposta da D.M.M. avverso il licenziamento intimatogli a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale, pronunciata ex art. 444 c.p.p., che lo aveva condannato alla reclusione in misura pari a un anno e undici mesi per i reati di sfruttamento, reclutamento e induzione alla prostituzione;

che avverso tale pronuncia D.M.M. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo quattro motivi di censura;

che l’Avvocatura dello Stato ha resistito con controricorso;

che è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-biS c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in Camera di consiglio.

CONSIDERATO IN DIRITTO

che, con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione del T.U. n. 165 del 2001, artt. 55-bis e 55-ter, per avere la Corte di merito ritenuto che le contestazioni disciplinari fossero specifiche quanto alle circostanze di fatto addebitategli;

che, con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 46, comma 6, lett. b), CCNL, di Comparto 16.10.2008, per non avere la Corte territoriale effettuato alcuna verifica circa la specifica gravità dei fatti che avevano dato luogo alla condanna penale;

che, con il terzo motivo (erroneamente numerato in ricorso come quarto), il ricorrente si duole di difetto assoluto di motivazione in relazione all’affermazione dei giudici di merito secondo cui le contestazioni disciplinari dovevano reputarsi specifiche e i fatti accertati in sede penale integravano il requisito della specifica gravità richiesto dal CCNL;

che, con il quarto motivo (erroneamente numerato in ricorso come quinto), il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver omesso di considerare, ai fini del giudizio circa la gravità specifica dei fatti accertati in sede penale, la circostanza secondo cui il tipo di mansioni da lui svolte non implicava alcun contatto con il pubblico;

che, con riguardo al primo e secondo motivo, è consolidato il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, mentre l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità se non nei ristretti limiti dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. tra le più recenti Cass. n. 24155 del 2017);

che, nella specie, i motivi di censura incorrono precisamente nella confusione dianzi chiarita, dal momento che, pur essendo formulati con riguardo ad una presunta violazione delle disposizioni di legge indicate nella rubrica di ciascuno di essi, pretendono di criticare l’accertamento di merito che la Corte territoriale ha effettuato in ordine alla specificità della contestazione disciplinare e alla gravità specifica degli addebiti per i quali l’odierno ricorrente è stato condannato in sede penale;

che è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con cui si deduca una violazione di disposizioni di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, atteso che in tal modo si consentirebbe la surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito (Cass. n. 8758 del 2017);

che con riguardo al terzo motivo, e altrettanto consolidato il principio secondo cui, affinchè sia integrato il vizio di mancanza o apparenza della motivazione agli effetti di cui all’art. 132 c.p.c., n. 4, occorre che la motivazione della sentenza manchi del tutto, vuoi nel senso che alla premessa dell’oggetto del decidere risultante dallo svolgimento del processo segua l’enunciazione della decisione senza alcuna argomentazione, vuoi nel senso che, pur formalmente esistendo quest’ultima, il suo svolgimento sia talmente contraddittorio da non permettere di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. n. 20112 del 2009), ferma restando la necessità che il vizio, che attiene alla motivazione in sè, emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014);

che, nella specie, pretendendo parte ricorrente di istituire un raffronto tra le argomentazioni della Corte di merito e le risultanze di causa (cfr. pagg. 17-18 del ricorso per cassazione), il motivo di censura si palesa chiaramente inammissibile;

che parimenti inammissibile e il quarto motivo, avendo questa Corte ormai consolidato il principio secondo cui, nell’ipotesi di c.d. “doppia conforme” prevista dall’art. 348-ter c.p.c., comma 5, il ricorrente in cassazione, che lamenti vizi nell’accertamento di fatto compiuto dal secondo giudice, ha l’onere di indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello e di dimostrare che esse sono tra loro diverse, derivandone altrimenti l’inammissibilità del motivo (Cass. nn. 5528 del 2014, 19001 e 26774 del 2016);

che il ricorso, conclusivamente, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;

che, in considerazione della declaratoria d’inammissibilità del ricorso, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.200,00, di cui Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 25 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 7 novembre 2018

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