L’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare delle barriere architettoniche, rientra fra le opere di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 27,comma 1, ed al D.P.R. n. 384 del 1978, art. 1, comma 1, e, pertanto, costituisce un’innovazione che, L. n. 13 del 1989, ex art. 2, commi 1 e 2, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., commi 2 e 3, ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal citato art. 2, comma 3; peraltro, la verifica della sussistenza di tali ultimi requisiti deve tenere conto del principio di solidarietà condominiale, che implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purchè lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2772/2015 proposto da:
C.C., I.R., M.M., I.A., S.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G.B. VICO 31, presso lo studio dell’avvocato MARINA GENTILE, rappresentati e difesi dall’avvocato ANTONIO TALAMONTI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrenti –
contro
E.A., F.R., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE BASTIONI MICHELANGELO 5A, presso lo studio dell’avvocato MONICA SAVONI, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCESCO MAROZZI in virtù di procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 974/2013 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 13/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/10/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie di parte controricorrente.
RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO 1.- S.A., C.C., M.M., I.R. e I.A. convennero in giudizio E.A. e F.R. dinanzi al Tribunale di Ascoli Piceno, chiedendo dichiararsi l’illegittimità dell’ascensore realizzato dai convenuti e che questi ultimi fossero condannati alla riduzione in pristino dello stato dei luoghi ed al risarcimento dei danni.
I convenuti resistettero alla domanda, chiedendo, in via riconvenzionale, la condanna degli attori al risarcimento del danno derivato dal ritardo nell’esecuzione dell’opera.
Il Tribunale adito di Ascoli Piceno rigettò entrambe le domande e sul gravame proposto dagli originari attori principali, la Corte di Appello di Ancona confermò la pronuncia di primo grado.
I giudici di appello, dopo avere richiamato le indagini peritali, rilevarono, quanto alla riduzione del varco utile per il passaggio delle persone e di cose e di eventuali biciclette o scooter, che tramite la rimozione degli scarichi e la demolizione della muratura di rivestimento era possibile ottenere una larghezza del varco di 84 cm., sufficiente al passaggio anche delle moto. In relazione alla riduzione dell’illuminazione dei locali, rilevarono che gli stessi comunque rimanevano nei parametri previsti dal REC per le nuove costruzioni, potendosi in ogni caso far ricorso, come già avveniva, all’illuminazione artificiale, e ciò tenuto conto che si trattava di locali nei quali non è prevista la permanenza di persone.
Quanto alla dedotta riduzione della ventilazione, la sentenza osservò che del pari, con il ricorso a modesti lavori, era possibile ripristinare la ventilazione richiesta dal REC, potendosi anche in tal caso far ricorso ad un impianto di ventilazione meccanica.
Ne derivava che, avendo i convenuti assunto a loro carico tutte le spese di realizzazione dell’impianto di ascensore, costituiva un loro diritto ex art. 1102 c.c., procedere alla collocazione dell’ascensore, dovendosi attribuire prevalenza all’esigenza di avvalersi di un impianto indispensabile ai fini di una completa e reale utilizzazione del bene, tenuto conto delle previsioni di cui alla L. n. 13 del 1989.
Ciò comportava anche la necessità di applicare con le dovute attenuazioni la disciplina in materia di distanze, dovendo prevalere l’esigenza di assicurare una reale abitabilità all’immobile.
Poichè nella fattispecie l’impianto, già legittimato ex art. 1102 c.c., poneva dei limitati effetti negativi per le altrui proprietà, doveva ribadirsene la legittimità.
Per la cassazione della sentenza di appello ricorrono gli appellanti sulla base di un solo motivo.
Resistono con controricorso E.A. e F.R..
2. L’unico motivo di ricorso (col quale si deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 907 e 1102 c.c., L. n. 13 del 1989, art. 3, e art. 116 c.p.c., l’erronea valutazione delle risultanze processuali e la motivazione omessa, non idonea e contraddittoria circa un fatto controverso e decisivo, per avere la Corte di Appello inquadrato la fattispecie nell’ambito dell’art. 1102 c.c., anzichè delle innovazioni vietate ex art. 1120 c.c.) è inammissibile e, comunque, manifestamente infondato, in quanto l’installazione di un ascensore, al fine dell’eliminazione delle barriere architettoniche, realizzata da un condomino su parte di un bene comune, deve considerarsi indispensabile ai fini dell’accessibilità dell’edificio e della reale abitabilità dell’appartamento, e rientra, pertanto, nei poteri spettanti ai singoli condomini ai sensi dell’art. 1102 c.c., (Sez. 2, Sentenza n. 14096 del 03/08/2012; conf. Sez. 2, Sentenza n. 10852 del 16/05/2014).
Trattasi di principio che è stato anche di recente ribadito dalla giurisprudenza di questa Corte che (cfr. Cass. n. 7938/2017) ha confermato la regola secondo cui in tema di eliminazione delle barriere architettoniche, la L. n. 13 del 1989, costituisce espressione di un principio di solidarietà sociale e persegue finalità di carattere pubblicistico volte a favorire, nell’interesse generale, l’accessibilità agli edifici, sicchè la sopraelevazione del preesistente impianto di ascensore ed il conseguente ampliamento della scala padronale non possono essere esclusi per una disposizione del regolamento condominiale che subordini l’esecuzione dell’opera all’autorizzazione del condominio, dovendo tributarsi ad una norma siffatta valore recessivo rispetto al compimento di lavori indispensabili per un’effettiva abitabilità dell’immobile, rendendosi, a tal fine, necessario solo verificare il rispetto dei limiti previsti dall’art. 1102 c.c., da intendersi, peraltro, alla luce del principio di solidarietà condominiale.
Negli stessi termini si veda anche Cass. n. 6129/2017, la cui massima recita che l’installazione di un ascensore su area comune, allo scopo di eliminare delle barriere architettoniche, rientra fra le opere di cui alla L. n. 118 del 1971, art. 27,comma 1, ed al D.P.R. n. 384 del 1978, art. 1, comma 1, e, pertanto, costituisce un’innovazione che, L. n. 13 del 1989, ex art. 2, commi 1 e 2, va approvata dall’assemblea con la maggioranza prescritta dall’art. 1136 c.c., commi 2 e 3, ovvero, in caso di deliberazione contraria o omessa nel termine di tre mesi dalla richiesta scritta, che può essere installata, a proprie spese, dal portatore di handicap, con l’osservanza dei limiti previsti dagli artt. 1120 e 1121 c.c., secondo quanto prescritto dal citato art. 2, comma 3; peraltro, la verifica della sussistenza di tali ultimi requisiti deve tenere conto del principio di solidarietà condominiale, che implica il contemperamento di vari interessi, tra i quali deve includersi anche quello delle persone disabili all’eliminazione delle barriere architettoniche, trattandosi di un diritto fondamentale che prescinde dall’effettiva utilizzazione, da parte di costoro, degli edifici interessati e che conferisce comunque legittimità all’intervento innovativo, purchè lo stesso sia idoneo, anche se non ad eliminare del tutto, quantomeno ad attenuare sensibilmente le condizioni di disagio nella fruizione del bene primario dell’abitazione.
A tali principi, come si ricava dalla sintesi della motivazione della sentenza d’appello risultano essersi conformati i giudici di seconde cure, il che consente di escludere che sussista la dedotta violazione delle norme di legge indicate nella rubrica del motivo.
Del resto, ove non debba procedersi ad una ripartizione di spesa tra tutti i condomini, per essere stata la spesa relativa alle innovazioni di cui si tratta, assunta interamente a proprio carico da un condomino, trova, comunque, applicazione la norma generale di cui all’art. 1102 c.c., che contempla anche le innovazioni, ed in forza della quale ciascun partecipante può servirsi della cosa comune, a condizione che non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri condomini di farne uguale uso secondo il loro diritto, e, pertanto, può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa comune (Sez. 2, Sentenza n. 24006 del 27/12/2004; conf. Sez. 2, Sentenza n. 25872 del 21/12/2010), valutazione questa che è stata compiuta dal giudice di appello, che ha escluso che sussista una limitazione dell’altrui proprietà incompatibile con la realizzazione dell’opera.
Il vizio di violazione di legge, del resto, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione, come nel caso di specie, di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa (nella fattispecie, delle risultanze della c.t.u.) è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Sez. U, Sentenza n. 10313 del 05/05/2006 e, di recente, Sez. L, Sentenza n. 195 del 11/01/2016).
Quanto alle doglianze concernenti l’aspetto motivazionale, deve escludersi, nella specie (avendo la corte territoriale dedicato all’analisi delle risultanze della c.t.u. oltre due pagine della sentenza), tanto la “mancanza assoluta della motivazione sotto l’aspetto materiale e grafico”, quanto la “motivazione apparente”, o il “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e la “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, figure – queste – che circoscrivono l’ambito in cui è consentito il sindacato di legittimità dopo la riforma dell’art. 360 c.p.c. comma 1, n. 5, operata dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629830), mentre non risulta dedotto il vizio di cui al nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo), non avendo parte ricorrente indicato – come era suo onere – il “fatto storico” il cui esame sia stato omesso, il “dato” (testuale o extratestuale) da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti nonchè la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831).
3. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con conseguente condanna della parte ricorrente, risultata soccombente, al pagamento delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.
4. Ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), per il raddoppio del versamento del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese del presente giudizio in favore dei controricorrenti, che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 11 ottobre 2018.
Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2018