Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.33403 del 27/12/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 11273/2011 R.G. proposto da:

G.A., rappresentato e difeso dall’avv. Francesco Leto, ed elettivamente domiciliata in Roma, via Di San Valentino n. 34, presso lo studio dell’avv. Sebastiano Calderone.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentato dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato.

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Messina, sezione 2, n. 229/02/10, pronunciata il 12/07/2010, depositata l’11/10/2010.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 13 aprile 2018 dal Consigliere Riccardo Guida;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pasquale Fimiani che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

RITENUTO IN FATTO

1. G.A., esercente attività di allevamento di ovini e caprini, ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, che resiste con controricorso, per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia (hinc: CTR) n. 229/02/10, che – in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, notificato l’11/03/2002, che recuperava a tassazione, ai fini IRPEF, per l’anno d’imposta 1996, il contributo AIMA (Lire 18.776.727) qualificandolo come reddito d’impresa – ha confermato la sentenza di primo grado, sfavorevole alla contribuente.

Il giudice d’appello, innanzitutto, ha disatteso il rilievo d’illegittimità dell’atto impositivo, evidenziando che l’Agenzia delle entrate, sulla base del processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, ha accertato che il contribuente svolgeva attività d’impresa e non attività agricola, e, pertanto, ha assoggettato ad imposta il contributo AIMA, come componente positivo del reddito; d’altro canto, la CTR ha sottolineato che l’appellante non ha prodotto, nell’arco dell’intero giudizio, alcun documento capace di contrastare la pretesa erariale, ossia idoneo a dimostrare la natura agricola dell’attività, alla stregua del criterio previsto dall’art. 29 TUIR.

CONSIDERATO IN DIRITTO

0. Nell’epilogo del ricorso il contribuente riferisce che, nelle more di questo giudizio, è divenuta definitiva la sentenza della Commissione tributaria di Messina n. 236/12/07, del 18/04/2007 – che, secondo la sua prospettazione difensiva, rileva come giudicato esterno – la quale, in una controversia identica a quella in esame, tra le stesse parti, in tema di IVA, per l’anno d’imposta 1995, ha accolto il suo ricorso contro l’atto impositivo dell’Amministrazione finanziaria.

0.1. L’eccezione di giudicato esterno è priva di pregio.

Questa Corte ha già avuto modo di affermare che: “La sentenza del giudice tributario con la quale si accertano il contenuto e l’entità degli obblighi del contribuente per un determinato anno d’imposta fa stato, nei giudizi relativi ad imposte dello stesso tipo dovute per gli anni successivi, ove pendenti tra le stesse parti, solo per quanto attiene a quegli elementi costitutivi della fattispecie che, estendendosi ad una pluralità di periodi di imposta, assumano carattere tendenzialmente permanente, mentre non può avere alcuna efficacia vincolante quando l’accertamento relativo ai diversi anni si fondi su presupposti di fatto relativi a tributi differenti ed a diverse annualità.” (Cass. 8/04/2015, n. 6953).

In adesione a tale indirizzo giurisprudenziale, non si può riconoscere efficacia vincolante, in questo giudizio, alla succitata sentenza che riguarda un diverso tributo – l’IVA e non l’IRPEF -, e non si riferisce a fatti costitutivi della pretesa tributaria aventi carattere tendenzialmente permanente in quanto, com’è ovvio, le modalità d’esercizio dell’allevamento del bestiame (in forma d’impresa o entro i limiti quantitativi dell’attività agricola) possono variare nel tempo.

1. Primo motivo di ricorso: “Illegittimità della sentenza per insufficiente e contraddittoria motivazione”.

Il ricorrente lamenta che: “Il convincimento espresso dai decidenti si appalesa del tutto immotivato in quanto dal PVC non si evince alcuna argomentazione o documento idoneo a giustificare l’accertamento fiscale” (cfr. pag. 4 del ricorso); a tale proposito, sottolinea che l’intervento della Guardia di finanza era volto ad appurare la consistenza numerica degli “ovi/caprini” aventi diritto al premio e non era una verifica fiscale.

1.1. Il motivo è inammissibile.

Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, al quale s’intende dare continuità, il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione applicabile ratione temporis al caso di specie, di: “omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione” riguarda necessariamente un: “fatto controverso e decisivo per il giudizio”, ossia un fatto storico-naturalistico, principale o secondario, risultante dalla sentenza o dagli atti processuali, al quale non possono essere assimilate le questioni e le argomentazioni giuridiche che, pertanto, risultano irrilevanti e comportano l’inammissibilità delle relative censure, irritualmente proposte (Cass. 29/07/2015, n. 15997).

Nella fattispecie il ricorrente ha completamente omesso di indicare quale sia il fatto controverso e decisivo che, nella sua ottica, sarebbe stato erroneamente apprezzato dalla CTR e che, quindi, ne avrebbe viziato il percorso decisionale.

2. Secondo motivo: “Illegittimità in diritto della sentenza impugnata poichè lesiva del disposto normativo recato dal T.U.I.R., art. 32, comma 2, lettera b”.

Il ricorrente si duole che la CTR abbia male interpretato le norme del TUIR riguardanti il reddito agricolo e che, perciò, si sia limitata a confermare l’accertamento dell’Agenzia delle entrate che non aveva minimamente provato che il contribuente svolgesse attività d’impresa per avere allevato un numero di animali eccedente in relazione all’ampiezza dei suoi terreni.

2.1. Il motivo è inammissibile.

E’ noto che la violazione di norme di diritto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, consiste nell’errore del giudice di merito nell’individuazione e nell’interpretazione della norma da applicare alla fattispecie concreta, mentre la “falsa applicazione”, ai sensi della stessa norma, consiste nell’errore di sussunzione della fattispecie concreta sotto una norma che non le si confà.

Nel caso in esame non è ravvisabile nessuna delle due ipotesi normative in quanto il ricorrente non deduce un errore di diritto, nella duplice accezione appena esposta, ascrivibile alla CTR, ma censura la ricostruzione in fatto della vicenda, in virtù della quale il giudice d’appello ha condiviso il contenuto dell’accertamento fiscale che qualificava come attività d’impresa, anzichè agricola, quella svolta dal contribuente, e, pertanto, assoggettava a imposta i contributi AIMA.

3. Terzo motivo: “I giudici di seconda istanza hanno omesso di rilevare l’illegittimità dell’attività accertativa”.

Si deduce che la CTR abbia male interpretato ed applicato il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, in quanto l’Ufficio non poteva effettuare un accertamento in base a questa disposizione che riguarda i redditi d’impresa e non il reddito agricolo conseguito dal contribuente.

3.1. Il motivo è infondato.

Esso muove da una sorta di petizione di principio, ossia che il reddito prodotto sia reddito agricolo e non reddito d’impresa, che non trova riscontro nell’attività accertatrice dell’Amministrazione finanziaria che, al contrario, ha appurato che il ricorrente esercitava l’allevamento di ovini e caprini in forma d’impresa e non in forma agricola.

4. Quarto motivo: “Illegittimità della sentenza per error in iudicando in quanto i decidenti hanno violato il principio dell’onere della prova ex art. 2679 c.c.”.

Si denuncia il vizio della sentenza impugnata che, invertendo l’onere probatorio, ha fatto gravare sul contribuente il compito di dimostrare la veridicità degli importi indicati nella dichiarazione dei redditi, mentre, in base ai principi del diritto tributario, l’Ufficio è tenuto a dimostrare i fatti costitutivi della pretesa fiscale.

4.1. Il motivo è infondato.

In disparte il refuso sulla norma del codice civile di riferimento – l’art. 2697 e non l’art. 2679 – il rilievo non si misura, puntualmente, con il contenuto della pronuncia d’appello che – con una valutazione di merito, estranea al controllo di legittimità demandato alla Corte – ha stabilito, innanzitutto, che l’Ufficio, avvalendosi dell’attività accertatrice della Guardia di finanza, ha constatato che l’attività di allevamento del bestiame, svolta dal contribuente, aveva le caratteristiche dimensionali proprie dell’attività d’impresa.

Sicchè, secondo la CTR, a questo punto, sarebbe stato onere del ricorrente – che ha omesso di farlo, in fase amministrativa ed in fase contenziosa – dare la prova contraria, rispetto alle risultanze dell’accertamento fiscale, a lui sfavorevole, ossia dimostrare di avere svolto, nell’anno d’imposta 1996, attività d’allevamento rientrante nei limiti quantitativi dell’art. 29, comma 2, TUIR, temporalmente vigente, che, per quanto qui rileva, così disponeva: “Sono considerate attività agricole: (…) b) l’allevamento di animali con mangimi ottenibili per almeno un quarto dal terreno[…]”.

Dunque, la CTR non ha contra legem addossato al ricorrente l’onere probatorio che incombeva sull’Autorità finanziaria, ma ha accertato che l’allevatore non aveva addotto alcun elemento capace di elidere il risultato dell’accertamento fiscale che – apprezzando un dato previsto dall’art. 29 cit. – qualificava come attività d’impresa, e non come attività agricola, l’allevamento del bestiame in verifica.

5. Ne consegue il rigetto del ricorso.

6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

PQM

rigetta il ricorso;

condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 1.400,00 a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 dicembre 2018

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