LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –
Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –
Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso n. 11461/2014 RG proposto da:
AGENZIA delle ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente –
contro
G.C., rappresentato e difeso, per procura speciale in margine al ricorso, dall’Avv. Fabrizio Granata e dall’Avv. Concetta Gambino, tutti elettivamente domiciliati in Roma, viale delle Milizie n. 4, presso lo studio dell’avv.to Stefano Cattarulla;
– controricorrente –
Avverso la decisione n. 669/04/2013 della Commissione Tributaria regionale della Campania, sezione distaccata di Salerno, depositata il 11/11/2013 e non notificata;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 28 marzo 2019 dal Consigliere D’Angiolella Rosita.
RITENUTO
che:
In data 27.12.2005, G.C. chiedeva l’Agenzia delle Entrate il rimborso Irpef con riferimento al periodo d’imposta 2001, scaturente dalla differenza tra l’imposta a tassazione separata ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 16, lett. m, su riserve di utili ricevuti dalla società Gestinvest s.r.l. (di cui il G. era socio unico), rispetto al credito di imposta, pari al 58,73% dell’ammontare degli utili distribuiti, trasmesso al G. stesso dalla Gestinvest s.r.l. secondo il meccanismo dei cd. “canestri” vigenti all’epoca, prima della riforma del sistema fiscale dei redditi societari di cui alla legge delega L. n. 80 del 2003.
L’Agenzia delle Entrate, con provvedimento del 15.02.2010, negava il rimborso, ravvisando un disegno elusivo in forza del quale le società operative partecipate alla holding Gestinvest s.r.l. (Vega s.r.l. e Gestinvest s.r.l.) non avrebbero distribuito gli utili percepiti nell’anno 1997, pur avendone la possibilità, al solo fine di crearsi la possibilità di tassare tali riserve negli anni successivi in capo ai soci, consentendo così a quest’ultimi di optare per la tassazione separata, con una aliquota Irpef più bassa.
Avverso il provvedimento di diniego, G.C. proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Salerno (di seguito, per brevità, CTP) lamentandone l’illegittimità per la decorrenza dei termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, per violazione della L. n. 241 del 1990, della L.n. 212 del 2000, art. 6, commi 5 e 10, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis e del TUIR, art. 16, lett. m. L’Ufficio, dal canto suo, contestava in toto il ricorso del contribuente, deducendo l’infondatezza dell’eccezione di decadenza – in quanto l’attività accertativa era stata preclusa dalla presentazione del condono cd. tombale di cui alla L. n. 289 del 2002, art. 9 -, la non ricorrenza della la previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e, quindi, instando per la correttezza del diniego di rimborso.
La CTP rigettava il ricorso del contribuente ritenendo che per effetto del condono tombale della L. n. 289 del 2002, ex art. 9, doveva ritenersi precluso al contribuente ogni rimborso.
Avverso tale sentenza G.C. proponeva appello alla Commissione Tributaria Regionale della Campania (di seguito, per brevità, CTR) che rigettava il gravame sul principale rilievo che il condono tombale trovasse applicazione anche per le somme soggette a tassazione separata, secondo modalità previste dalla L. n. 289 del 2002, art. 8.
Contro tale sentenza il G. proponeva ricorso per revocazione ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 64 e ex art. 395 c.p.c., n. 4, rilevando che i giudici di appello avevano commesso un errore di fatto nel ritenere sussistente la dichiarazione integrativa ai sensi del D.Lgs. cit., ex art. 8, chiedendo nel contempo l’accoglimento della domanda di rimborso; la CTR adita accoglieva il ricorso per revocazione nonchè, nel merito, l’appello del contribuente.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle Entrate affidato a tre motivi.
G.C. resiste con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. L’Agenzia delle Entrate propone tre motivi d’impugnazione, lamentando, con il primo motivo, che i Giudici della CTR abbiano erroneamente ritenuto la sussistenza dell’errore di percezione denunciato, con il secondo motivo, che abbiano erroneamente accolto l’eccezione di decadenza per decorrenza dei termini dell’azione accertativa, con il terzo motivo, che abbiano arbitrariamente escluso la sussistenza dell’abuso del diritto nell’operazione fiscale posta in essere dal G..
Il ricorso è infondato.
2. Con la prima doglianza, proposta in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si deduce l’inesistenza dell’errore di fatto, rilevante per il giudizio, per aver secondi Giudici malamente rilevato questioni di diritto in alcun modo riconducibili al paradigma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 64 e dell’art. 395 c.p.c., n. 4.
La sentenza che qui s’impugna ha affermato che “l’errore revocatorio sussiste perchè vi è discordanza tra la sentenza ed uno degli atti processuali allegati al fascicolo” risultando, con evidenza, che il contribuente non aveva aderito alla dichiarazione integrativa di cui alla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 8, ma al cd. condono tombale di cui alla stessa legge, successivo art. 9, si configurandosi cosi una svista percettiva di carattere decisivo sull’intero oggetto del contendere. Secondo i giudici della revocazione tale svista percettiva ha avuto efficienza causale sulla decisione della controversia perchè l’aver ritenuto che i redditi soggetti a tassazione separata, da cui scaturiva il credito Irpef, erano stati resi definitivi dal condono secondo le modalità di cui alla L. cit., art. 8, ha determinato la pronunzia di preclusione al diritto rimborso in via pregiudiziale.
3. Ritiene il Collegio che la CTR abbia fatto buon governo della normativa e dei principi, costantemente affermati da questa Corte, che regolano il giudizio revocatorio.
Ed infatti, secondo la giurisprudenza indiscussa di questa Corte, l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., idoneo per proporre impugnazione per revocazione ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 64, comma 1, (nella formulazione, applicabile ratione temporis, anteriore all’entrata in vigore del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9,comma 1, lett. c)), consiste nell’affermazione o supposizione dell’esistenza o inesistenza di un fatto la cui verità risulti invece in modo indiscutibile esclusa o accertata in base al tenore degli atti e documenti di causa; esso si sostanzia, quindi, in una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti e documenti stessi risulti positivamente accertato e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività, sicchè non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico (cfr. Cass., 23/02/2006, n. 4015; Cass., 30/11/2005, n. 26074; 23/05/2018 n. 1284, Rv. 648664 – 01).
In altri termini, l’errore di fatto idoneo per la revocazione della sentenza deve presentare i caratteri dell’evidenza e dell’obiettività, così da non richiedere lo sviluppo di argomentazioni induttive o d’indagini (cfr. Cass. 05/03/015 n. 4456), e deve essere decisivo per il giudizio.
In base a tali principi, non pare via sia dubbio che l’aver dato per esistente un documento (la dichiarazione integrativa), invece inesistente agli atti, abbia determinato un contrasto rilevante tra la rappresentazione dei fatti univocamente emergenti dagli atti e la supposizione del medesimo fatto posta a base della decisione del giudice, senza che ciò abbia implicato una valutazione in diritto.
L’errore in questione, cioè, è sorto dal contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali l’una emerge dalla sentenza (esistenza della dichiarazione integrativa), l’altra dagli atti e documenti processuali (inesistenza della dichiarazione integrativa ed esistenza della richiesta di condono tombale), senza che, invece, sia stata espressa una valutazione giuridica comportante un giudizio (cfr. Cass. 28/03/2018 n. 7617, Rv. 647693 – 01, in cui la S.C. ha annullato la decisione impugnata che aveva statuito sul condono “tombale” presentato da un professionista, anzichè sul condono “clemenziale” presentato dalla società ricorrente; sulla rilevanza ed obiettività dell’errore, cfr. Cass. 29/10/2010 n. 22171, Rv. 615076 – 01).
Ne consegue l’infondatezza del primo motivo di ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, in quanto l’affermazione contenuta nella sentenza revocata circa l’esistenza, nei fascicoli processuali, di un documento che, invece, non risultava esservi stato inserito, non si concreta in un errore di giudizio, bensì in una mera svista di carattere materiale, costituente errore di fatto e, quindi, motivo di revocazione a norma dell’art. 395 c.p.c., n. 4, e non di ricorso per cassazione (cfr. Cass. 28/09/2016, n. 19174, Rv. 641388 – 01).
4. Col secondo motivo di ricorso, la ricorrente deduce l’erroneità della sentenza impugnata – per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 36 bis e 43, nonchè del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 16, lett. M e dell’art. 53 Cost. – nella parte in cui ha ritenuto fondata l’eccezione di decadenza per decorrenza dei termini di cui al D.P.R. cit., art. 43, senza considerare che nella specie lo strumento legittimamente utilizzato era quello del diniego che non soggiace ad alcun termine decadenziale.
Tale motivo è inammissibile per carenza di interesse.
L’iter argomentativo seguito dai secondi giudici, i quali che pur accogliendo l’eccezione decadenziale non hanno chiuso il giudizio con l’accoglimento dell’istanza di rimborso, ma hanno esaminato nel merito la controversia, fa divenire irrilevante la questione decadenziale, anche laddove con essa si volesse configurare una distinta ragione della decisione, in quanto l’accertamento di fatto compiuto per escludere la sussistenza del disegno elusivo, svuota d’interesse la questione della decadenza, non individuandosi l’utilità concreta che muoverebbe la ricorrente ad ottenere l’ipotetico accoglimento del motivo all’esame, stante la pronuncia nel merito che la Commissione Regionale ha fatto sull’insussistenza del disegno elusivo (cfr. Cass., 15/01/2016 n. 594, Rv. 63824-01; Cass., 23/05/2008 n. 13373, Rv. 603196-01; Cass., 13/10/2016 n. 20689, Rv. 642050 – 02).
5. Venendo all’esame del terzo motivo, con esso l’Agenzia delle Entrate censura la gravata sentenza per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella parte in cui ha escluso la sussistenza di un disegno elusivo in forza del quale le due società holding, Vega s.r.l. e Ginvest s.r.l., non avrebbero distribuito a favore dei soci gli utili percepiti nel 1997, pur avendone la possibilità, al solo fine di conseguire il vantaggio di tassare tali riserve separatamente negli anni successivi, con un’aliquota media Irpef più bassa.
Dalla lettura della motivazione della sentenza, emerge che la CTR ha escluso la sussistenza di un disegno elusivo sulla base dei seguenti rilievi circostanziali: a) Vega e Gestinvest sono società holding la cui attività istituzionale è rappresentata proprio dall’investimento in titoli azionari, attività che risulta ininterrotta dalla loro costituzione alla loro messa in liquidazione (1993 – 2000); b) le suddette società, dalla data di costituzione fino alla liquidazione volontaria, non hanno mai distribuito ai soci le riserve di utili via via accantonate; c) mancanza di pluralità di atti conseguenti idonei a configurare il disegno elusivo sia perchè il disegno avrebbe dovuto interessare un arco temporale troppo lungo (1993 fino alla liquidazione della società del 2000), sia perchè la non operatività delle stesse risulta smentita dagli bilanci; d) mancanza di elementi per risalire al risparmio d’imposta che le società avrebbero conseguito e quindi per capire quale sarebbe stato il percorso fiscalmente legittimo e quello eluso.
Orbene, che la CTR non sia incorsa nel vizio denunciato, risulta proprio dagli elementi circostanziali innanzi evidenziati, dai quali emerge chiaramente il processo cognitivo dal quale i giudici di secondo grado sono pervenuti alla decisione.
Posto che per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo per la controversia è necessario un rapporto di causalità tra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, nella specie la motivazione della sentenza impugnata è legittima, perchè esclude il disegno elusivo sulla base di considerazioni oggettive, circostanziate, pertinenti e non contraddette dagli elementi individuati dalla ricorrente nei giudizi di merito nonchè in seno al giudizio di impugnazione.
6. Il ricorso va dunque rigettato.
7. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 5.600,00 oltre spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2019