LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
Sul ricorso n. 30302/2014 RG proposto da:
D.D.F., quale coniuge ed erede di P.L., rappresentato e difeso, dall’Avv. Vincenzo Di Lorenzo, elettivamente domiciliato in Francavilla al Mare, Via Duca degli Abbruzzi n. 1 giusta procura in calce al ricorso.
– ricorrente –
e AGENZIA delle ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
Avverso la decisione n. 374/07/2014 della Commissione Tributaria regionale dell’Abruzzo, depositata il 31/03/2014 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 marzo 2019 dal Consigliere Dott.ssa D’Angiolella Rosita.
RILEVATO
che:
Per l’anno d’imposta 2007, l’Amministrazione finanziaria rideterminava il reddito del contribuente, P.L., con metodo analitico induttivo, raffrontando quanto esposto dal contribuente nelle dichiarazioni dei redditi e negli studi di settore e i dati contabili d’archivio per la corrispondente tipologia di attività imprenditoriale.
La contribuente ricorreva avverso l’avviso innanzi alla Commissione provinciale di Chieti che respingeva il ricorso confermando l’avviso di accertamento.
La pronuncia di rigetto era appellata dal contribuente, facendo leva sostanzialmente sulla carenza dei presupposti per la procedura di accertamento, sulla carenza di motivazione e sul mancato assolvimento degli oneri probatori a carico dell’Ufficio.
La Commissione Tributaria regionale dell’Abruzzo (di seguito, per brevità, CTR) si pronunciava accogliendo parzialmente l’appello limitatamente alla non debenza delle sanzioni, mentre confermava, quanto alla legittimità dell’accertamento, la sentenza della CTP. Avverso la decisione della CTR, ha proposto ricorso per cassazione D.D.F. quale coniuge ed erede di P.L., affidandosi a due motivi.
L’agenzia delle Entrate, ha depositato atto al solo fine dell’eventuale partecipazione all’udienza di discussione.
CONSIDERATO
CHE:
Il ricorso, espresso in due motivi, è infondato.
Con il primo motivo deduce la violazione erronea applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 112 nonchè di ogni altra norma in tema di corrispondenza tra chiesto e pronunciato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 in quanto la motivazione sarebbe apparente, non comprendendosi le ragioni della conferma della sentenza della CTP soprattutto in relazione allo specifico motivo di impugnazione proposto.
La doglianza è infondata.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la motivazione per relationem della sentenza di appello è legittima sempre che renda percepibili e comprensibili le ragioni della decisione, in relazione ai motivi di appello proposti; viceversa, nel caso in cui il giudice di merito non compia, o compia inadeguatamente, una disamina logica e giuridica degli elementi dai quali trae il proprio convincimento, rinviando genericamente e acriticamente alle motivazioni di altro giudice o al quadro probatorio acquisito, o, ancora, al nome della normativa ritenuta applicabile senza sussunzione alcuna della fattispecie concreta al precetto generale, incorre nel vizio di omessa o di apparente motivazione con conseguente nullità della sentenza. E’ evidente, infatti, che motivazioni di tal fatta svuoterebbero di contenuto la funzione dell’appello che, quale revisio prioris istantiae, è finalizzato ad esaminare, in modo specifico e adeguato alla sua funzione, le censure proposte dalle parti alla sentenza di primo grado, così da consentire – ai fini del giudizio di legittimità – un effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento adottato (cfr., Cass. 18/04/2017 n. 9745; Cass. 26/06/2017 n. 15884; Cass. 21/09/2017, n. 22022; Cass., 25/10/2018, n. 27112; Cass., 05/10/2018 n. 24452; Cass., 07/04/2017 n. 9105, tutte che richiamano i parametri minimi di motivazione indicati da Cass., Sez. U., 07/04/2014 n. 8053 e 03/11/2016n. 22232; cfr., altresì, per il vizio di motivazione collegato alla funzione dell’appello, Cass., 10/01/2003 n. 196).
Nel caso all’esame – riguardante l’accertamento con metodo analitico induttivo dei redditi d’impresa – il giudice a quo, ha rigettato l’appello della contribuente ritenendo non soddisfatto l’onere della prova su di essa incombente riguardante il superamento delle presunzioni poste a favore dell’Ufficio, sul punto argomentando – dopo aver richiamato le norme applicabili alla fattispecie e l’interpretazione consolidata della giurisprudenza che “E’ legittimo che l’ufficio basi la determinazione del reddito anche su presunzioni semplici, perchè queste presentino i requisiti della gravità, precisione e concordanza, al fine di risalire un fatto noto ad un fatto ignoto nonchè al fine ulteriore di invertire l’onere della prova a carico del contribuente. I parametri, in definitiva, non possono costituire se stessi elementi sufficienti a motivare l’accertamento ma sono unicamente semplici indizi che, unitamente e a completamento di altri elementi acquisiti dall’ufficio, possono tutti insieme generare presunzioni semplici aventi caratteri della gravità, precisione e concordanza”, così ragionando nel senso che le presunzioni (relative) di legge non sono state minimamente scalfite da elementi a discarico che la contribuente aveva l’onere di dimostrare.
Alla luce dei principi su richiamati, la sentenza della CTR non appare affetta dal denunciato vizio di nullità, in quanto, consente di cogliere chiaramente il suo thema e la sua ratio decidendi, nonchè il perchè dell’infondatezza dell’appello. I giudici d’appello, hanno argomentato sulle ragioni di dissenso dalla decisione della CTP e hanno motivato, rettamente, sulle doglianze dell’appellante.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. Tale motivo è infondato, anche in considerazione degli esiti della giurisprudenza di questa Corte in materia di accertamento con metodo cd. analitico-induttivo.
Ed invero, secondo l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità, “l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con il quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d) pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” (cfr., ex plurimis, Cass. n. 20060 del 24/09/2014); egualmente, in materia di IVA, si è soggiunto che “l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (cfr., Cass. del 30 dicembre 2015, n. 26036; eadem, 11 ottobre 2018, n. 25217 del 11/10//2018).
Di tali principi ha fatto buon governo la sentenza gravata, sicchè il ricorso va rigettato.
Gli ulteriori profili denunciati con la seconda censura (v. pagina 5 del ricorso: “la motivazione è solo apparente e non può essere condivisa”; v. pagina 6: “la sentenza appare anche contraddittoriamente motivata”), presentano evidenti profili di inammissibilità, trattandosi di difese non autosufficienti a giustificare il collegamento col vizio lamentato (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e a consentire la comprensione delle relative allegazioni.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Si dà atto della sussistenza, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente (soccombente) dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.200,00. Si dà atto della sussistenza, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente (soccombente) dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2019