LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IACOBELLIS Marcello – Presidente –
Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –
Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –
Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 88-2018 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente –
contro
S.L.M., SPA, in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 12, presso lo studio dell’avvocato GRAZIANO PUNGI’, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato DOMENICO POERIO;
avverso la sentenza n. 231/1/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di CATANZARO, depositata il 16/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 13/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott. RAGONESI VITTORIO.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
La Commissione tributaria provinciale di Cosenza, con sentenza n. 183 del 2013, sez. 2, accoglieva il ricorso proposto dalla Slm spa avverso l’avviso d’accertamento ***** per iva 2001.
Avverso detta decisione l’Agenzia delle entrate proponeva appello innanzi alla CTR Catanzaro che, con sentenza n. 183/2/13, lo rigettava.
Proposto ricorso innanzi la Corte di Cassazione, quest’ultima, con ordinanza n. 8738 del 2015, cassava la sentenza di secondo grado con rinvio alla CTR Catanzaro che, con sentenza n. 213 del 2017, rigettava l’appello dell’Ufficio.
Avverso la detta sentenza ha proposto nuovamente ricorso per Cassazione l’Agenzia delle Entrate sulla base di un motivo.
Ha resistito con controricorso la SLM spa che ha depositato altresì memoria.
La causa è stata discussa in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate deduce la violazione dell’art. 2697 c.c. per violazione dell’onere della prova e per non avere effettuato, in violazione di quanto disposto da questa Corte con la sentenza di rinvio, l’esame di tutti gli elementi di prova acquisiti in giudizio e delle ragioni addotte dall’Ufficio.
Il ricorso è tempestivo.
La notifica doveva avvenire entro un anno dalla notifica della sentenza, applicandosi il D.L. n. 50 del 2017, art. 11,comma 9, che ha prorogato di sei mesi i termini per effettuare la notifica dei ricorsi scadenti tra il 24.4.17 ed il 30.9.17.
Nel caso di specie, il termine veniva a scadenza il 12.7.2017 ma, in virtù della proroga citata, la stessa risultava dilazionata al 12.1.18 per cui la notifica, avvenuta il 19.12.17 (data di presentazione dell’atto all’Ufficio postale), risulta nei termini.
Non appare invero fondata la deduzione della ricorrente, contenuta nella memoria, secondo cui nel caso di specie la sospensione non si applicherebbe trattandosi di rimborso Iva. Invero l’articolo in questione, comma 1, fa riferimento generico alla definibilità di tutte le controversie tributarie mentre il comma 4, che specifica quelle che sono le controversie escluse, non contiene alcun riferimento ai rimborsi IVA facendo unicamente riferimento all’Iva riscossa all’importazione, fattispecie in cui non ricade la presente controversia.
Risulta infondata anche l’ulteriore eccezione di inammissibilità del ricorso per difformità tra la violazione di legge riportata in rubrica ed il contenuto effettivo della censura riportata nel motivo.
In merito questa Corte già affermato che l’erronea indicazione della norma processuale violata nella rubrica del motivo non determina “ex se” l’inammissibilità di questo se la Corte possa agevolmente procedere alla corretta qualificazione giuridica del vizio denunciato sulla base delle argomentazioni giuridiche ed in fatto svolte dal ricorrente a fondamento della censura, in quanto la configurazione formale della rubrica del motivo non ha contenuto vincolante, ma è solo l’esposizione delle ragioni di diritto della impugnazione che chiarisce e qualifica, sotto il profilo giuridico, il contenuto della censura (Cass. 12690/18; Cass. 14026/12).
Nel caso di specie la rubrica fa riferimento alla violazione dell’art. 2697 c.c. ed il motivo, invero, contiene censure rapportabili a tale questione in relazione all’onere della prova che grava sul contribuente riguardo la correttezza del proprio operato in caso di contestazione dell’amministrazione per indebite detrazioni per operazioni inesistenti.
La circostanza che il motivo, in ragione di siffatta contestazione ed in aggiunta ad essa, neghi che le prove fornite dal contribuente fossero idonee a far ritenere le detrazioni e lamenti un vizio di motivazione sotto tale profilo, anche in ragione dell’omesso esame degli elementi assunti come decisivi addotti dall’Amministrazione, costituisce una censura strettamente connessa con quella di cui in rubrica che, in quanto chiaramente esposta, risulta del tutto ammissibile.
Parimenti infondata è la terza eccezione di inammissibilità secondo cui il motivo in esame sovrappone mezzi di censura eterogenei.
Sul punto va rammentata la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati.(Cass. sez. un 9100/15; Cass. 7009/17; Cass. 26790/18).
Come già in precedenza detto le due censure che emergono dal motivo in esame sono tra loro connesse e le argomentazioni di ciascuna emergono con chiarezza dal motivo di ricorso.
Infondata altresì è la quarta eccezione di inammissibilità per mancanza di autosufficienza del ricorso perchè non risulterebbero evidenziati e riportati gli scritti difensivi ed i passi riguardanti le prove contrarie dedotte a sostegno della tesi dell’Amministrazione.
Nel caso di specie la CTR ha deciso sulla base di una ordinanza di rinvio da parte di questa Corte che, come si riporterà per esteso più avanti, aveva annullato la precedente sentenza della CTR proprio perchè non aveva esaminato i motivi dell’appello dell’Amministrazione.
In tale fattispecie non risulta necessario che i motivi vengano diffusamente riportati nel ricorso, proprio perchè la doglianza si incentra sulla circostanza che i motivi in questione non siano stati affatto esaminati dal giudice di secondo grado, come disposto da questa Corte.
Venendo quindi al merito del motivo di ricorso, se ne rileva la manifesta infondatezza e, per certi versi, l’inammissibilìtà.
Questa Corte, con l’ordinanza 8738/15, di cui si è già detto, nell’accogliere il ricorso dell’Amministrazione, ha cassato la sentenza n. 183/13 della CTR Catanzaro con rinvio a quest’ultima per nuovo giudizio statuendo quanto segue.
“Non può infatti sottacersi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel processo tributario, ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni e argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, secondo il quale il ricorso in appello deve contenere “i motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi”, atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito – cfr., ex plurimis, Cass. n. 3064/12, – Cass. n. 14908/14 – A tanto non si è conformato il giudice di appello, ritenendo indebitamente che l’appello proposto dall’Agenzia non rispettasse i canoni di cui al ricordato D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, senza dunque considerare che la stessa peraltro riportava gli elementi di fatto che avevano giustificato l’accertamento, per di più contenendo le ragioni in diritto che fondavano l’impugnazione – cfr. pag. 4 ricorso per cassazione.
In accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della CTR della Calabria anche per la liquidazione delle spese del giudizio.”
Il giudice del rinvio doveva dunque procedere all’esame delle doglianze avanzate dall’Amministrazione con l’atto di appello di cui era stato omesso l’esame nel precedente giudizio di impugnazione, annullato da questa Corte.
Tale esame deve ritenersi sia stato effettuato.
Si osserva, in primo luogo che nella narrativa della sentenza impugnata vengono riportati i motivi di doglianza proposti dall’Amministrazione con l’atto di appello (appartenenza allo stesso gruppo familiare dei soggetti che rappresentavano le due società che avevano stipulato l’appalto ed il fatto che la Innotek, che avrebbe dovuto assemblare le parti meccaniche per fornire il macchinario alla SLM, aveva un solo operaio).
Dunque le doglianze in questione sono state evidentemente oggetto di attenzione da parte della Commissione regionale.
Ciò posto, la sentenza oggi ricorsa ha sintetizzato e fatto propri gli argomenti esposti dalla sentenza di primo grado secondo cui la contribuente aveva dimostrato la congruità dei prezzi, l’esistenza delle fatture, la validità delle modalità di pagamento e l’esistenza del complesso industriale.
In particolare, la Commissione regionale ha fatto riferimento alla sentenza di primo grado riportando la circostanza che tutti tali aspetti risultavano dalla documentazione fornita dalla società contribuente e, in particolare, dal verbale di collaudo del Ministero delle attività produttive che ne aveva riscontrato la correttezza.
Alla luce di tali constatazioni appare in primo luogo priva di ogni consistenza la censura di violazione dell’art. 2697 c.c..
La sentenza impugnata ha, infatti, ritenuto che a fronte degli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione finanziaria a sostegno della propria pretesa tributaria, la società contribuente avesse fornito adeguata prova contraria della infondatezza della detta pretesa.
Trattasi di valutazione di merito, come tale non sindacabile in sede di legittimità, emessa in applicazione di consolidati principi in materia di questa Corte secondo cui, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che le operazioni commerciali oggetto di fatturazione non sono mai state poste in essere, indicando gli elementi, anche indiziari, sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo, altrimenti indeducibili, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, trattandosi di dati e circostanze facilmente falsificabili (da ultimo ex plurimis, Cass. 11783/18) Il motivo risulta manifestamente infondato anche laddove prospetta una motivazione inesistente ovvero per relationem.
La giurisprudenza di questa Corte che ha ripetutamente statuito che è nulla, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, la motivazione solo apparente, che non costituisce espressione di un autonomo processo deliberativo, quale la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile (da ultimo ex plurimis, Cass. 27112/18Cass. 22598/18; Cass. 24452/18; Cass. 21978/18).
Nel caso di specie la sentenza in esame, ancorchè abbia fatto proprie le valutazioni del giudice di primo grado, ne ha ripercorso l’iter valutativo condividendolo non già in modo passivo ma sulla base di una propria rivalutazione delle circostanze dedotte.
Ciò risulta anche dalla circostanza che, nella parte motiva, la sentenza ricorsa richiama nuovamente le doglianze dell’Amministrazione (già esposte – come detto – in narrativa) per rilevarne l’infondatezza proprio in ragione del fatto che il giudice di primo grado, con la motivazione che la Commissione regionale ha dichiarato di condividere, aveva accertato che la società contribuente aveva fornito elementi probatori tali da neutralizzare gli elementi forniti dall’Amministrazione costituenti semplici presunzioni di operazioni inesistenti.
Il ricorso va dunque respinto. Segue alla soccombenza la condanna al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio liquidate in Euro 4000,00 oltre spese forfettarie 15%.
Così deciso in Roma, il 13 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2019