Corte di Cassazione, sez. Unite Civile, Sentenza n.11931 del 07/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente f.f. –

Dott. MANNA Felice – Presidente di Sezione –

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33078/2018 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA OVIDIO 20, presso lo studio dell’avvocato ANDREA RUGGIERO, rappresentata e difesa dall’avvocato AGOSTINO DE CARO;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 148/2018 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA ROMA, depositata il 14/09/2018;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/03/2019 dal Consigliere ANTONELLO COSENTINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato Agostino De Caro.

FATTI DI CAUSA

La Dott.ssa R.G., giudice presso il tribunale di Salerno, ha proposto ricorso innanzi alle Sezioni Unite della Corte di cassazione avverso la sentenza n. 148/18 della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura che la ha dichiarata responsabile dell’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, lett. a), e, per l’effetto, l’ha condannata alla sanzione disciplinare della censura.

La Sezione disciplinare del CSM ha ricostruito la vicenda nei seguenti termini:

– la Dott.ssa R., in data 16.7.14, accompagnò il marito, Dott. S., medico presso l’ospedale *****, ad un incontro con la giornalista C.G., presso la redazione del giornale *****;

– il suddetto incontro era stato fissato dal Dott. S. per trasmettere alla giornalista informazioni relative ad un caso di decesso verificatosi nel corso di un intervento chirurgico presso il suddetto ospedale ***** per ipotizzata colpa medica; nel corso dell’incontro il Dott. S. consegnò una fonoregistrazione avente ad oggetto dichiarazioni a lui rilasciate dal Dott. Ca., altro medico dell’ospedale *****, in ordine alle responsabilità che quest’ultimo si assumeva per tale decesso;

– Nel corso dell’incontro, la Dott.ssa R., abusando della propria qualità di magistrato, esercitò pressioni nei confronti della giornalista, affinchè il caso avesse la maggior rilevanza mediatica possibile; ciò per mettere in difficoltà l’azienda ospedaliera e, conseguentemente, far conseguire un vantaggio quantomeno morale, se non anche patrimoniale, al marito, all’epoca coinvolto in un contenzioso, anche giudiziale, con l’azienda medesima.

Per formare il proprio convincimento, la Sezione disciplinare si basava sulle dichiarazioni rese dalla giornalista Sig.ra C.G. e sull’esame della registrazione del colloquio avvenuto presso la redazione del giornale, rilevando altresì che le giustificazioni addotte dall’incolpata nelle memorie difensive, nonchè nelle dichiarazioni rese in atti, non avevano trovato un valido riscontro e risultavano inidonee a smentire quanto emerso dall’esame delle prove in atti.

Il ricorso proposto dalla Dott.ssa R. si articola in dodici motivi.

La causa è stata discussa alla pubblica udienza del 26 marzo 2019, nella quale il Procuratore Generale ha concluso come in epigrafe.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, riferito al vizio di motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), la ricorrente censura la mancanza assoluta di motivazione del provvedimento impugnato in relazione ad una serie di punti (l’abusiva registrazione effettuata dalla giornalista C. del colloquio con l’odierna ricorrente, nonchè gli accadimenti antecedenti e successivi), che, se valutati, avrebbero dimostrato l’insussistenza dell’addebito disciplinare; censura inoltre la mancanza assoluta di motivazione sulle memorie e sugli elementi prodotti dalla difesa.

In particolare, si deduce nel mezzo di gravame, la Sezione disciplinare del CSM avrebbe dovuto considerare che il colloquio intercorso tra la Dott.ssa R., suo marito e la giornalista C. era stato da quest’ultima registrato fraudolentemente su sollecitazione di tale I.G. (all’epoca imputato in un procedimento penale pendente dinanzi al tribunale di Potenza e assegnato alla stessa Dott.ssa R.) e che tale registrazione era funzionale ad arrecare un danno ingiusto alla Dott.ssa R.; tutti aspetti che, se esaminati, avrebbero escluso in radice la sussistenza degli estremi dell’illecito disciplinare.

Il motivo si articola in 13 punti, deputati al richiamo di deduzioni già argomentate davanti alla Sezione disciplinare del CSM, che la ricorrente assume non essere state prese in considerazione dal giudice disciplinare.

Esso lamenta l’omessa motivazione su risultanze processuali quali: la qualità di imputato dello I.; gli artifizi della sig.ra Sig.ra C.; i riferimenti allo I. effettuati dalla sig.ra C. nel corso della conversazione con l’incolpata; il resoconto effettuato dalla sig.ra C. allo I. al termine dell’incontro con l’incolpata; l’intento della sig.ra C. di influire sul giudizio della incolpata sullo I.; la manipolazione della registrazione; le condotte successive dei sigg. A. e M., e della stessa sig.ra C.; gli articoli del ***** sulla vicenda I.; la lettera inviata dallo I. al ***** il *****; le iniziative giudiziarie e amministrative dello I.; le dichiarazioni della Sig.ra C. al presidente della corte di appello di Potenza.

Si tratta di censure che non attingono la ratio decidendi dell’impugnata pronuncia. La doglianza, infatti, non mette in discussione l’accertamento di fatto che l’incolpata si rivolse alla giornalista con espressioni quali “possiamo contare su di voi” e “tanto lo al riesame ho le indagini di tutta la *****” ed è su quell’accertamento che di fonda il decisum.

Il motivo va quindi disatteso, dovendosi qui dare continuità al principio espresso in Cass. pen. 13809/15 secondo cui, in tema di motivi di ricorso penale per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che criticano la persuasività, l’inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell’attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento.

2. I motivi secondo e terzo, esposti congiuntamente nel ricorso, sono riferiti, rispettivamente, al vizio di inosservanza o erronea applicazione di legge di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3, comma 1, lett. a), ed al vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), per travisamento del fatto e delle prove. Con tali motivi la ricorrente impugna la statuizione secondo la quale l’aver sollecitato un organo di stampa alla trattazione di una vicenda di cattiva pratica sanitaria integrerebbe i requisiti dell’illecito disciplinare a lei addebitato.

Anche questi motivi vanno disattesi, perchè la denuncia di inosservanza o erronea applicazione di legge si risolve, in effetti, in una censura dell’apprezzamento di fatto operato dalla Sezione disciplinare, mentre la censura di travisamento del fatto e delle prove si risolve in apodittiche affermazioni di merito che si limitano a contrapporre la lettura delle risultanze processuali della parte a quella operata dal giudice.

3. I motivi quarto e quinto, esposti congiuntamente nel ricorso, sono riferiti, rispettivamente, al vizio di inosservanza o erronea applicazione di legge di legge di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 1, ed al vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), per travisamento del fatto. Con tali motivi la ricorrente attinge la statuizione che ha ravvisato una violazione dei doveri deontologici di correttezza dei magistrati nella omessa denuncia, da parte dell’incolpata, dei fatti di cui ella era venuta a conoscenza in relazione al suddetto caso di cattiva pratica sanitaria.

Nel mezzo di ricorso si argomenta che l’impugnata sentenza, per un verso, risulterebbe immotivata, giacchè non si comprenderebbe “cosa dovesse denunciare formalmente la Dott.ssa R., non avendo assistito all’intervento, nè vivendo in ambiente ospedaliero” (pag. 26, secondo capoverso, del ricorso); per altro verso, trascura il diritto dell’incolpata, tutelato dall’art. 21 Cost., di esprimere opinioni personali, nel corso di una conversazione privata e confidenziale in ambito extragiudiziario, in ordine ad un procedimento già noto agli indagati a seguito dell’avviso ex art. 361 c.p.p., già loro precedentemente inviato.

Detti motivi sono anch’essi da rigettare perchè, in sostanza, sollecitano una rilettura del merito della vicenda; il riferimento all’art. 21 Cost., non è poi pertinente, perchè la sentenza non mette in discussione tale libertà, ma censura che l’incolpata, venuta a conoscenza del fatto che suo marito possedeva la fonoregistrazione di rilevanti dichiarazioni resegli dal Dott. Ca. sull’avvenuto decesso di una paziente in ospedale, “abbia chiamato una giornalista” (pag. 9 della sentenza), invece che riferire la circostanza all’autorità giudiziaria procedente.

4. I motivi sesto e settimo, esposti congiuntamente nel ricorso, sono riferiti, rispettivamente, al vizio di inosservanza di norme processuali di cui all’art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione all’art. 191 c.p.p., ed al D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11,2 decies e 160 bis, (c.d. codice privacy), ed al vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), con riferimento alla utilizzabilità in sede disciplinare ed alla credibilità della conversazione illegittimamente captata dalla giornalista C..

I motivi non possono trovare accoglimento.

Quanto alla censura relativa all’utilizzo di una registrazione captata in violazione delle norme poste a tutela della riservatezza, va osservato che, secondo la costante giurisprudenza delle sezioni penali di questa Corte, solo la violazione delle norme processuali che presidiano alla formazione della prova possono dare luogo alla sanzione di inutilizzabilità. Le disposizioni contenute nel codice della privacy sono, invece, imposte a tutela della riservatezza, la cui tutela è sub-valente rispetto alle esigenze di accertamento del processo penale, non costituendo la disciplina sulla privacy (e le relative istruzioni del Garante) sbarramento all’esercizio dell’azione penale (in termini, sentt. nn. 6812/2013, n. 22169/13, 28367/17).

Queste Sezione Unite ritengono il suddetto principio applicabile anche nel giudizio disciplinare dei magistrati davanti al C.S.M..

L’interesse pubblico presidiato dal sistema della responsabilità disciplinare dei magistrati si identifica nella fiducia dei cittadini nella correttezza del modo con cui i magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario esercitano la funzione giurisdizionale loro affidata dall’art. 102 Cost..

Tale interesse è tutelato direttamente dalla Costituzione, la quale contempla espressamente “i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati” (art. 105 Cost.) e attribuisce al Ministro della giustizia la facoltà di esercitare l’azione disciplinare (art. 107 Cost.). La responsabilità disciplinare dei magistrati è speculare alla soggezione dei medesimi soltanto alla legge (art. 101 Cost.) e l’accertamento dei fatti costitutivi di tale responsabilità non è meno rilevante, nella valutazione da svolgere ai fini necessario bilanciamento tra diversi diritti e interessi tutti costituzionalmente rilevanti, dell’accertamento dei fatti costitutivi della responsabilità penale.

La censura di inosservanza di norme processuali va pertanto disattesa.

Quanto alla censura relativa alla mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione in punto di attendibilità delle dichiarazioni di C.G. in cui la Sezione disciplinare sarebbe incorsa “non confrontandosi, da un lato, con l’esistenza di altre contrastanti dichiarazioni… rese dalla stessa il 24.5.2016 e, d’altro lato, con la sua reale veste di indagata in procedimento connesso o collegato e, quindi, senza ricercare e valorizzare eventuali riscontri interni ed esterni” (pag. 30 del ricorso), neppur’essa può trovare accoglimento. Tale censura, infatti, tende ad una rinnovazione degli apprezzamenti di fatto operati del giudice di merito che fuoriesce dal perimetro entro il quale l’art. 6061 c.p.p., lett. e), attribuisce alla Corte di cassazione il sindacato sulla motivazione delle sentenze di merito; sul punto deve nuovamente richiamarsi Cass. pen. 13809/15, già sopra citata.

5. Con i motivi ottavo e nono, esposti congiuntamente nel ricorso, la ricorrente lamenta – deducendo la violazione della disciplina processuale di cui all’art. 197 c.p.p., comma 1, lett. a) e b), in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. c), nonchè l’assoluta mancanza di motivazione, in relazione all’art. 606 c.p.p., lett. e) – che la Sezione abbia utilizzato le dichiarazioni rese al PG dalla giornalista C.G., quale persona informata dei fatti, pur essendo costei indagata in due procedimenti penali collegati al procedimento disciplinare in danno dell’incolpata.

I motivi vanno giudicati inammissibili per difetto di specificità, perchè la ricorrente non precisa per quali fatti la Sig.ra C. sarebbe indagata nei procedimenti penali a cui si fa riferimento nel mezzo di gravame, nè precisa se ed in quali termini la pendenza di detti procedimenti a carico della Sig.ra C., ai quali nella impugnata sentenza non si fa alcun cenno, sia stata da lei rappresentata alla Sezione disciplinare.

Peraltro, per ragioni di nomofilachia, il Collegio ritiene opportuno ribadire anche in questa occasione il principio, già affermato da queste Sezioni Unite con la sentenza n. 17585 del 2015, che, in tema di procedimento disciplinare a carico di magistrati, i richiami al codice di procedura penale contenuti nell’art. 16, comma 2 (per l’attività di indagine), e nell’art. 18, comma 4 (per il dibattimento), dal D.Lgs. n. 109 del 2006 devono interpretarsi restrittivamente e solo nei limiti della compatibilità; dovendo, per il resto, applicarsi le regole del codice di procedura civile, sicchè resta esclusa l’applicabilità delle norme del codice di procedura penale sull’assunzione e valutazione delle dichiarazioni rese da persone imputate in procedimenti connessi o di reati collegati, trattandosi di disposizioni riferibili esclusivamente ai rapporti tra procedimenti penali, le cui specifiche finalità giustificano limitazioni all’acquisizione della prova in deroga al principio fondamentale di ricerca della verità materiale.

6. Con il decimo motivo di ricorso, la Dott.ssa R. si duole della mancata assunzione della prova decisiva, ammessa dal giudice disciplinare ma poi revocata nel corso del dibattimento, rappresentata dall’escussione della teste Am. in merito ad un asserito tentativo di delegittimazione dell’incolpata verificatosi già nell’anno 2010; tale censura viene articolata come vizio di inosservanza di legge ex art. 606, lett. c), in relazione agli artt. 190,493 e 495 c.p.p., e come vizio di mancata assunzione di una prova decisiva ex art. 606 c.p.p., lett. d); nonchè sotto il profilo della nullità, per omessa motivazione ex art. 125 c.p.p., dell’ordinanza di revoca del teste, emessa all’udienza del 14.5.18.

Il motivo va rigettato per difetto di decisività delle circostanze capitolate nella prova testimoniale deferita alla teste Am., riportata a pagina 33 del ricorso. Va qui ribadito, infatti, il principio espresso in Cass. pen. 13095/17 secondo cui il potere giudiziale di revoca, per superfluità, delle prove già ammesse è, nel corso del dibattimento, più ampio di quello esercitabile all’inizio del dibattimento stesso, momento in cui il giudice può non ammettere soltanto le prove vietate dalla legge o quelle manifestamente superflue o irrilevanti; con la conseguenza che la censura di mancata ammissione di una prova decisiva si risolve, una volta che il giudice abbia indicato in sentenza le ragioni della revoca della prova già ammessa, in una verifica della logicità e congruenza della relativa motivazione, raffrontata al materiale probatorio raccolto e valutato. D’altra parte, come pure già chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. pen. 6783/14), deve ritenersi “decisiva”, secondo la previsione dell’art. 606 c.p.p., lett. d), la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale da dimostrare che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia; ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante.

7. I motivi undicesimo e dodicesimo, esposti congiuntamente nel ricorso, sono riferiti, rispettivamente, al vizio di inosservanza o erronea applicazione di legge di cui all’art. 606 c.p.p., lett. b), in relazione al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis, ed al vizio di mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), con riferimento al mancato riconoscimento dell’esimente della scarsa rilevanza del fatto addebitato all’incolpata.

I motivi vanno rigettati perchè, come queste Sezioni Unite hanno già avuto modo di chiarire con la sentenza n. 1929/18, l’apprezzamento che il fatto astrattamente integrativo dell’illecito disciplinare non risulti, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, concretamente capace di ledere il bene giuridico tutelato (nel che si sostanzia l’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis) costituisce compito esclusivo della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, soggetto a sindacato di legittimità soltanto ove viziato da un errore di impostazione giuridica oppure motivato in modo insufficiente od illogico.

Nella specie, la sentenza impugnata non contiene errori di impostazione giuridica, nè la relativa motivazione può ritenersi illogica, laddove assume che la “gravità dei fatti” ha “inevitabilmente finito per inficiare l’immagine del magistrato” (pag. 9, penultimo cpv).

Quanto alla doglianza concernente il silenzio della Sezione disciplinare sulle dichiarazioni rese al Presidente della corte di appello dai rappresentati dell’Ordine degli avvocati e della Camera penale e sul parere reso dal Consiglio Giudiziario per la V valutazione di professionalità della Dott.ssa R., il Collegio rileva che si tratta di risultanze processuali prive di decisività, con conseguente irrilevanza dell’omissione motivazionale sul punto (si veda, ancor una volta, Cass. pen. 13809/15, reiteratamente citata).

In definitiva il ricorso va rigettato in relazione a tutti i motivi in cui esso si articola.

Non vi è luogo a regolazione di spese, nè – ratione materiae – al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 26 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2019

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