Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.12150 del 08/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30017/14 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– ricorrente –

contro

VILLA MARINA S.R.L., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa, giusta procura in calce al controricorso, dall’avv. Giovanni Corbyons, con domicilio eletto in Roma, via Cicerone, n. 44;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria regionale della Lombardia n. 2340/44/14 depositata in data 8 maggio 2014;

udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 28 marzo 2019 dal Consigliere Dott.ssa Condello Pasqualina Anna Piera.

RILEVATO

che:

L’Agenzia delle Entrate proponeva appello avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale pronunciata nell’ambito di giudizio concernente l’impugnazione del provvedimento del Direttore Regionale n. 9043-1188/2012 del 24 settembre 2012 di rigetto dell’istanza di disapplicazione di norme antielusive presentato ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, comma 8, relativo all’anno d’imposta 2001, che aveva accolto le ragioni della società Villa Marina s.r.l., sul presupposto che quest’ultima avesse giustificato che la sua inoperosità era diretta conseguenza del ritardo nella concessione delle autorizzazioni amministrative, da parte della Regione Lombardia, necessarie per la realizzazione di un porto nautico turistico sul Lago Maggiore, nel Comune di *****.

La Commissione tributaria della Lombardia, con la sentenza indicata in epigrafe, disattendeva la eccezione di inammissibilità del ricorso, aderendo all’orientamento consolidato di questa Corte, secondo cui il diniego del Direttore dell’Agenzia delle Entrate ad istanza di interpello disapplicativo D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 37-bis, comma 8, costituisce atto di diniego di agevolazione fiscale, soggetto ad autonoma impugnazione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19,comma 1, lett. h), e riconosceva sussistente l’interesse ad agire della contribuente.

Quanto al merito, rilevava che la società aveva provato di non avere ancora iniziato l’attività imprenditoriale e, dunque, di non essere una società inattiva, “avendo compiuto tutti gli atti economici propri di una attività commerciale e dimostrato l’assenza di un intento elusivo nell’utilizzo di una struttura societaria”.

Ricorre per la cassazione della suddetta decisione l’Agenzia delle Entrate, con sei motivi.

La contribuente resiste mediante controricorso e deposita memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, della L. n. 212 del 2000, art. 11, della L. n. 724 del 1994, art. 30 e dell’art. 100 c.p.c. e censura la sentenza impugnata per avere il giudice di merito affermato che il provvedimento L. n. 724 del 1994 ex art. 30, comma 4-quater, del Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate, con il quale è stata respinta l’istanza ex art. 30, comma 4-bis, della contribuente – di disapplicazione della normativa delle società di comodo – sia atto autonomamente impugnabile dinanzi alla Commissione tributaria.

Dopo avere esaminato i precedenti di questa Corte in merito alla immediata impugnabilità del diniego dell’istanza di disapplicazione del regime sulle società inoperative, la ricorrente sostiene che l’interpello D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 37-bis, non costituisce presupposto necessario per poter far valere il diritto alla disapplicazione della norma antielusiva e che il rigetto dell’interpello non va impugnato necessariamente, poichè non vincola il contribuente e perchè la mancata impugnazione del rigetto dell’istanza non genera alcun effetto preclusivo per il contribuente, che, in sede contenziosa, può addurre diversi e nuovi motivi rispetto a quelli fatti valere in sede amministrativa. Aggiunge che va escluso che si sia in presenza di un provvedimento equiparabile al diniego di agevolazione fiscale e di una determinazione negativa riconducibile ad una delle categorie di atti elencate nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19,sottolineando che, rigettata l’istanza, non può dirsi certo nell’an che l’Ufficio procederà ad accertamento in base alle presunzioni di cui all’art. 30, comma 3, citato, atteso che lo stesso comma 3 prevede che resta fermo l’ordinario potere di accertamento.

1.1. Il motivo è infondato.

1.2. Secondo l’orientamento di questa Corte “in tema di contenzioso tributario, l’elencazione degli atti impugnabili contenuta nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, ha natura tassativa, ma non preclude la facoltà di impugnare anche altri atti, ove con gli stessi l’Amministrazione porti a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, esplicitandone le ragioni fattuali e giuridiche, siccome è possibile un’interpretazione estensiva delle disposizioni in materia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente (artt. 24 e 53 Cost.) e di buon andamento dell’amministrazione (art. 97 Cost.), ed in considerazione dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448” (Cass. n. 13963 del 5 giugno 2017; n. 11929 del 28 maggio 2014).

1.3. E’ stata, in particolare, riconosciuta la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dall’ente impositore che, esplicitando concrete ragioni (fattuali e giuridiche) che la sorreggono, porti, comunque, a conoscenza del contribuente una ben individuata pretesa tributaria, senza necessità di attendere che la stessa, ove non sia raggiunto lo scopo dello spontaneo adempimento cui è naturaliter preordinata, si vesta della forma autoritativa di uno degli atti dichiarati espressamente impugnabili dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19: sorge, infatti, in capo al contribuente destinatario, già al momento della ricezione della notizia, l’interesse, ex art. 100 c.p.c., a chiarire, con pronuncia idonea ad acquisire effetti non più modificabili, la sua posizione in ordine alla stessa e, quindi, ad invocare una tutela giurisdizionale, comunque, di controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva (e/o dei connessi accessori vantati dall’ente pubblico) (Cass. n. 17010 del 5 ottobre 2012).

1.4. Ne consegue che il contribuente ha la facoltà, non l’onere, d’impugnazione di atti diversi da quelli specificamente indicati nel citato art. 19, il cui mancato esercizio non determina alcuna conseguenza sfavorevole in ordine alla possibilità di contestare la pretesa tributaria in un secondo momento; ciò comporta che la mancata impugnazione da parte del contribuente di un atto non espressamente indicato dall’art. 19 citato non determina, in ogni caso, la non impugnabilità (ossia la cristallizzazione) di questa pretesa, che può essere successivamente reiterata in uno degli atti tipici previsti dallo stesso art. 19 (in termini, Cass. n. 21045 del 8/10/2007; Cass. Sez. U, n. 10672 del 11/5/2009; Cass. n. 27385 del 18/11/2008; Cass. n. 14373 del 15/6/2010; Cass. n. 8033 del 7/4/2011; Cass. n. 10987 del 18/5/2011; Cass. n. 16100 del 22/7/2011).

1.5. Il contribuente ha dunque facoltà di impugnare il diniego del Direttore Regionale dell’Agenzia delle Entrate di disapplicazione di norme antielusive D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ex art. 37-bis, comma 8, atteso che lo stesso non è atto rientrante nelle tipologie elencate dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, ma provvedimento con cui l’Amministrazione porta a conoscenza del contribuente, pur senza efficacia vincolante per questi, il proprio convincimento in ordine ad un determinato rapporto tributario (Cass. n. 3775 del 15/2/2018).

1.6. Come è stato chiarito da questa Corte con sentenza n. 17010 del 5 ottobre 2012, “A tale conclusione inducono vari elementi, i quali escludono che all’atto de quo possa attribuirsi natura meramente endoprocedimentale o di semplice parere interpretativo (al pari di una circolare). L’istanza, infatti, è obbligatoria; deve contenere la descrizione compiuta della fattispecie concreta; deve essere corredata dalla documentazione rilevante; è soggetta a richieste istruttorie; è rivolta ad ottenere un atto dell’Amministrazione, sia esso da intendere come una sorta di “autorizzazione alla disapplicazione” della specifica norma antielusiva in questione, sia, piuttosto, come sembra più corretto anche in base alla disciplina della materia, quale atto, esso stesso, di esercizio del potere di disapplicazione (che spetta all’amministrazione e non al contribuente); le “determinazioni del direttore generale delle Entrate sono comunicate al richiedente mediante servizio postale, in plico raccomandato con avviso di ricevimento, con “provvedimento” “da ritenersi definitivo” (D.M. n. 259 del 1998, art. 1, in specie commi 4 e 6). In sostanza, la risposta all’interpello, positiva o negativa, costituisce il primo atto con il quale l’amministrazione, a seguito di una fase istruttoria e di una valutazione tecnica, e con particolari garanzie procedimentali, porta a conoscenza del contribuente, in via preventiva, il proprio convincimento in ordine ad una specifica richiesta, relativa ad un determinato rapporto tributario, con l’immediato effetto di incidere, comunque, sulla condotta del soggetto istante in ordine alla dichiarazione dei redditi in relazione alla quale l’istanza è stata inoltrata”.

1.7. Sulla base dei superiori principi, ai quali il Collegio intende dare continuità, la società contribuente aveva, dunque, un interesse qualificato, ai sensi dell’art. 100 c.p.c., ad insorgere contro un atto che non era meramente consultivo, ma che aveva una sua lesività, e, quindi, ad invocare il controllo giurisdizionale sulla legittimità dell’atto in esame (Cass. 17010 del 5 ottobre 2012; Cass. 23469 del 6 ottobre 2017).

1.8. Va, infine, chiarito che l’omessa impugnazione dell’atto di diniego non pregiudica in alcun modo la posizione del contribuente che ad esso non ritenga di adeguarsi, poichè si tratta di atto privo di efficacia vincolante.

Infatti, la risposta all’interpello non impedisce in primo luogo all’Amministrazione di rivalutare – in sede di riesame della dichiarazione dei redditi o dell’istanza di rimborso – l’orientamento (negativo) precedentemente espresso, nè al contribuente di esperire la piena tutela in sede giurisdizionale nei confronti dell’atto tipico che gli venga notificato; ovviamente la risposta positiva del direttore generale impedisce, invece, all’Amministrazione – sempre che i fatti accertati in sede di controllo della dichiarazione corrispondano a quelli rappresentati nell’istanza l’applicazione della norma antielusiva oggetto delll’interpello, in applicazione del principio di tutela dell’affidamento, che ha diretto fondamento costituzionale e carattere generale anche nell’ordinamento tributario, nel quale trova espresso riconoscimento nella L. n. 212 del 2000, art. 10.

2. Con il secondo motivo, denunciando nullità della sentenza impugnata per inosservanza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui i giudici regionali hanno affermato “E’ appena il caso di precisare, poi, che il ritardo dell’avvio del programma e delle cause che lo hanno provocato è ininfluente….in quanto i mezzi di prova non sono limitati alle solo situazioni oggettive ma anche a situazioni non imputabili alla ricorrente”, la ricorrente lamenta che la sentenza è contraddittoria, poichè dapprima sostiene che le cause che hanno determinato il ritardo nell’avvio dell’attività sono ininfluenti e immediatamente dopo che possono utilmente provarsi cause oggettive di ritardo.

3. Con il terzo motivo censura la sentenza impugnata per inosservanza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nella parte in cui i giudici regionali hanno indicato una serie di fatti, a loro giudizio, decisivi per il rigetto dell’appello (ossia l’ottenimento, da parte della società, solo in data 14 giugno 2013, dell’area per realizzare l’intervento, la prova offerta dalla società di avere compiuto tutti gli atti economici propri di un’attività di natura imprenditoriale e commerciale e l’assenza di un intento elusivo), senza chiarire le fonti e le ragioni del convincimento espresso.

4. Con il quarto motivo, si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 724 del 1994, art. 30.

L’Agenzia delle Entrate sostiene che la Commissione regionale ha errato laddove ha ritenuto che, ai fini della disapplicazione dell’art. 30 citato, fosse sufficiente dimostrare di non avere ancora iniziato l’attività imprenditoriale progettata e di avere compiuto tutti gli atti economici propri di un’attività commerciale, senza considerare che occorreva provare che il mancato conseguimento di elementi positivi di reddito fosse dipeso da situazioni oggettive.

5. Con il quinto motivo, si deduce nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Nel sottolineare che la contribuente nel ricorso di primo grado aveva indicato come ragione giustificatrice del ritardo nell’inizio dell’esercizio dell’attività imprenditorialre soltanto la carenza di autorizzazioni amministrative per la realizzazione del porto turistico, evidenzia che solo in sede di appello la società ha dedotto, per la prima volta, una nuova causa di ritardo nell’esercizio dell’attività di impresa, ossia il fatto che l’area era stata consegnata solo in data 14 giugno 2013; poichè i giudici d’appello hanno fondato la decisione solo sul fatto che l’area è stata consegnata in ritardo, ad avviso della ricorrente, la sentenza sarebbe nulla.

6. Con il sesto motivo, la difesa erariale deduce nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 ed assume che, qualora la sentenza debba essere intesa nel senso che la Commissione regionale abbia ritenuto che la consegna dell’area in data 14 giugno 2013 integra fatto non imputabile alla contribuente, la motivazione resa sarebbe meramente apparente.

7. Il secondo, il terzo ed il sesto motivo, che vanno esaminati preliminarmente in quanto denunciano errores in procedendo, sono infondati.

7.1. Si ha motivazione omessa o apparente quando il giudice di merito omette di indicare, nel contenuto della sentenza, gli elementi da cui ha desunto il proprio convincimento ovvero, pur individuando questi elementi, non procede ad una loro disamina logico-giuridica, non esplicitando il percorso argomentativo seguito (Cass. n. 16736 del 27/7/2007).

Come è stato chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, la motivazione è solo “apparente” e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016).

Nel caso in esame, la Commissione regionale, seppure in maniera sintetica, ha ritenuto di rigettare l’appello dell’Ufficio e di confermare la sentenza di primo grado che aveva ritenuto immotivata ed ingiustificata la pretesa dell’Amministrazione, sul presupposto che la società contribuente avesse dimostrato la sussistenza dei presupposti per la disapplicazione della normativa in materia di società di comodo; trattasi di motivazione che non può considerarsi apparente, in quanto esplicita le ragioni del decisum.

Eventuali profili di apoditticità della motivazione, che pure sono stati censurati con i mezzi di ricorso in esame, non sono idonei a viziare la motivazione in modo così radicale da renderla meramente apparente, sicchè non può escludersi che la motivazione assolva alla funzione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36.

8. Il quarto motivo è inammissibile e va rigettato.

8.1. La ricorrente, assumendo che, ai fini dell’applicazione dell’esimente di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 30, la contribuente avrebbe dovuto dimostrare il mancato conseguimento di elementi positivi di reddito nella misura minima di legge per ragioni obiettive – prova che, nel caso di specie, non sarebbe stata offerta – non denuncia un vizio di violazione di legge, ma sollecita una nuova valutazione delle circostanze di fatto già operata dai giudici di merito e preclusa in sede di legittimità.

8.2. La Commissione regionale, sul punto, ha così motivato: “…la società è stata costituita nel 2009 con lo scopo di realizzare un porto turistico lacuale e soltanto in data 14 giugno 2013 ha ottenuto con atto pubblico l’assegnazione dell’area e iniziato i lavori di adeguamento dell’immobile da adibire a ristorante, per cui annualmente non ha potuto conseguire alcun reddito di esercizio, ma solo costi di costituzione e impianti, nè poteva trarre benefici fiscalmente ammissibili dagli immobili posseduti ma inattivi, per cui nei suoi confronti non può presupporsi l’esistenza di un reddito presunto in quanto i beni non sono ancora suscettibili di originare ricavi… La società ha, pertanto, provato di non avere ancora iniziato l’attività imprenditoriale oggetto della sua attività e, dunque, di non essere una società inattiva avendo compiuto tutti gli atti economici propri di un’attività commerciale ed imprenditoriale e dimostrato l’assenza di un intento elusivo nell’utilizzo di una struttura societaria. E’ appena il caso di precisare, poi, che il ritardo nell’avvio del programma e delle cause che lo hanno provocato è ininfluente ai fini della decisione, in quanto i mezzi di prova non sono limitati alle sole situazioni oggettive ma anche alle situazioni non imputabili alla ricorrente e quello che rileva ai fini fiscali è la capacità che hanno i beni utilizzati dalla società di produrre reddito imponibile”.

I giudici d’appello, con apprezzamento di fatto, hanno dunque ritenuto che la contribuente abbia fornito dimostrazione della ricorrenza di ragioni obiettive, o comunque ad essa non imputabili, della impossibilità di svolgere l’attività imprenditoriale e tale giudizio non è sindacabile in questa sede.

9. Neppure il quinto motivo può essere accolto.

9.1. Diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente, la Commissione regionale non ha fondato la decisione su una domanda nuova, considerato che la contribuente in grado di appello si è limitata a dimostrare, mediante la produzione della relativa documentazione, come il mancato inizio dell’esercizio dell’attività imprenditoriale fosse stato determinato anche dal ritardo con il quale era stata consegnata l’area su cui avrebbe dovuto realizzarsi l’opera e, quindi, a provare che le ragioni che impedivano l’attività erano imputabili alla Pubblica Amministrazione e non dipendevano, come sostenuto dall’Ufficio, dalla mancata presentazione della V.I.A. (Valutazione Impatto ambientale).

La circostanza di fatto introdotta in grado di appello non ha comportato un ampliamento della materia del contendere, nè tanto meno è fondata su una causa petendi diversa da quella dedotta nell’originario ricorso del contribuente e non è pertanto ravvisabile violazione del divieto di proporre nuove eccezioni in grado di appello.

Infatti, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale, mentre non si estende alle eccezioni improprie o alle mere difese e, cioè, alla contestazione dei fatti costitutivi del credito tributario o delle censure del contribuente, che restano sempre deducibili (Cass. n. 31224 del 29 dicembre 2017).

In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

Infatti, nei casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile, l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (Cass. n. 1778 del 29/01/2016).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 28 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019

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