LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 1481-2018 proposto da:
S.D., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SALLUSTIO 9, presso lo studio dell’avvocato LORENZO SPALLINA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO BOMBACCI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI MONTALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in *****, presso lo studio dell’avvocato ANDREA VARANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTO NICCOLAI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1082/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 26/10/2017 R.G.N. 1089/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/02/2019 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO PAOLA, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato LORENZO SPALLINA;
udito l’Avvocato ANDREA MELUCCO per delega verbale Avvocato ANDREA VARANO.
FATTI DI CAUSA
1.1. Con ricorso al Tribunale di Pistoia S.D., architetto dipendente del Comune di Montale come funzionario tecnico, 8a qualifica funzionale, impugnava il licenziamento intimatole in data 19.1.2010 all’esito del procedimento disciplinare con il quale le era stata contestata la violazione del dovere di diligente collaborazione nell’incarico affidatole di Responsabile unico del procedimento per i lavori di realizzazione di una cucina centralizzata a centrale termica della mensa scolastica delle scuole di infanzia nel Comune di Montale.
1.2. Il Tribunale, con decisione confermata dalla Corte di appello di Firenze, accoglieva la domanda e disponeva la reintegrazione della S. ritenendo che il potere disciplinare fosse stato esercitato tardivamente in violazione dell’art. 24 del c.c.n.l. Enti locali.
1.3. Con sentenza di questa Corte n. 1857/2016 la decisbne di secondo grado veniva cassata per essere stato considerato violato il termine di venti giorni previsto per la contestazione disciplinare per il solo fatto che nel marzo 2009 vi era stata una denuncia penale, senza che fosse accertato da quale organo la stessa era stata presentata e se ne erano stati formalmente informati, e quando, gli uffici competenti ad attivare il procedimento disciplinare. La causa era, pertanto, rimessa alla Corte d’appello di Firenze in diversa composizione per un’analisi della sequenza procedimentale con applicazione dell’affermato principio di diritto secondo il quale: “In tema di procedimento disciplinare nel rapporto di pubblico impiego contrattualizzato, ai sensi dell’art. 24 del c.c.n.l. del 22.1.2004 (normativa 2002 – 2005 economico 2002 – 2003) degli Enti Locali, la data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, dalla quale decorre il termine di venti giorni, entro il quale deve essere effettuata la contestazione disciplinare, coincide con quella in cui la notizia è pervenuta all’ufficio per i procedimenti disciplinari o, se anteriore, con la data in cui la notizia medesima è pervenuta al responsabile della struttura in cui il dipendente lavora, restando irrilevante la conoscenza non formalmente acquisita dal Responsabile della struttura e/o dall’Ufficio per i procedimenti disciplinari”.
1.4. Decidendo in sede di rinvio la Corte d’appello di Firenze accoglieva l’impugnazione del Comune di Montale e respingeva l’azionata domanda condannando la S. alla restituzione di quanto ricevuto a titolo di risarcimento.
Riteneva la Corte territoriale che il termine di venti giorni previsto dal c.c.n.l. entro il quale effettuare la contestazione disciplinare dovesse decorrere dalla comunicazione del 19 ottobre 2009 inviata dal Responsabile della struttura alla Commissione di disciplina e che pertanto la contestazione del 4/11/2009 fosse tempestiva.
Quanto al merito riteneva il licenziamento del tutto legittimo per essere emerso con chiarezza il comportamento inadempiente dell’arch. S. che non aveva intrapreso alcuna iniziativa in ordine all’incarico da svolgere benchè fossero trascorsi 15 mesi dall’affidamento dello stesso e nonostante plurime sollecitazioni cui la medesima, senza fornire adeguate risposte, aveva opposto problematiche personali (ufficio in dotazione, modalità di consegna della corrispondenza).
Escludeva ogni rilevanza della questione relativa alla pretesa illegittimità dell’incarico posto che la lavoratrice lo aveva formalmente accettato così vincolandosi al suo espletamento.
Rilevava che il comportamento della S. fosse stato accertato anche in sede penale essendo stata la predetta condannata per il reato di interruzione di un ufficio o un servizio pubblico (art. 340 c.p.) in primo e in secondo grado e che anche la sentenza della Cassazione penale, pur mandandola assolta, non aveva smentito la ricostruzione in fatto oggetto delle pronunce di merito avendo dato atto della paralisi della procedura causata dalla sua prolungata e tuttavia ritenuto non configurabile il reato di cui all’art. 340 c.p. nell’ipotesi in cui il servizio pubblico nel suo complesso continui a funzionare regolarmente adempiendo allo scopo per il quale è stato predisposto.
Riteneva che il comportamento contestato costituisse giustificato motivo soggettivo di licenziamento traducendosi in un reiterato e consapevole inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione e dei doveri che ne derivano e richiamava, ai fini della proporzionalità, l’art. 3, comma 7, lett. e), i) e j) del c.c.n.l..
2. Per la cassazione di questa pronuncia ha proposto ricorso Damiana S. affidato a sette motivi.
3. Il Comune di Montale ha resistito con controricorso.
4. Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. In via preliminare, deve osservarsi che non si ravvisano profili di incompatibilità nei confronti di alcuni componenti del collegio che hanno esaminato il precedente ricorso per Cassazione nell’ambito del medesimo giudizio (sentenza n. 1857/2016). Come hanno avuto modo di sottolineare le Sezioni Unite di questa Corte, il giudizio di legittimità non si riferisce direttamente alla domanda proposta dall’attore, bensì alla decisione già assunta su tale domanda al fine di verificarne, appunto, la correttezza; pertanto, qualora una sentenza pronunciata dal giudice di rinvio formi oggetto di un nuovo ricorso per cassazione, il collegio può essere composto anche con magistrati che abbiano partecipato al precedente giudizio conclusosi con la sentenza di annullamento, ciò non determinando alcuna compromissione dei requisiti di imparzialità e terzietà del giudice (v. Cass., Sez. U., 25 maggio 2013, n. 24148). Le Sezioni Unite hanno, invero, ritenuto che non sussiste la concreta possibilità che il giudice che abbia partecipato al precedente giudizio di legittimità sia meno libero di decidere o sia condizionato dalla volontà di difendere la precedente decisione di legittimità.
2. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione o comunque falsa applicazione dell’art. 24 del c.c.n.l. del personale del comparto Regioni ed Autonomie Locali (quadriennio normativa 2002-2005/2006-2009).
Insiste nel ritenere che il termine di venti giorni di cui all’art. 24 del c.c.n.l. dovesse decorrere dal 27 marzo 2009, data dell’esposto alla Procura sostenendo che la comunicazione del 19 ottobre 2009, con cui il Responsabile della struttura, geom. M., a seguito della missiva dell’11/10/2009 dell’arch. Ma. (datata 9/11/2009), aveva informato la commissione di disciplina era solo apparentemente formale ma assolutamente tardiva e oltretutto irrilevante tenuto conto che l’arch. Ma. era soggetto privo di legittimazione in quanto privo di incarico da parte del Comune (circostanza, questa, che non poteva giustificare il ritardo nella contestazione).
Rileva che il geom. M. era a conoscenza dei fatti almeno dal 19 marzo 2009 e cioè da quando aveva rilasciato apposite dichiarazioni come persona informata all’avv. L., verbale poi trasmesso alla Procura della Repubblica e che di tali fatti era anche a conoscenza il Dott. Z., Segretario generale e Presidente dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari che aveva presenziato alla seduta della giunta comunale n. 42 del 5/3/2009 con cui era stato affidato all’avv. L. l’incarico di assumere informazioni al fine di verificare se il comportamento della S. rivestisse caratteri di rilievo penale.
Sostiene che la Corte territoriale, nel fondare il proprio convincimento solo sulla comunicazione del 19/10/2009, avrebbe tralasciato la documentazione relativa ai fatti sopra indicati, dotata di ufficializzazione e formale protocollazione.
Richiama l’art. 26 del c.c.n.l. e rileva che, alla luce di tale disposizione, nel caso di commissione di gravi fatti di rilevanza penale l’ente deve contestualmente promuovere l’azione disciplinare, salvo poi sospendere il procedimento.
3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione o comunque falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 384 c.p.c., comma 2.
Lamenta che la Corte territoriale avrebbe violato il principio di diritto di cui alla sentenza rescindente di questa Corte avendo in particolare omesso di considerare il momento, anteriore, in cui la notizia medesima era in effetti pervenuta al Responsabile della struttura e di verificare se la conoscenza di tale notizia fosse emersa da atti formali.
Deduce che se la Corte territoriale avesse osservato il principio di diritto suddetto non avrebbe non potuto non considerare che la suddetta conoscenza da parte del geom. M., Responsabile della struttura, risaliva al marzo del 2009 (quando egli stesso la aveva creata esponendola con dovizia di particolari all’avv. L.) ed era fornita dei requisiti formali necessari.
4. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5.
Censura la sentenza impugnata per aver trascurato di considerare quando il Responsabile della struttura, geom. M. ed il Presidente dell’ufficio competente per i procedimenti disciplinari, Dott. Z., avessero acquisito formalmente piena conoscenza della notizia dell’infrazione, conoscenza evincibile dai doc. 11-14 allegati al ricorso di primo grado e cioè da atti formali e protocollati.
5. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5.
Censura la sentenza impugnata per aver valorizzato la comunicazione effettuata dall’arch. Ma. indicata come datata 11/10/2009 (mentre la data era 9/10/2009) senza considerare che il Ma. non aveva alcun titolo per avanzare richieste all’arch. S. e per segnalare alcunchè.
6. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia violazione o comunque falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione al principio dell’onere della prova art. 2967 c.c. in relazione all’art. 115 c.p.c., comma 1, ed alla L. n. 604 del 1966, art. 5.
Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto soddisfatto dal Comune l’onere sullo stesso gravante di provare l’inadempimento della ricorrente.
Rileva che la Corte territoriale avrebbe erroneamente attribuito rilevanza all’esito del giudizio relativo al demansionamento subito dalla S. (avente ad oggetto fatti non posti dal Comune a fondamento del provvedimento espulsivo) e alla sentenza penale di questa Corte di Cassazione (che aveva assolto la S. perche il fatto non sussiste) e per aver ritenuto irrilevanti le circostanze addotte dall’incolpata con riferimento all’incarico di RUP in relazione al quale erano stati mossi gli addebiti e che era stato accettato dalla S. con riserve formalmente espresse, incarico che non era stato correttamente attribuito e che in conseguenza non poteva essere adempiuto secondo le aspettative del Comune, non essendovi i presupposti per mandare avanti la pratica.
Sottolinea che l’ATI Lo., Ma., P. non aveva ricevuto alcun incarico di progettazione dal Comune di Montale e dunque non aveva titolo a chiedere informazioni alla S. (l’incarico formale era stato infatti disposto con Delib. n. 45 del 2010, successiva alla revoca della S. quale RUP).
7. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione agli artt. 2118-2119 c.p.c., all’art. 2106 c.c. (c.d. principio di proporzionalità) ed alla L. n. 300 del 1970, art. 7 e all’art. 3 del c.c.n.l. 11/4/2008.
Sostiene che l’intero procedimento disciplinare era basato su un presupposto erroneo e cioè l’esistenza di un obbligo della S. di collaborare con l’arch. Ma. e con l’ATI.
Evidenzia che la sua nomina a RUP era illegittima ed inefficace in quanto non disposta, come avrebbe dovuto, dal dirigente dell’Ente, ma avvenuta con delibera della G.C. e cioè di un soggetto incompetente e quindi in violazione del D.Lgs. n. 163 del 2006, art. 10.
Rileva che la sua nomina era stata deliberata quando il progetto esecutivo era stato già approvato e dunque in violazione del principio di unicità del responsabile del procedimento.
Sostiene che tale nomina illegittima non poteva aver prodotto obblighi in capo al soggetto nominato.
Rileva altresì che per tutto il tempo in cui la S. era stata RUP, l’ATI non aveva alcun incarico da parte del Comune di Montale quindi la ricorrente non era tenuta in alcun modo a rapportarsi con l’arch. Ma. nè era configurabile una mancanza di collaborazione rispetto ad un soggetto che non aveva alcun ruolo all’epoca dei fatti.
Censura ulteriormente la sentenza impugnata per aver ritenuto la proporzionalità della sanzione espulsiva e rileva che, come pure accertato in sede penale, non si era verificata alcuna conseguenza pregiudizievole sull’andamento del servizio.
8. Con il settimo motivo la ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., n. 5.
Censura la sentenza impugnata per non aver tenuto in alcun conto quanto evidenziato dalla S. in sede di giustificazione circa la rappresentata mancanza di disponibilità di strumenti idonei per operare proficuamente nel senso richiesto nell’interesse dell’amministrazione.
9. Il primo e il secondo motivo, da trattarsi congiuntamente in ragione dell’intrinseca connessione, sono infondati.
La Corte territoriale ha deciso la questione di diritto riferita all’interpretazione dell’art. 24 del c.c.n.l. Comparto Regioni ed Autonomie locali correttamente applicando il principio di diritto affermato da questa Corte in sede di giudizio rescindente e verificando la data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, da cui far decorrere il termine di venti giorni per effettuare la contestazione disciplinare.
A tal fine ha evidenziato che solo a seguito della missiva con la quale, per il tramite dell’arch. Ma., l’impresa esterna affidataria dei lavori in questione aveva formalmente segnalato in data 11/10/2009 al Responsabile della struttura il protrarsi dell’inerzia dell’arch. S., il suddetto Responsabile, geom. M., aveva a sua volta formalmente segnalato in data 19 ottobre 2009 all’Ufficio per i procedimenti disciplinari il non più tollerabile inadempimento della lavoratrice.
Nè fondatamente oppone la ricorrente una pretesa retrodatazione della prima e della seconda segnalazione ad atti (doc. 11-14 allegati al ricorso di primo grado) che assume essere atti formali e protocollati denotanti l’integrazione del requisito richiesto in sede del principio di diritto.
La Corte territoriale ha espresso il giudizio devolutole correttamente considerando che, alla stregua di quanto precisato da questa Corte nella decisione resa in sede rescindente, la conoscenza della notizia dei fatti disciplinarmente rilevanti, per essere correlata ad una serie di attività, da realizzarsi dall’organo competente nella sua istituzionale consistenza, postula un’attività di ufficializzazione della notizia dell’infrazione, anche attraverso un autonomo sistema di formale protocollazione, che è propria dell’Ufficio nel suo complesso, nella sua veste istituzionale, che prescinde dalle attività effettuate e/o ricevute dai singoli componenti dell’organo, sia esso individuale o collegiale.
Quindi ciò che rilevava era la notizia ricevuta ufficialmente e formalmente dal M., nella sua qualità di Responsabile della struttura cui la S. era addetta e dall’Ufficio procedimenti disciplinari, irrilevante essendo la conoscenza appresa da soggetti individuali/persone fisiche (e cioè, nello specifico, dal geom. M. e dal Dott. Z.) non nell’ambito degli indicati ruoli istituzionali (anche collegiali) ancorchè in contesti non privati ma in qualche modo ricollegabili all’attività d’ufficio.
L’attivazione della procedura disciplinare da parte dei soggetti legittimati a farlo ed il ricorso ad atti specificamente formati e protocollati per dare vita al procedimento stesso è, alla stregua del principio di diritto affermato da questa Corte in sede rescindente, requisito indispensabile per il computo del dies a quo.
Ed allora non sussiste il denunciato omesso esame atteso che il fatto storico che sulla base di tale principio di diritto la Corte territoriale era tenuta ad accertare, e cioè la formale acquisizione di una notizia idonea ad una valida contestazione disciplinare da parte del Responsabile della struttura e/o dell’Ufficio per i procedimenti disciplinari, è stato ritualmente preso in considerazione mentre le circostanze poste dalla ricorrente a fondamento del rilievo (e cioè la conoscenza da parte del geom. M., sentito quale persona informata dall’avv. L., della denuncia penale a carico dell’arch. S. fin dal 19/3/2009, prima che la notizia giungesse al medesimo nella sua qualità di Responsabile della struttura e così la conoscenza da parte del Dott. Z. dell’iniziativa del Comune di Montale di affidare all’avv. L. l’incarico di assumere informazioni e svolgere indagini per verificare se il comportamento sino ad allora tenuto dalla S. rivestisse rilievo penale fin dal 5/3/2009, prima che della questione fosse ufficialmente investito l’UPD) non attengono al fatto storico rilevante in causa ma alla valutazione del materiale istruttorio (v. Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053).
Si ricorda, del resto, che a norma dell’art. 384 c.p.c., comma 2, l’enunciazione del principio di diritto vincola il giudice di rinvio che ad esso deve uniformarsi, con conseguente preclusione della possibilità di rimettere in discussione questioni, di fatto o di diritto, che siano il presupposto di quella decisione, e di tenere conto di eventuali mutamenti giurisprudenziali della stessa Corte, anche a Sezioni Unite, non essendo consentito in sede di rinvio sindacare l’esattezza del principio affermato dal giudice di legittimità (cfr. fra le tante Cass. 8 ottobre 1999, n. 11290; Cass. 8 ottobre 1999, n. 16518; Cass. 21 agosto 2004, n. 16518; Cass. 27 ottobre 2010, n. 17353; Cass. 4 febbraio 2015, n. 1995).
La questione, poi, del mancato rispetto dell’art. 26 del c.c.n.l. posta dalla ricorrente (invero con argomentazione ad abundantiam v. pag. 28 del ricorso per cassazione) sotto il profilo della inottemperanza all’obbligo di avviare il procedimento disciplinare, obbligo che si assume contestuale alla denuncia penale (salvo successiva sospensione), è del tutto nuova non risultando esaminata nella sentenza impugnata nè essendo stata allegata l’avvenuta deduzione di tale questione dinanzi al giudice di merito ed indicato in quale atto del giudizio precedente tanto si sia verificato.
10. Il terzo e quarto motivo di ricorso, da trattarsi congiuntamente in quanto intrinsecamente connessi, sono infondati.
Non vi è stato l’omesso esame denunciato in quanto la Corte territoriale ha valutato tanto il fatto costituito dalla validità dell’incarico di RUP all’arch. S., ritenendo irrilevante ogni relativa questione posto che la lavoratrice aveva accettato lo stesso con nota del 3/9/2008 vincolandosi così all’espletamento, quanto quello costituito dalla validità dell’incarico all’arch. Ma. (rispetto alle cui richieste e sollecitazioni si sarebbe configurato l’inadempimento della S.) rilevando che l’incarico a suo tempo affidato all’ATI (arch. Lo. e Ma.) con Delib. Giunta n. 147 del 2007, 4^ premessa, comprendeva l’intera progettazione, e quindi sia la fase preliminare che quella definitiva ed esecutiva, per cui l’approvazione del progetto definitivo non aveva esaurito l’incarico stesso permanendo così per la S. la responsabilità di coordinare risorse interne ed esterne per la realizzazione del progetto esecutivo.
Per il resto il motivo contrappone all’esame della Corte territoriale una propria e diversa lettura degli atti causa ma ciò è inammissibile in sede di legittimità.
11. Il quinto motivo è infondato.
Il rilievo si colloca al di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 360 c.p.c., comma 1 perchè, nonostante il richiamo normativo in esso contenuto, sostanzialmente sollecita una rivisitazione nel merito della vicenda (non consentita in sede di legittimità) affinchè si fornisca un diverso apprezzamento delle prove (Cass., Sez. un., 10 giugno 2016, n. 11892).
Non vi è stata, nella specie, alcuna violazione dell’onere della prova atteso che la Corte territoriale ha ritenuto tale onere adempiuto dal Comune sulla base delle risultanze di causa e degli esiti del procedimento penale.
Qualora poi, per i risultati raggiunti, il giudice di merito abbia ritenuto superflua l’assunzione di ulteriori prove, il relativo giudizio che, se congruamente motivato (ciò potendosi anche desumere, come nella specie, per implicito dal complesso della motivazione), si sottrae al sindacato di legittimità (tra le altre, Cass. 22 aprile 2009, n. 9551; Cass. 10 giugno 2009, n. 13375; Cass. 9 giugno 2016, n. 11810).
Nè è ravvisabile la dedotta violazione dell’art. 115 c.p.c. nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. U., 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892), situazione questa non sussistente nella specie.
Il giudice civile, poi, può legittimamente utilizzare come fonte del proprio convincimento le prove raccolte in un giudizio penale definito con sentenza passata in cosa giudicata e fondare la decisione su elementi e circostanze già acquisiti con le garanzie di legge in quella sede, procedendo a tal fine a diretto esame del contenuto del materiale probatorio, ovvero ricavando tali elementi e circostanze dalla sentenza, o se necessario, dagli atti del relativo processo, in modo da accertare esattamente i fatti materiali sottoponendoli al proprio vaglio critico (v. Cass. 17 giugno 2013, n. 15112; Cass. 12 gennaio 2016, n. 287).
Nella specie la Corte territoriale ha vagliato e valutato in modo autonomo la complessiva condotta dell’arch. S. così come emersa da tutte le risultanze di causa e ritenuto la stessa integrante un grave inadempimento rispetto agli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione.
Rispetto a tale apprezzamento le critiche della ricorrente sostanzialmente invocano una generale rivisitazione delle risultanze istruttorie, il che non è consentito a questa Corte Suprema.
Anche la dedotta irrilevanza dell’esito del giudizio relativo al demansionamento subito dalla S. (avente ad oggetto fatti non posti dal Comune a fondamento del provvedimento espulsivo) si infrange contro il giudizio valutativo dei giudici d’appello che hanno inserito tale circostanza nel più ampio contesto dei rapporti interpersonali tra le parti e di un atteggiamento poco collaborativo della S. (difficile, ostruzionistico ed insofferente).
12. E’ infondato il sesto motivo.
Non vi è stato alcun omesso esame avendo la Corte territoriale espressamente dato conto del giudizio di proporzionalità (v. pag. 8 della sentenza) evidenziando che non fosse ravvisabile alcuna sproporzione tra la gravità della condotta e la sanzione adottata integrando la prima un reiterato e consapevole inadempimento degli obblighi derivanti dal rapporto di lavoro con la Pubblica Amministrazione.
Anche in questo caso le censure della ricorrente si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione dei fatti posti a base dell’indicato giudizio, operazione, questa, riservata al giudice di merito. A ben guardare, infatti, tali censure, nel contestare la persuasività del convincimento fondato dal giudice d’appello sull’esame delle risultanze probatorie e nel contrapporvi la propria tesi difensiva, finisce per attingere il piano della sufficienza motivazionale, ciò che non è più ammesso nel regime di sindacato minimale ex art. 360 c.p.c., n. 5 novellato.
13. E’ infondato il settimo motivo.
Come nel motivo precedente, l’omesso esame denunciato riguarda in realtà una questione di merito non proponibile dinanzi a questa Corte di legittimità.
Peraltro la Corte territoriale, nel ritenere proporzionato il provvedimento espulsivo per la condotta inadempiente come già sopra delineata, ha tenuto conto (v. pag. 6 della sentenza) della posizione difensiva assunta dall’arch. S. considerando anche le risposte dalla medesima fornite alle varie sollecitazioni del Sindaco e del geom. M. e ritenendo che nelle lettere del 13/11/2008, 9/12/2008 e 18/2/2009 la dipendente fosse rimasta concentrata sulle proprie problematiche personali (ufficio in dotazione, modalità di consegna della corrispondenza) piuttosto che fornire adeguata risposta.
Fermo restando che, come già sopra evidenziato, l’omesso esame di elementi istruttori – ai sensi del nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (v. Cass., Sez. U., n. 8053/2014 cit.), le critiche sottopongono alla Corte, nella sostanza, profili relativi al merito della valutazione delle prove, che, come detto, sono insindacabili in sede di legittimità.
14. Conclusivamente il ricorso va rigettato.
15. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza.
16. Va dato atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019
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