LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 15347/2016 proposto da:
D.M., elettivamente domiciliato in Roma, Circonvallazione Clodia, 88, presso lo studio dell’avvocato Arilli Giovanni, rappresentato e difeso dall’avvocato Pennetta Carla, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero Dell’interno, in persona Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1214/2015 della CORTE D’APPELLO di ANCONA;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/02/2019 dal Consigliere Dott. FIDANZIA ANDREA;
udito il Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE IGNAZIO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Bordoni Matteo in delega, per il ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Ancona ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza del 17.11.2014 con cui il Tribunale di Ancona aveva respinto la domanda di D.M. volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.
La Corte d’Appello ha condiviso l’impostazione del giudice di primo grado in ordine alla scarsa credibilità del racconto del ricorrente, che aveva fornito informazioni vaghe, generiche e contraddittorie in relazione alle ragioni dell’arresto ed ai luoghi in cui era stato ristretto nel suo paese d’origine (Senegal).
Il ricorrente non poteva fruire, oltre che del riconoscimento dello status di rifugiato, anche della protezione c.d. sussidiaria, non avendo dato conto del tipo e della durata della pena prevista per i reati allo stesso ascritti nel suo paese, nè aveva fatto menzione di aver subito in carcere trattamenti disumani e degradanti. Infine, il ricorrente non aveva allegato specifiche situazioni soggettive che giustificassero la concessione della protezione umanitaria.
Ha proposto ricorso per cassazione D.M. affidandolo a due motivi. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, di attuazione della direttiva 2004/83/CE.
Lamenta il ricorrente, in particolare, la violazione dell’art., comma 3, lett. a) b) e c) legge citata per mancato esame dei fatti posti a fondamento della domanda di protezione internazionale. Non vi è stato alcun esame dell’attuale situazione politica del luogo di provenienza dell’interessato, ovvero della regione di *****, nè della vicenda personale del ricorrente, liquidata come non veritiera.
Non è stato considerato che il ricorrente è stato oggetto di un provvedimento restrittivo della libertà personale per un fatto, obbligazione risarcitoria, il cui inadempimento non è previsto dalla legge italiana come reato.
La Corte di merito ha errato nel non aver reputato credibile il ricorrente per non aver allegato documentazione a comprova della carcerazione subita.
Non è stato considerato alcun serio indizio della fondatezza del timore del richiedente di subire persecuzioni o del rischio di subire danni gravi in caso ritorno del pase d’origine.
2. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5.
Lamenta il ricorrente che il suo sforzo di circostanziare la domanda è stato interpretato come un maldestro tentativo di innovare la propria vicenda personale.
Si è preteso un onere di allegazione senza acquisire le informazioni generali sulla zona di provenienza dell’interessato.
E’ stato omesso l’esame di un fatto decisivo per il giudizio, ovvero la situazione di violenza indiscriminata che caratterizza il conflitto armato in corso in *****, che determina l’esistenza di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, che non è necessariamente collegata alla sua situazione personale.
La Corte di merito è venuta meno all’obbligo di cooperare nell’accertamento delle condizioni che consentono allo straniero di godere della protezione internazionale.
3. Entrambi i motivi, da esaminarsi unitariamente in ragione della loro stretta connessione, sono fondati.
Va preliminarmente osservato che questa Corte ha già statuito che, in tema di accertamento del diritto ad ottenere una misura di protezione internazionale, il giudice non può formare il proprio convincimento esclusivamente sulla base della credibilità soggettiva del richiedente e sull’adempimento dell’onere di provare la sussistenza del “fumus persecutionis” a suo danno nel paese d’origine (anche nel quadro normativo, applicabile “ratione temporis” vigente prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3), essendo, invece, tenuto a verificare la condizione di persecuzione di opinioni, abitudini, pratiche sulla base di informazioni esterne e oggettive relative alla situazione reale del paese di provenienza, mentre solo la riferibilità specifica al richiedente del “fumus persecutionis” può essere fondata anche su elementi di valutazione personale quali, tra i quali, la credibilità delle dichiarazioni dell’interessato (Sez. 1, Sentenza n. 26056 del 23/12/2010, Rv. 615675).
Nel caso di specie, la Corte di merito, condividendo la valutazione del primo giudice, ha erroneamente esaminato la domanda di protezione sotto l’ottica prevalente della credibilità soggettiva del richiedente, astenendosi dall’acquisire anche in via officiosa complete informazioni e di valutare complessivamente la situazione reale del suo Paese di provenienza (e, in particolare della regione della *****), doveri imposti dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, emanato in attuazione della direttiva 2005/85/CE, norma alla stregua della quale ciascuna domanda deve essere esaminata alla luce di informazioni aggiornate sulla situazione del Paese di origine del richiedente asilo, informazioni che la Commissione Nazionale fornisce agli organi giurisdizionali chiamati a pronunciarsi su impugnazioni di decisioni negative.
Gli obblighi sopra indicati sono stati sanciti anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, che hanno statuito che, in tale materia, anche il giudice deve svolgere un ruolo attivo nella istruzione della domanda di protezione internazionale, del tutto prescindendo dal principio dispositivo proprio del giudizio civile e dalle relative preclusioni, e di contro fondandolo sulla possibilità di acquisizione officiosa di informazioni e documentazione necessarie (in tal senso S.U. n. 27310 del 2008)”.
Inoltre, posto che la stessa sentenza impugnata ha dato atto, nella ricostruzione dei motivi d’appello, che il ricorrente aveva lamentato le condizioni disumane e degradanti del sistema carcerario senegalese, la Corte di merito ha ritenuto, in primo luogo, che l’esistenza delle condizioni per il riconoscimento della condizione di protezione internazionale non può desumersi da “riferimenti indeterminati a situazione generali relative al paese di provenienza, non accompagnati da elementi di maggior dettaglio e da riscontri individualizzanti in modo da consentire un ragionevole collegamento con le vicende personali di chi siffatta protezione invoca”.
E’ stato, altresì, rilevato che “le medesime argomentazioni sono idonee a legittimare, oltre che il mancato riconoscimento dello status di rifugiato, anche quello della protezione sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007”.
Non vi è dubbio che la Corte di merito, con le argomentazioni sopra riportate, abbia, in primo luogo, erroneamente utilizzato gli stessi parametri valutativi nell’esame della domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato e di quella per il conseguimento della protezione sussidiaria, nonostante le differenti caratteristiche dei due istituti.
In proposito, questa Corte ha affermato, anche recentemente, che in materia di riconoscimento della protezione sussidiaria allo straniero, al fine d’integrare i presupposti di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), è sufficiente che risulti provato, con un certo grado di individualizzazione, che il richiedente, ove la tutela gli fosse negata, rimarrebbe esposto a rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti, senza che tale condizione debba presentare i caratteri del “fumus persecutionis”, non essendo necessario che lo straniero fornisca la prova di essere esposto ad una persecuzione diretta, grave e personale, poichè tale requisito è richiesto solo ai fini del conseguimento dello “status” di rifugiato politico (Sez. 6-1, Ordinanza n. 16275 del 20/06/2018, Rv. 649788).
Dunque, se la mancata indicazione di elementi individualizzanti relativi alla propria vicenda personale è rilevante per l’esame della domanda per il riconoscimento dello status di rifugiato, non altrettanto può sostenersi con riferimento alla protezione sussidiaria.
Peraltro, se è pur vero che, come affermato dalla sentenza impugnata, che “il mero riferimento alle precarie condizioni delle carceri senegalesi e dei trattamenti disumani e degradanti che in tali luoghi i detenuti subiscono non è sufficiente a fondare l’accoglimento della domanda”, tuttavia, questa Corte ha già affermato che, in tema di protezione internazionale dello straniero, ai fini dei riconoscimento della misura della protezione sussidiaria, il grave danno alla persona, ai sensi del D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. b), può essere determinato dalla sottoposizione a trattamenti inumani e degradanti con riferimento alle condizioni carcerarie. Ne consegue che il giudice è tenuto a fare uso del potere-dovere d’indagine previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, che impone di procedere officiosamente all’integrazione istruttoria necessaria al fine di ottenere informazioni precise sulla condizione generale attuale del Paese anche sotto quel profilo. (Sez. 6-1, Ordinanza n. 24064 del 24/10/2013, Rv. 628478).
Nè il giudice di merito può, nel caso di specie, escludere tout court il rischio di trattamenti disumani e degradanti nelle carceri senegalesi solo sulla base del rilievo che il ricorrente non avesse dichiarato di aver subito personalmente durante il suo breve periodo di detenzione, durato soltanto due settimane, trattamenti di tale tipo (vedi pag. 7 sentenza impugnata).
La Corte territoriale non ha erroneamente attivato i propri poteri di integrazione istruttoria contemplati dall’art. 8, comma 3 legge citata, limitandosi a rigettare la domanda di protezione in quanto non supportata da riscontri oggettivi.
Deve quindi accogliersi il ricorso, cassarsi la sentenza impugnata e disporsi il rinvio anche per le spese del giudizio di legittimità alla corte d’Appello di Ancona in diversa composizione.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese del giudizio di legittimità alla corte d’Appello di Ancona in diversa composizione.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019