LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9919/2018 proposto da:
D.S., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Fagioli Marcello, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero Dell’interno, in persona Ministro pro tempore;
– intimato –
avverso la sentenza n. 256/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 27/02/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/02/2019 dal consigliere FIDANZIA ANDREA;
udito il Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE IGNAZIO, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito l’Avvocato Fagioli Marcello per il ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di Ancona ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza del 7.11.2016 con cui il Tribunale di Ancona aveva respinto la domanda di D.S. volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.
La Corte d’Appello ha ritenuto che non vi fossero i presupposti per riconoscere all’odierno ricorrente la protezione c.d. sussidiaria sulla base dei comportamenti vessatori che lo stesso aveva subito dallo zio paterno, essendo la sua decisione di lasciare il paese d’origine stata dettata essenzialmente da motivi di natura economica, nè esisteva il rischio di una minaccia grave ed individuale alla sua vita o alla sua persona, non essendovi in ***** in atto un conflitto armato che desse luogo ad una violenza indiscriminata idonea ad incidere sulla sua situazione personale in caso di ritorno nel paese di provenienza. Infine, il ricorrente non aveva allegato nè dimostrato specifiche situazioni soggettive che giustificassero la concessione della protezione umanitaria.
Ha proposto ricorso per cassazione D.S. affidandolo a cinque motivi. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. in relazione alla violazione della Convenzione di Istanbul dell’11 maggio 2011 sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica.
Lamenta il ricorrente che entrambi i giudici di merito hanno dato del comportamento prevaricatorio e violento posto in essere nei suoi confronti dallo zio paterno che lo ha cresciuto, e la violazione della Convenzione sopra citata, come interpretata da questa Corte, rientra tra i trattamenti inumani e degradanti per evitare i quali è accordata la protezione c.d. sussidiaria.
2. Il primo motivo è infondato.
Va osservato che l’art. 2, comma 1 della Convenzione di Istanbul del 11 maggio 2011, ratificata dalla L. 27 giugno 2013, n. 77, ha come campo di applicazione “tutte le forme di violenza contro le donne, compresa la violenza domestica, che colpisce le donne in modo sproporzionato”, l’art. 3 designa come violazione di dritti umani la “violenza nei confronti delle donne”, l’art. 60 sancisce che le Parti adottano le misure legislative o di altro tipo necessarie per garantire che la violenza contro le donne basata sul genere possa essere riconosciuta come una forma di grave pregiudizio che dia luogo alla protezione complementare/sussidiaria.
Se è pur vero che l’art. 2, comma 2 di tale convenzione dispone che le parti contraenti sono incoraggiate ad applicare le disposizioni della convenzione a tutte le vittime della violenza domestica – quindi non solo donne – e l’art. 4 sancisce il diritto di tutti gli individui di vivere liberi dalla violenza, sia nella vita pubblica che privata, tuttavia, è evidente che la Convenzione di Instabul sia incentrata, in particolar modo, sulla tutela della donna che, in quanto soggetto debole, è sovente oggetto di violenza, compresa domestica.
Con riferimento al caso di specie, è indubbio che il ricorrente quando era minore convivente con lo zio paterno, che fungeva da padre, era, in quanto soggetto parimenti debole, esposto alla violenza domestica del parente e quindi meritevole di tutela, anche nella forma contemplata dall’art. 60 della Convenzione.
Tuttavia, allo stato attuale, tenuto conto che lo stesso non solo ha raggiunto la maggiore età, ma – come emerge dalla intestazione del ricorso – ha già 26 anni, la sua posizione, in caso di rimpatrio, non sarebbe in alcun modo assimilabile a quella della donna o di un minore, con conseguente inapplicabilità della Convenzione di Istanbul.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.
Lamenta il ricorrente che in presenza di minaccia di danno grave ad opera di soggetto non statuale – la predetta condotta violenta dello zio paterno – i giudici di merito sono venuti meno all’obbligo di acquisire idonee informazioni per verificare se lo Stato del ***** fosse in grado di fornire adeguata protezione.
4. Il motivo non è fondato.
Va preliminarmente ribadito che, in tema di protezione sussidiaria, in caso di minacce di morte da parte di una setta religiosa, tali minacce integrano gli estremi del danno grave D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14 e non possono essere considerate un fatto di natura meramente privata anche se provenienti da soggetti non statuali, sicchè l’adita autorità giudiziaria ha il dovere di accertare, avvalendosi dei suoi poteri istruttori anche ufficiosi ed acquisendo le informazioni sul paese di origine, l’effettività del divieto legale di simili minacce, ove sussistenti e gravi, ovvero se le autorità del Paese di provenienza siano in grado di offrire adeguata protezione al ricorrente. (cfr. 6 – 1, Ordinanza n. 3758 del 15/02/2018, Rv. 647370 – 01).
Tuttavia, nel caso di specie, dalla ricostruzione dei giudici di merito, non emerge che il ricorrente sia stato oggetto di minacce di morte da parte dello zio, non integrando il comportamento prevaricatorio posto in essere da quest’ultimo nei suoi confronti, verosimilmente legato alla allora sua minore età, una condotta idonea ad arrecare un “danno grave” secondo la nozione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14.
Inoltre, il ricorrente neppure ha dedotto di aver chiesto protezione alle Autorità del paese di provenienza e/o che le stesse non fossero in grado di assicurargli un’adeguata protezione contro gli eventuali comportamenti violenti dello zio.
5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e alla erronea applicazione della direttiva 2004/83/CE.
Lamenta il ricorrente che la Corte di merito, nel ritenere l’insussistenza della minaccia di “danno grave” per essere la situazione di conflittualità limitata alla parte settentrionale del suo Paese d’origine, e non quella centrale e meridionale da cui lo stesso proveniva, era incorsa nell’erronea interpretazione della sopra indicata direttiva.
6. Il motivo è infondato.
Il ragionamento svolto dal ricorrente avrebbe un fondamento ove fosse stato accertato che nella parte di territorio del paese di origine da cui lo stesso proviene vi fosse un pericolo concreto di “grave danno” alla persona ed il giudice di merito gli avesse negato la protezione sul rilievo che avrebbe potuto trasferirsi in altra parte del suo Stato più sicura.
In realtà, nel caso di specie, è stato accertato che la sua regione di provenienza non presenta i paventati pericoli.
In proposito, anche recentemente questa Corte ha statuito che, in tema di protezione internazionale, il riconoscimento dello “status” di rifugiato politico va escluso nell’ipotesi in cui il pericolo di persecuzione non sussiste nella parte di territorio del paese di origine dalla quale proviene il richiedente, essendo tale ipotesi diversa da quella prevista dall’art. 8 della direttiva 2004/83/CE, non recepita nel nostro ordinamento, in cui il pericolo di persecuzione sussiste nel territorio di provenienza, ma potrebbe tuttavia essere evitato con il trasferimento in altra parte del territorio del medesimo paese in cui tale pericolo non sussiste (Sez. 1 -, Ordinanza n. 28433 del 07/11/2018, Rv. 651471 – 01).
Non può quindi essere accolta la doglianza del ricorrente di erronea interpretazione da parte della Corte di merito della citata direttiva.
7. Con il terzo motivo bis è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 ed alla circolare del 29 gennaio 2014 della Commissione nazionale del diritto all’asilo.
Lamenta il ricorrente l’erroneo riferimento contenuto nella sentenza impugnata alla circolare sopra indicata, essendo stata emanata molto tempo prima che lo stesso fuggisse dal suo paese. Successivamente la situazione del ***** si è, infatti, profondamente aggravata per una recrudescenza della lotta ed un marcato deterioramento della sicurezza ormai in tutto il territorio *****.
8. Il motivo è fondato.
Va osservato che recentemente questa Corte ha affermato che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, in particolare, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) è dovere del giudice verificare, avvalendosi dei poteri officiosi di indagine e di informazione di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, se la situazione di esposizione a pericolo per l’incolumità fisica indicata dal ricorrente, astrattamente riconducibile ad una situazione tipizzata di rischio, sia effettivamente sussistente nel Paese nel quale dovrebbe essere disposto il rimpatrio, sulla base ad un accertamento che deve essere aggiornato al momento della decisione. (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 17075 del 28/06/2018, Rv. 649790; conforme Sez. 1, n. 28990 del 12/11/2018, Rv. 651579).
Nel caso di specie, alla contestazione del ricorrente secondo cui la situazione del ***** si fosse recentemente aggravata, essendovi stata una recrudescenza di episodi di indiscriminata violenza, la sentenza impugnata – pronunciata il 12 luglio 2017 – ha fatto riferimento ad una risalente circolare della Commissione nazionale per il diritto all’asilo del gennaio 2014, fonte all’evidenza non aggiornata e, come tale, non più attendibile.
Deve quindi cassarsi la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello Ancona in diversa composizione, che dovrà provvedere, oltre che alle spese del giudizio di legittimità, ad un nuovo esame alla luce dei criteri sopra indicati.
9. Il quarto motivo è assorbito.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo bis, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Appello di Ancona in diversa composizione anche per le spese del giudizio di legittimità.
Così deciso in Roma, il 15 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019