LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22100/2017 proposto da:
K.E., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Ceci Mauro, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, – Commissione Territoriale per il Riconoscimento della Protezione Internazionale di Ancona;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1408/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, pubblicata il 17/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/02/2019 dal cons. FIDANZIA ANDREA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO PAOLA, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’Appello di L’Aquila, con sentenza depositata il 17 luglio 2017, ha rigettato l’appello avverso l’ordinanza del 11.11.2016 con cui il Tribunale di L’Aquila aveva respinto la domanda di K.E. volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.
La Corte d’Appello ha ritenuto che non vi fossero i presupposti per riconoscere all’odierno ricorrente la protezione c.d. sussidiaria sul rilievo dell’insussistenza di pericolo di “danno grave” di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) legato ad episodi di terrorismo, fanatismo religioso o conflitti locali.
Nè il ricorrente aveva allegato nè dimostrato specifiche situazioni di particolare vulnerabilità che giustificassero la concessione della protezione umanitaria, sia in relazione al suo timore di subire vendette private, sia in relazione alle sue condizioni di salute.
Ha proposto ricorso per cassazione K.E. affidandolo a tre motivi. Il Ministero dell’Interno non ha svolto difese.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione alla violazione dell’art. 702 quater c.p.c. e al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9.
Lamenta il ricorrente che la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 142 del 2015, che ha modificato il D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9 non ha modificato la disciplina dell’appello prevista dall’art. 702 quater c.p.c., con la conseguenza che – diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di merito – l’atto introduttivo del ricorso in secondo grado è sempre la citazione e non già il ricorso.
2. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse.
Il giudice d’appello ha affermato – pur con un percorso argomentativo diverso rispetto all’impostazione giuridica del ricorrente – la tempestività ed ammissibilità dell’appello, di talchè ogni questione relativa alla forma dell’atto introduttivo del giudizio in secondo grado è priva di una qualsivoglia utilità per il ricorrente, il cui ricorso è stato esaminato, come da suo auspicio, nel merito.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 comma 1, nn. 3 e 5 in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, commi 4 e 5.
Lamenta il ricorrente l’omessa traduzione del provvedimento con cui la Commissione Territoriale ha rigettato l’istanza di protezione internazionale e/o umanitaria in una lingua allo stesso conosciuta, condotta che ha determinato una evidente compromissione del suo diritto di difesa.
4. Il motivo è infondato.
Va osservato che questa Corte ha più volte statuito, in tema di protezione internazionale, che l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale nonchè quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, è previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove la censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un “vulnus” all’esercizio del diritto di difesa (Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 11871 del 27/05/2014, Rv. 631323, Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 420 del 13/01/2012, Rv. 621178).
Nel caso di specie, il ricorrente non ha avuto cura di precisare se e in che misura la mancata traduzione del provvedimento di cui sopra in una lingua, a suo dire, sconosciuta abbia determinato una violazione del suo diritto di difesa, tenuto conto che lo stesso si è regolarmente difeso in tutti i gradi del giudizio.
5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 in relazione al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3 al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.
Lamenta il ricorrente che, avuto riguardo alla sua posizione, sussistano seri motivi ovvero motivi umanitari per la concessione del permesso di soggiorno previsto dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6.
In particolare, reitera di essere stato minacciato personalmente per due volte sia dalla moglie di primo letto del padre, che lo aveva, altresì, aggredito con un coltello, sia da emissari della stessa che lo avevano messo in fuga.
Il concreto pericolo di morte dallo stesso paventato, in caso di rimpatrio nel suo paese d’origine, è stato ritenuto insussistente dalla Commissione senza fornire un’adeguata motivazione.
Inoltre, non sono state valutate le certificazioni sanitarie allo stesso prodotte nè con riferimento alla malattia dallo stesso contratta della sifilide, nè con riferimento alla positività per pregressa “epatite B”, malattia quest’ultima non curabile e rispetto alla quale il ricorrente non ha possibilità di cura nel paese d’origine.
6. Il motivo è infondato ai limiti della inammissibilità.
Va preliminarmente osservato, quanto alla mancata concessione della protezione sussidiaria, che la Corte territoriale, con apprezzamento adeguato, ha evidenziato, che, data la situazione di stabilità del Ghana, le ragioni di sicurezza personale rappresentante dal ricorrente (pericolo di subire vendette private) possono trovare adeguata tutela da parte delle Autorità del paese di provenienza.
Con tale affermazione il ricorrente non si è confrontato, neppure per confutarla, limitandosi a reiterare pedissequamente e genericamente le precedenti doglianze.
Con riferimento alla protezione umanitaria, va preliminarmente osservato che sebbene con l’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018 sia stato soppresso l’istituto della protezione umanitaria – oggetto del presente ricorso – questa Sezione, con sentenza n. 4890/2019 nell’ambito del ricorso deciso all’udienza del 23 gennaio 2019 ed iscritto al n. R.G. 19651/2018 (Bandia Aliou c. Ministero dell’Interno) ha elaborato il seguente principio di diritto: “La normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione…”.
Ne consegue che questo Collegio, condividendo il principio di diritto sopra esaminato, provvederà all’esame anche di tale domanda svolta in via subordinata dal ricorrente.
Orbene, sul punto, la Corte di merito, nel valutare le ragioni di salute invocate dal cittadino straniero a fondamento della richiesta di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, ha evidenziato che, con riferimento alla “positività per anticorpi antireponema di pregressa epatite B”, il ricorrente si è limitato a produrre referti risalenti, attestanti lo stato di positività per la malattia, ma senza fornire nè nel corso del giudizio di primo grado, nè in quello di secondo grado, documentazione attestante l’eventuale persistenza della malattia nonostante i trattamenti farmacologici seguiti negli anni 2014 e 2015 e/o la permanente necessità di sottoposizione a controlli o trattamenti terapeutici non fruibili nel paese di origine.
Al cospetto di tale precisa argomentazione il ricorrente si è limitato ad una mera censura di merito, come tale inammissibile in sede di legittimità, con cui ha lamentato la non curabilità della malattia.
Il rigetto del ricorso non comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, non essendosi il Ministero dell’Interno costituitosi in giudizio. Non si applica il doppio contributo unificato, essendo il ricorrente stato ammesso al patrocinio a spese dello stato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019