LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCHIRO’ Stefano – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 11436/2018 proposto da:
D.S., domiciliato in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Centrale Civile della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato Natale Luigi, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ope legis;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di NAPOLI, del 21/03/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/02/2019 dal Cons. Dott. FIDANZIA ANDREA;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola che ha concluso per il rinvio a nuovo ruolo in attesa delle Sezioni Unite; nel merito rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Il Tribunale di Napoli, con decreto depositato il 21 marzo 2018, ha rigettato la domanda di D.S., cittadino del Senegal, volta ad ottenere il riconoscimento della protezione internazionale o, in subordine, della protezione umanitaria.
E’ stato, in primo luogo, ritenuto che difettassero i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, dal momento che dalle dichiarazioni dello stesso istante non emergeva alcun fumus persecutionis, trattandosi di una vicenda dai profili civilistici (lo stesso, unitamente ad un amico, aveva svolto un’attività imprenditoriale che, secondo gli abitanti di un villaggio limitrofo al suo, aveva provocato loro gravi danni, così incorrendo nelle ire di questi ultimi che avevano aggredito e picchiato l’amico costringendo il ricorrente alla fuga).
Inoltre, con riferimento alla richiesta di protezione sussidiaria, è stata evidenziata dal Tribunale l’insussistenza del pericolo del ricorrente di essere esposto a grave danno in caso di ritorno nel paese d’origine, trattandosi di vicenda per la quale lo stesso avrebbe dovuto rivolgersi alle autorità locali, ovvero al capo- villaggio per chiarire la propria posizione. In ogni caso, la situazione politica della sua regione di provenienza nel Senegal (Kaloack, situata nel nord del paese) non era caratterizzata da violenza indiscriminata.
Infine, il ricorrente non era comunque meritevole del permesso per motivi umanitari, non rientrando nelle categorie di soggetti vulnerabili.
Ha proposto ricorso per cassazione D.S. affidandolo a quattro motivi. Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno con controricorso.
Prima di soffermarsi sull’esame dei motivi del ricorso, va osservato che il ricorso è procedibile, essendovi in atti l’attestazione di conformità all’originale del provvedimento impugnato.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3 e 5 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27, comma 1 bis.
Lamenta il ricorrente che il Tribunale di Napoli lo ha ritenuto non credibile in ordine al fumus persecutionis senza applicare i criteri di valutazione che devono essere seguiti nei procedimenti di protezione internazionale.
La credibilità del suo racconto non può essere esclusa sulla base di mere discordanze nella esposizione dei fatti, tenuto conto che il giudice di merito deve attivare il potere istruttorio officioso nella valutazione della credibilità del suo racconto.
2. Il motivo è inammissibile.
Il ricorrente non ha colto la ratio decidendi del rigetto della domanda di rifugiato.
Il Tribunale di Napoli non ha affatto ritenuto non credibile il racconto del ricorrente, ma ha coerentemente ritenuto che dalle sue dichiarazioni non fossero ravvisabili i presupposti richiesti per ritenere la sussistenza di un fumus persecutionis.
Posto che il riconoscimento dello status di rifugiato presuppone che il richiedente sia stato oggetto di atti di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a particolare gruppo sociale o opinioni politiche, la vicenda narrata dal richiedente è completamente estranea a problematiche di questo tipo ed il decreto impugnato lo ha ben evidenziato.
3. Con il secondo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 2, 7, 8 e 11 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 2.
Lamenta il ricorrente che il Tribunale ha errato nel ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato, atteso che, in caso di rimpatrio nel paese d’origine, vi è il fondato timore che possa subire atti di persecuzione sufficientemente gravi, tali da rappresentare una grave violazione di diritti umani fondamentali.
In particolare, il ricorrente rischia di subire atti di violenza in relazione ai quali i soggetti statuali non sono in grado di fornire protezione.
4. Il motivo è infondato.
Va, in primo luogo, osservato che, come ben evidenziato, nel decreto impugnato, il ricorrente non ha neppure allegato di avere, in relazione alla sua vicenda personale, richiesto protezione alle autorità del suo paese nè fornito elementi da cui evincere l’inadeguatezza degli stessi a garantirgli la protezione. In ogni caso, si tratta di circostanze che eventualmente rileverebbero ai fini della concessione della protezione sussidiaria e non per il riconoscimento dello status di rifugiato.
5. Con il terzo motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e art. 14, lett. c) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.
Lamenta il ricorrente che il Tribunale ha errato nel ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione sussidiaria.
Rileva che il giudice di primo grado non ha acquisito le necessarie informazioni in ordine alla situazione socio-politica della regione di provenienza del ricorrente, atteso che dalle informazioni facilmente reperibili da siti affidabili, quali quello del Ministero degli Esteri ed Amnesty International, emerge in Senegal non solo una situazione di grave violazione dei diritti umani, ma anche di forte pericolo per la vita e l’incolumità fisica derivante da violenza indiscriminata che coinvolge l’intero territorio.
6. Il motivo è inammissibile.
Va preliminarmente che, anche recentemente, questa Corte ha statuito che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale deve essere interpretata, in conformità con la giurisprudenza della Corte di giustizia UE (sentenza 30 gennaio 2014, in causa C-285/12), nel senso che il grado di violenza indiscriminata deve avere raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che un civile, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia (Sez. 6-1, Ordinanza n. 13858 del 31/05/2018, Rv. 648790-01).
Nel caso di specie, i dati rappresentati dal ricorrente – che non ha, peraltro, neppure allegato di averli sottoposti al Tribunale – non evidenziano una situazione di violenza indiscriminata e diffusa (si fa per lo più riferimento a situazioni di instabilità ed insicurezza), nè riguardano la regione di provenienza del ricorrente.
In ogni caso, le censure con cui il ricorrente invoca uno stato di diffusa ed indiscriminata violenza nella regione di sua provenienza si configurano come di mero merito – e come tali inammissibili – essendo finalizzate a sollecitare una rivalutazione del materiale probatorio esaminato dal Tribunale di Napoli e ad accreditare una diversa ricostruzione della vicenda processuale.
7. Con il quarto motivo è stata dedotta la violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 ed al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e art. 14, lett. c) e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3.
Lamenta il ricorrente che il Tribunale ha errato nel ritenere insussistenti i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria.
Rileva il ricorrente che l’attuale condizione socio-politico-economica della Nigeria giustifica il rilascio del permesso per ragioni umanitarie.
Infatti, in caso di rimpatrio, il ricorrente è soggetto al rischio di essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti, alla violazione di diritti umani, a condizioni di vita precarie, non essendo garantito il diritto alla salute e all’alimentazione.
10. Il motivo è inammissibile per genericità.
Va preliminarmente osservato che sebbene con l’entrata in vigore del D.L. n. 113 del 2018, sia stato soppresso l’istituto della protezione umanitaria, questa Sezione, con sentenza n. 4890/2019, nell’ambito del ricorso deciso all’udienza del 23 gennaio 2019 ed iscritto al n. R.G. 19651/2018 (Bandia Aliou c. Ministero dell’Interno) ha già elaborato il seguente principio di diritto: “La normativa introdotta con il D.L. n. 113 del 2018, convertito nella L. n. 132 del 2018, nella parte in cui ha modificato la preesistente disciplina del permesso di soggiorno per motivi umanitari dettata dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e dalle altre disposizioni consequenziali, sostituendola con la previsione di casi speciali di permessi di soggiorno, non trova applicazione in relazione alle domande di riconoscimento di un permesso di soggiorno per motivi umanitari proposte prima dell’entrata in vigore (5/10/2018) della nuova legge, le quali saranno pertanto scrutinate sulla base della normativa esistente al momento della loro presentazione…”.
Ne consegue che questo Collegio, condividendo il principio di diritto sopra riportato, provvederà anche all’esame di questa domanda.
Orbene, il ricorrente è venuto all’obbligo di specifica allegazione, avendo dedotto in modo assai generico situazioni di torture, trattamenti inumani e violazioni di diritti umani, ma senza contestualizzarli nella sua regione di provenienza e senza comunque correlarli alla sua vicenda personale.
In proposito, questa Corte ha già affermato che, ai fini di valutare se il richiedente abbia subito nel paese d’origine una effettiva e significativa compromissione dei diritti fondamentali inviolabili, si deve partire sì dalla situazione oggettiva del paese d’origine, ma necessariamente correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza. Infatti, ove sì prescindesse dalla vicenda personale del richiedente, si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, e ciò in contrasto con il parametro normativo di cuì al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (in questi termini sez. 1 n. 4455 del 23/02/2018).
Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, essendosi il Ministero dell’Interno costituito in giudizio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 2.100,00, oltre S.P.A.D..
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019