LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Presidente –
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –
Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3545-2018 proposto da:
S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell’avvocato ERMELINDA NERI, rappresentata e difesa dall’avvocato STEFANIA CAZZATO;
– ricorrente –
contro
INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE *****, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati CLEMENTINA PULLI, EMANUELA CAPANNOLO, MANUELA MASSA, NICOLA VALENTE, LUIGI CALIULO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 73/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE SEZIONE DISTACCATA di TARANTO, depositata il 27/02/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/03/2019 dal Consigliere Relatore Dott.ssa DE FELICE ALFONSINA.
RILEVATO
CHE:
la Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, in riforma della sentenza del locale Tribunale, ha accolto il ricorso dell’Inps, rivolto a sentir dichiarare l’insussistenza del diritto all’assegno ordinario d’invalidità in capo ad S.A. per carenza del requisito sanitario;
la Corte territoriale, recependo le risultanze della CTU esperita in primo grado, ha accertato che l’appellata non raggiungeva il grado d’invalidità previsto dalla legge per beneficiare dell’assegno, in quanto, dall’accertamento peritale era risultata una residua capacità lavorativa confacente alle sue attitudini professionali, relativamente a mansioni impiegatizie che la stessa aveva già svolto in alternativa a quelle (prevalenti) di bracciante agricola;
la cassazione della sentenza è domandata da S.A. sulla base di tre motivi, illustrati da memoria; l’Inps resiste con controricorso.
CONSIDERATO
CHE:
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la ricorrente deduce “Violazione e falsa applicazione della L. 12 giugno 1984, n. 222, art. 1”;
la sentenza sarebbe censurabile per un’errata qualificazione giuridica del fatto; nel tener conto del percorso lavorativo della ricorrente (maestra d’asilo, impiegata e, per oltre ventisei anni bracciante agricola), la Corte avrebbe riconosciuto la riduzione della capacità lavorativa limitatamente alla sola attività di bracciante agricola, ritenendo la stessa insufficiente all’accoglimento della domanda d’invalidità; non avrebbe invece esteso l’accertamento alla effettiva capacità della lavoratrice di riadattarsi a mansioni impiegatizie, in base all’età, alla formazione e ad altre circostanze utili, nonchè alla verifica del carattere usurante delle stesse mansioni rispetto alle sue attuali condizioni di salute;
col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, lamenta “Vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; ritiene parte ricorrente che la Corte d’Appello avrebbe erroneamente valutato una serie di elementi decisivi tra cui il fatto: 1) che essendo stata assunta con contratto d’inserimento, la ricorrente non possedeva competenze professionali impiegatizie; 2) che si era dimessa per motivi di salute dalla società Irigom s.p.a., dove era assunta come impiegata; 3) che pur essendo iscritta al collocamento sia come bracciante agricola che come tecnico intermedio di ufficio, non era provato che la sua iscrizione valesse anche per le prestazioni di tipo impiegatizio;
col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, contesta “Vizio di erroneo/deficitario apprezzamento da parte del giudice di merito della consulenza tecnica di ufficio e di erroneo/deficitario ragionamento da parte del consulente tecnico di ufficio circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”; la censura si diffonde su argomenti di fatto rivolti a dimostrare che la CTU, anche in sede di chiarimenti alle osservazioni dell’odierna ricorrente, si sarebbe fondata su presupposti di fatto erronei, e sarebbe stata recepita acriticamente dal giudice dell’appello, il quale avrebbe omesso di accertare il carattere usurante delle nuove mansioni;
il primo motivo è inammissibile;
quanto prospettato dalla ricorrente deduce solo apparentemente una violazione di legge, là dove mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata nel giudizio di merito;
va, pertanto, nel caso in esame, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017);
il secondo motivo, che deduce il vizio di motivazione si rivela inammissibile, atteso che la relativa doglianza non fa riferimento all’omesso esame “di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”(Cass. S.U. n. 8053/2014);
le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. S.U. n. 8053/2014); nel caso in esame la Corte territoriale ha accertato che la sola percentuale d’invalidità derivante dal lavoro di bracciante agricola non era sufficiente a far conseguire il beneficio richiesto, residuando, in capo all’istante, capacità lavorative relative a competenze impiegatizie che la stessa possedeva per averle già esercitate, sia pure in modo non prevalente;
anche il terzo motivo è inammissibile;
in base al costante orientamento di legittimità “Il mancato esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere, nel giudizio di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”;
il giudice che abbia inteso recepire gli esiti della consulenza senza valutare le eventuali censure di parte e giustificare la propria preferenza, limitandosi ad un’acritica adesione ad essa, ovvero si sia discostato dalla soluzione prospettata senza dare adeguata giustificazione del suo convincimento mediante l’enunciazione dei criteri probatori e degli elementi di valutazione specificamente seguiti, incorre nel vizio denunciato;(Cass. n. 13770 del 2018) nel caso in esame non si riscontra, tuttavia, un omesso esame delle risultanze della perizia con riferimento al dedotto carattere usurante delle mansioni impiegatizie, atteso che la Corte territoriale ha argomentato – proprio con riferimento all’accertamento peritale – le ragioni per le quali ha ritenuto di recepirne gli esiti; la sentenza gravata ha affermato che dato il carattere disomogeneo tra le mansioni operaie agricole e quelle impiegatizie, la capacità lavorativa non raggiungeva la soglia di riduzione prevista dalla legge al fine di beneficiare dell’assegno di invalidità; che la coesistenza dello svolgimento di mansioni di operaia agricola (prevalenti) e di mansioni impiegatizie provavano “con ogni evidenza” che le due attività sviluppavano un grado di usura diverso a carico della lavoratrice e che nessuna riduzione della capacità lavorativa era rilevabile con riferimento alle mansioni impiegatizie;
avendo, il giudizio circa la compatibilità delle mansioni impiegatizie con la residua capacità lavorativa della ricorrente, tenuto in debito conto il grado di usura delle stesse sulle sue condizioni di salute, non si ravvisa, nel caso di specie, quella acritica adesione alle risultanze della CTU che porterebbe a configurare il vizio di omesso esame di un fatto decisivo;
in definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
in considerazione dell’esito del giudizio, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso nei confronti del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2.000 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento e accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 6 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019