Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.12427 del 09/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. DORONZO Adriana – rel. Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17143-2016 proposto da:

D.C., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONIO MEDIATI;

– ricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso la sede dell’AVVOCATURA dell’Istituto medesimo, rappresentato e difeso dagli avvocati MAURO RICCI, CLEMENTINA PULLI, ENLNNUELA CAPANNOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 156/2016 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 10/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/02/2019 dal Consigliere Relatore Dott.ssa DORONZO ADRIANA.

RILEVATO

che:

la Corte d’appello di Reggio Calabria, con sentenza pubblicata in data 10/2/2016, su appello di D.C., ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda proposta da quest’ultima, diretta al riconoscimento dell’indennità di accompagnamento;

la Corte territoriale, dopo aver disposto una nuova consulenza tecnica d’ufficio e aver rinnovato il giudizio medico legale con una seconda consulenza, ha rigettato l’appello ritenendo insussistenti i presupposti sanitari per il riconoscimento della prestazione richiesta;

contro la sentenza la D. propone ricorso per cassazione e formula quattro motivi, ai quali resiste l’Inps con controricorso;

la proposta del relatore sensi dell’art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata.

CONSIDERATO

che:

tutti motivi di ricorso si sostanziano nelle censure di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti e violazione o falsa applicazione di norme di diritto (L. 11 febbraio 1980, n. 18, art. 1,nel testo modificato dalla L. n. 508 del 1988:);

sostanzialmente la parte si duole che, nonostante la gravità delle malattie accertate (marcato deficit statico dinamico, arteriosclerosi cerebrale, insorgenza di dispnea dopo piccoli sforzi, marcata ipoacusia bilaterale, incontinenza urinaria), la ricorrente non sia stata ritenuta incapace di deambulare autonomamente e di attendere agli atti ordinari della vita quotidiana;

i motivi, che essendo connessi possono essere trattati congiuntamente, sono inammissibili;

il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica, necessariamente, un problema interpretativo della stessa;

l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. 13/10/2017, n. 24.155);

il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. S.U., n. 10313/2006; Cass., n. 7394/2010; Cass., n. 16698/2010; Cass., n. 8315/2013; Cass., n. 26110/2015; Cass., n. 195/2016);

ancora più in specifico, si afferma che nel ricorso per cassazione il vizio della violazione e falsa applicazione di legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena d’inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. n. 16038 del 26/06/2013; n. 287 del 12/01/2016);

nel caso di specie, dalla lettura dei motivi di ricorso in esame non si evince quale delle affermazioni della Corte territoriale sarebbe in contrasto con le norme di legge in esame, nè quale sarebbe l’errore interpretativo compiuto dalla Corte, sicchè il motivo è inammissibilmente dedotto;

al contrario, non risultano messe in discussione nella sentenza impugnata le condizioni che debbono ricorrere per la concessione dell’indennità di accompagnamento, che consistono in via alternativa nella impossibilità di deambulazione o nella incapacità di attendere agli atti della vita quotidiana, requisiti questi più rigorosi della semplice difficoltà (Cass. 28/05/2009, n. 12521; Cass., 27/06/2003, n. 10281; Cass. 23/1/1998, n. 636);

sono pure inammissibili le censure prospettate sotto la specie del vizio motivazionale;

la Corte ha espresso le ragioni per cui ha ritenuto di rinnovare sia la consulenza tecnica già disposta in primo grado sia la consulenza disposta in appello, ritenendole entrambe non esaustive;

ha poi motivato la scelta accordata alla seconda consulenza tecnica disposta in appello, in quanto le conclusioni del c.t.u. erano fondate sull’esame obiettivo compiuto dal medico legale, da cui era emerso che, nonostante la gravità delle malattie – invalidanti al 100% – non ricorreva l’impossibilità nella deambulazione (ancora possibile all’interno dell’abitazione con l’aiuto di bastone ortopedico e con un rischio solo generico e non concreto di caduta), nè l’incapacità di compiere gli atti ordinari della vita quotidiana, quale lavarsi, vestirsi, pettinarsi, nutrirsi e attendere a piccole occupazioni non impegnative sul piano fisico;

ha quindi ritenuto infondate le censure mosse a tali conclusioni dalla difesa di parte appellante, in quanto formulate a prescindere dalla diretta percezione delle condizioni della perizianda, le quali confermavano una situazione di difficoltà non già di impossibilità nella deambulazione e uno stato di incapacità a compiere le ordinarie occupazioni inerente solo ad alcune delle possibili esplicazioni del vivere quotidiano;

non sussiste pertanto il vizio di omessa motivazione, dovendosi aver riguardo alla nuova declinazione dello stesso compiuta dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (come modificato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), conv. con modifiche in L. 7 agosto 2012 n. 134), nell’interpretazione datane da questa Corte a Sezioni Unite, secondo cui il vizio di motivazione si restringe a quello di violazione di legge e cioè dell’art. 132 c.p.c. e art. 111 Cost., che impongono al giudice di indicare nella sentenza “la concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione”, secondo quello che è stato definito il “minimo costituzionale” della motivazione (Sez. Un. 7 aprile 2014, nn. 8053, 8054; Cass. 31/05/2018, n. 13770);

quanto alla denuncia di omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione tra le parti, essa non è stata formulata nel rispetto degli oneri di specificazione previsti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, i quali impongono che il fatto, da intendere quale specifico accadimento in senso storico-naturalistico, sia espressamente indicato dalle parti e risulti dalla sentenza o dagli atti del giudizio;

in realtà con i motivi all’esame la parte ha inteso sollecitare una lettura alternativa delle risultanze di causa rispetto a quella fatta propria dal giudice di merito, inammissibile in questa sede;

pertanto, in dissenso dalla proposta del relatore, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;

nessun provvedimento sulle spese deve adottarsi in ragione della dichiarazione resa in calce al ricorso ai sensi dell’art. 152 disp.att. c.p.c.; sussistono invece presupposti per il versamento di un importo pari a quello già versato a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera consiglio, il 6 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2019

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