LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DIDONE Antonio – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 21277/2017 proposto da:
Curatela Fallimento ***** Srl, in persona dei Curatori fallimentari F.C. e I.C., elettivamente domiciliato in Roma, Via Flaminia Nuova 962, presso lo studio dell’avvocato Dell’Orco Bartolomeo, che la rappresenta e difende, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Banco BPM Spa, quale avente causa da Banca Italease spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, V. degli Scipioni 157, presso lo studio dell’avvocato De Crescenzo Enrico, che lo rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso il decreto del TRIBUNALE di FOGGIA, depositato il 20/07/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/02/2019 dal Consigliere GUIDO FEDERICO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale DE RENZIS Luisa, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato Bartolomeo Dell’Orco per il ricorrente, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
e l’Avvocato Enrico De Crescenzo per il controricorrente, che ha chiesto il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Il Banco BPM s.p.a. (già Banco Popolare Società Cooperativa) proponeva ricorso in opposizione L. Fall., ex art. 98, allo stato passivo del fallimento “*****” srl, nella parte in cui non era stata accolta l’istanza di rivendica dei beni immobili così individuati: struttura turistico alberghiera denominata “Hotel *****” in Comune di ***** con accesso dalla Litoranea Mattinata – Vieste km 16, costituita da tre corpi di fabbrica, servizi annessi, area circostante destinata a verde e parcheggi.
Il Banco BPM esponeva che:
– con contratto del 15.03.2007 Banca Italease (divenuta successivamente BPSC, oggi Banco BPM) aveva concesso in locazione finanziaria a ***** srl gli immobili oggetto di rivendica, dietro il pagamento di un canone complessivo di Euro 22.885.131,80 suddiviso in 180 rate mensili;
– successivamente il contratto era stato modificato sia in relazione alla durata che ai canoni da versare;
– poichè la debitrice si era resa inadempiente al pagamento di numerosi canoni, Banca Italease le aveva comunicato con raccomandata a/r in data 13-18.10.2011 la risoluzione del contratto, invitandola contestualmente alla restituzione degli immobili, ed aveva altresì intrapreso domanda di risoluzione innanzi al Tribunale di Milano.
– la domanda di rivendica presentata a seguito del fallimento di “*****”, finalizzata ad ottenere la restituzione dalla curatela fallimentare degli immobili oggetto del contratto di leasing, era stata rigettata con decreto del 29.11.2016 dal G.D. del Fallimento ***** srl, sulla base del presupposto che, trattandosi di domanda di rivendica, la stessa non era stata adeguatamente documentata.
Il Tribunale di Foggia, adito su ricorso del Banco BPM, con decreto del 20.07.2017, comunicato il 21.07.2017, qualificata la domanda quale azione personale di restituzione e non già di rivendica, in accoglimento dell’opposizione, riconosceva il diritto di BPM alla restituzione dei beni indicati nel ricorso in opposizione, condannando la curatela al pagamento delle spese di rito.
Il tribunale, in particolare, ha qualificato la domanda proposta dal Banco BPM come domanda di restituzione, fondata su un diritto nascente dal contratto di leasing, risoltosi anteriormente alla dichiarazione di fallimento dell’utilizzatore inadempiente ed ha ritenuto che la disposizione dell’art. 1526 c.c., ritenuta applicabile al c.d. leasing traslativo, contrariamente a quanto dedotto dalla curatela fallimentare, non condiziona la restituzione del bene al rimborso delle rate riscosse, dovendo escludersi la configurabilità di uno ius retentionis in favore della curatela fallimentare, non previsto dalla legge; rilevava, in ogni caso, che l’art. 14 del contratto di leasing prevedeva che in caso di risoluzione anticipata del contratto gli effetti della risoluzione non si sarebbero estesi alle prestazioni già eseguite, con la conseguenza che, a seguito dell’anticipata risoluzione del contratto, tutti gli importi corrisposti dall’utilizzatore sarebbero rimasti definitivamente acquisiti al concedente.
Considerato dunque che i profili economici del contratto non erano stati oggetto di domanda da parte del creditore, nè avevano formato materia di contestazione da parte del curatore, le relative pretese avrebbero dovuto eventualmente essere fatte valere nelle sedi competenti.
Avverso detto decreto propone ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, la Curatela del Fallimento ***** srl.
Resiste con controricorso il Banco BPM.
RAGIONI DELLA DECISIONE
Con il primo motivo di ricorso si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1526 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere il Tribunale subordinato la restituzione dell’immobile concesso in leasing alla preventiva restituzione dei canoni incamerati dal concedente.
Il ricorrente censura entrambe le rationes decidendi poste dal Tribunale a fondamento della statuizione di accoglimento dell’opposizione:
la prima, secondo la quale la disposizione dell’art. 1526 c.c., non condiziona la restituzione del bene oggetto del contratto al previo rimborso delle rate riscosse, non potendo configurarsi in detta materia uno ius retentionis in favore della curatela fallimentare;
la seconda, fondata sulla clausola contrattuale (n. 14) che prevedeva espressamente che in caso di risoluzione anticipata del contratto gli effetti della risoluzione non si estendevano alle prestazioni già eseguite, con la conseguenza che tutti gli importi già corrisposti dall’utilizzatore o comunque già maturati, sarebbero rimasti definitivamente acquisiti al concedente.
Il motivo è infondato, pur dovendo correggersi la motivazione del provvedimento, il cui dispositivo è peraltro conforme a diritto.
Incontroversa la qualificazione del contratto come “leasing traslativo” è parimenti pacifico che il contratto si è risolto a seguito della dichiarazione della concedente di volersi avvalere della clausola risolutiva espressa ex art. 1456 c.c., in conseguenza dell’inadempimento dell’utilizzatore, in data anteriore alla dichiarazione di fallimento.
Quanto alla prima ratio decidendi, il tribunale ha ritenuto che la disciplina dell’art. 1526 c.c. non condizioni la restituzione del bene al rimborso delle rate riscosse, applicando il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo cui nel leasing traslativo, in caso di risoluzione per inadempimento dell’utilizzatore, quest’ultimo, restituita la cosa, ha diritto alla restituzione delle rate riscosse, mentre al concedente la norma riconosce, oltre al risarcimento del danno, il diritto ad un equo compenso per l’uso dei beni oggetto del contratto (Cass. 21895/2017; 18195/2007).
La statuizione secondo cui la restituzione del bene non è condizionata al rimborso delle rate riscosse è senz’altro conforme a diritto, seppure deve disporsi la correzione della motivazione della sentenza, nella parte in cui ha ritenuto di individuare quale paradigma normativo per la disciplina della risoluzione di un contratto di leasing finanziario verificatasi ante-fallimento, la norma dell’art. 1526 c.c..
Il Tribunale ha erroneamente fatto riferimento alla disposizione dell’art. 1526 c.c., piuttosto che alla disciplina prevista L. Fall., art. 72 quater, che, seppure dettata in relazione all’ipotesi in cui lo scioglimento del contratto di leasing deriva da una scelta del curatore e non dall’inadempimento dell’utilizzatore, è del tutto coerente con la fisionomia unitaria del leasing finanziario di cui alla L. 124/2017 art. 1 commi 136-140, dovendo ritenersi definitamente superata la distinzione, di matrice giurisprudenziale, tra leasing c.d. “di godimento” e “leasing traslativo” ed il ricorso in via analogica, per tale seconda figura, alla disciplina dettata dall’art. 1526 c.c..
Gli effetti della risoluzione del contratto di leasing, verificatasi anteriormente alla dichiarazione di fallimento, dovranno dunque essere regolati sulla base di quanto previsto dal dalla L. Fall., art. 72 quater, che ha carattere inderogabile e prevale su eventuali difformi pattuizioni delle parti.
Nel caso. di specie, peraltro, il tribunale, se come già evidenziato, ha correttamente affermato che non può farsi dipendere la restituzione del bene al concedente dall’adempimento di eventuali obblighi di rimborso a suo carico, in quanto la restituzione discende in via immediata dalla risoluzione del contratto.
Ed invero, l’obbligo di restituzione della cosa è fondamentale nell’equilibrio del contratto e non può essere subordinata al rimborso dei canoni (del tutto eventuale), non essendo configurabile in capo alla curatela uno ius retentionis del bene oggetto del contratto, bene in relazione al quale non si è prodotto l’effetto traslativo in favore della debitrice e sul quale, verificatasi la risoluzione del contratto, l’utilizzatore non vanta alcun titolo.
E ciò impregiudicato il successivo esito della vendita, a cura del concedente, secondo il paradigma della L. Fall., art. 72 quater.
Il rigetto di tale censura assorbe l’ulteriore profilo concernente l’autonoma ratio decidendi della pronuncia impugnata, avente ad oggetto la validità ed efficacia della clausola contrattuale (art. 14) che prevedeva il trattenimento da parte della concedente dei canoni corrisposti dall’utilizzatrice: nel caso di specie ciò che viene in rilievo, quale oggetto dell’insinuazione, è unicamente la restituzione del bene alla società concedente, cui essa ha diritto per effetto della risoluzione del contratto, salva la successiva regolazione dei rapporti debito-credito del concedente nei confronti della curatela fallimentare, secondo le disposizioni della legge fallimentare e, segnatamente, della L. Fall., citato art. 72 quater.
Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il Tribunale fondato il proprio convincimento su una prova documentale inidonea, vale a dire il contratto di compravendita del 10.12.2004 piuttosto che il contratto di leasing intercorso tra le parti.
Il motivo è inammissibile.
La violazione dell’art. 2697 c.c., si configura solo se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata, secondo le regole di ripartizione basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (Cass. 26769/2018).
Anche sotto altro profilo il motivo è inammissibile, in quanto, nonostante la rubrica, si risolve nella sollecitazione ad un riesame, nel merito, dell’accertamento del tribunale.
Nel caso di specie il tribunale, con apprezzamento adeguato, premesso che la pretesa dell’opponente si fondava su azione personale di restituzione del bene, ha ritenuto che il Banco BPM, sulla base della documentazione prodotta, avesse assolto al relativo onere probatorio; tale accertamento non risulta adeguatamente ed efficacemente contestato sulla base della generica deduzione della ricorrente.
Con il terzo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 93, comma 3, e art. 98, nonchè degli artt. 91 e 92 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere il tribunale tratto elementi decisivi per l’accoglimento dell’opposizione dall’attività istruttoria svolta dal Banco BPM nel relativo giudizio, condannando la curatela al pagamento delle spese di lite, pure se il giudizio di opposizione era stato causato dal ritardo con cui il Banco BPM aveva prodotto la documentazione.
La curatela deduce al riguardo che le spese del giudizio avrebbero dovuto gravare sull’opponente, che aveva dato causa al giudizio per la sua negligenza, considerata l’incompletezza della documentazione allegata in sede di insinuazione.
Il motivo è infondato.
Come questa Corte ha già affermato, in tema di spese processuali, a seguito delle modifiche apportate alla L. Fall., art. 101, dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 86, non si pone più il problema dell’estensione ai giudizi di opposizione allo stato passivo del principio desumibile dalla previgente L. Fall., art. 101, comma 4, (non riproposto nella nuova formulazione della norma) – che, in materia di dichiarazione tardiva di credito, poneva a carico del creditore le spese conseguenti al ritardo della domanda – sicchè, anche nei giudizi di cui alla L. Fall., art. 98, si applica la regola generale di cui all’art. 91 c.p.c. (Cass. 3956/2018).
Orbene, nel caso di specie il Tribunale ha correttamente applicato al presente giudizio il criterio della soccombenza, facendo discendere dall’accoglimento dell’opposizione L. Fall., ex art. 98, la condanna della curatela fallimentare alla refusione delle spese di lite in favore dell’opponente.
Il ricorso va dunque respinto e le spese del presente giudizio, regolate secondo soccombenza, si liquidano come da dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1 quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la curatela alla refusione delle spese del giudizio, che liquida in complessivi 5.200,00 Euro di cui 200,00 Euro per esborsi, oltre a rimborso forfettario per spese generali, in misura del 15h ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2019