Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.13747 del 22/05/2019

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 00711/2016 R.G. proposto da:

Fallimento della ***** s.p.a., in liquidazione, (C.F. *****), in persona del curatore pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv.ti Vittorio Glauco Ebner e Martino Ebner, elettivamente domiciliata presso lo studio del primo, in Roma via Gregorio VII 466.

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, (C.F. *****), in persona del direttore pro tempore.

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2778/28/2015 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, depositata il 23 giugno 2015.

Sentita la relazione svolta all’udienza del 13 novembre 2018 dal Consigliere Giuseppe Fichera.

Udite le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale Stefano Visonà, che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità dei motivi del ricorso.

Udito l’avv. Vittorio Glauco Ebner per il ricorrente.

FATTI DI CAUSA

Il fallimento della ***** s.p.a., in liquidazione, impugnò l’avviso di accertamento notificato dall’Agenzia delle Entrate, con cui vennero ripresi a tassazione maggiori redditi ai fini IRES, IRAP ed IVA per l’anno d’imposta 2006, sull’assunto dell’inesistenza di talune operazioni registrate in bilancio, da cui erano derivati costi non sostenuti.

Accolta integralmente l’impugnazione in primo grado, l’Agenzia delle Entrate propose appello innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che lo accolse, con sentenza depositata il 23 giugno 2015, condannando l’appellata alla rifusione delle spese processuali.

Avverso la detta sentenza, il fallimento della ***** s.p.a., in liquidazione, ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi; l’Agenzia delle Entrate non ha spiegato difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il fallimento ricorrente lamenta vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), avendo il giudice di merito omesso di prendere in esame il fatto storico costituito dalla non fittizietà dei costi contabilizzati dalla società fallita.

Con il secondo motivo deduce violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, comma 1, poichè la commissione tributaria regionale ha giudicato legittima la ripresa a tassazione effettuata dall’Agenzia delle Entrate, solo in presenza di una operazione di lease back, senza considerare i costi effettivamente sostenuti dalla società poi fallita.

Con il terzo motivo assume violazione dell’art. 111 Cost., comma 6, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 1, n. 4), dell’art. 118 disp. att. c.p.c., comma 1 e 2, in quanto manca nella decisione impugnata qualsivoglia motivazione in ordine alle ragioni che hanno indotto la commissione tributaria a ritenere legittima la ripresa a tassazione operata dall’Agenzia delle Entrate.

1.2. Tutti i detti motivi, meritevoli di esame congiunto, sono parimenti inammissibili, in quanto il ricorrente non coglie la ratio decidendi del provvedimento impugnato.

Nel ricorso in esame il fallimento della ***** s.p.a. afferma che l’avviso di accertamento impugnato – di cui difetta la necessaria trascrizione in atti di tutti i contenuti salienti, così restando violato il disposto dell’art. 366 c.p.c., (Cass. 28/06/2017, n. 16147; Cass. 19/04/2013, n. 9536) – si sarebbe fondato sulla ripresa a tassazione del maggior reddito, per effetto del disconoscimento di una serie di componenti negative registrate a bilancio, che sarebbero stati in realtà fittizie, in quanto giustificate da fatture per prestazioni in thesi oggettivamente inesistenti, spiccate da una società appartenente al medesimo gruppo del quale faceva parte la fallita.

La commissione tributaria regionale, tuttavia, ha chiaramente affermato in motivazione che gli atti impositivi impugnati dovevano ritenersi legittimi, in quanto la ***** s.p.a., società sottoposta a comune controllo (in quanto partecipi del medesimo gruppo societario) rispetto sia alla società cessionaria del marchio che a quella che aveva emesso le fatture relative ai costi non riconosciuti dall’Agenzie delle Entrate, si era resa partecipe, attraverso il complesso di operazioni negoziali prese in esame nell’atto impositivo impugnato (id est il lease back del proprio marchio e la contabilizzazione di costi fittizi), di un unico disegno teso a perpetrare una eluzione, senza che fosse necessaria alcuna consapevolezza frode realizzata da altri.

Siffatte ragioni della decisione non risultano espressamente censurate dal fallimento ricorrente, che ha invece inteso criticare la sentenza impugnata, con tutti i mezzi qui formulati, in relazione ad una questione – quella dei costi fittizi – che non è risultata decisiva nel ragionamento, come sopra riportato, espresso dal giudice di merito.

2. Nulla sulle spese in difetto di attività difensiva della parte intimata; sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello, stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472