LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –
Dott. GHITTI Italo Mario – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 21945 /2013 R.G. proposto da:
P.M.N. in proprio e quale titolare dell’omonima azienda agricola, rappresentata e difesa dall’Avv. Carlo Colapinto presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma Via Panama n. 74 int. 8;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
Avverso la sentenza n. 18/13/13, emessa dalla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, sez. 13, in data 19/11/2012 e depositata il 11/2/2013;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 14/3/2019 dal Consigliere Dott. Ghitti Italo Mario;
Uditi l’Avv. Carlo Colapinto e L’Avv. Salvatore Faraci;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pedicini Ettore, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso;
RILEVATO
che:
In data 22/12/2009 l’Agenzia delle Entrate notificava a P.M.N. avvisi di accertamento n. ***** e n. ***** riferiti all’anno di imposta 2003, per il pagamento di IVA pari ad Euro 5.948,00, IRAP pari ad Euro 2.825,00, ritenute IRPEF alla fonte pari ad Euro 6.180,00 Addizionale Regionale all’IRPEF pari ad Euro1.053,00, Addizionale Comunale all’IRPEF pari ad Euro216,00, oltre sanzioni e interessi.
Tali avvisi erano emessi a seguito dell’omessa dichiarazione dell’IVA D.P.R. n. 322 del 1998, ex art. 8 e contestuale omessa dichiarazione ai fini IRAP del D.Lgs. n. 446 del 1997, ex art. 19.
La contribuente, in data 16/6/2010, presentava ricorso alla CTP di Bari contro i due avvisi e la CTP adita, riuniti i ricorsi, con sentenza pronunciata il 2/12/2010 rigettava i ricorsi riuniti ritenendo infondate le ragioni addotte dalla ricorrente.
Avverso tale sentenza la contribuente presentava appello in data 19/7/2011 avanti alla CTR di Bari, che, con sentenza pronunciata il 19 novembre 2012 e depositata il giorno 11 febbraio 2013, rigettava l’appello proposto, confermando la sentenza impugnata.
Contro la sentenza della CTR della Puglia propone ricorso per cassazione la contribuente deducendo due motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. In via preliminare va considerata l’eccezione di inammissibilità del ricorso avanzata dall’Agenzia delle Entrate, in quanto manca la sintesi del fatto processuale; in violazione del principio di autosufficienza la ricorrente ha riprodotto il testo della sentenza impugnata, violando in tal modo il principio di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1 n. 3.
L’eccezione non è fondata.
Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. SS.UU. n. 16628/2009) hanno osservato che” Il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, previsto dall’art. 366 c.p.c., n. 3, è preordinato allo scopo di agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa, l’esito dei gradi precedenti con eliminazione delle questioni non più controverse ed il tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura “.
E’ stato, altresì, precisato che costituisce onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale di atti e documenti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore.
La tecnica espositiva adottata nel ricorso in esame ed articolata nei motivi, consente alla Corte di percepire pienamente il fatto sostanziale e lo svolgimento del fatto processuale; nel caso di specie non manca quella sintesi funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure mosse alla sentenza impugnata in cui si sostanzia il principio di autosufficienza del ricorso, senza onerare la Corte stessa del compito di procedere alla lettura degli atti e documenti riprodotti, similmente a quanto avviene in ipotesi di mero rinvio ad essi.
Non ravvisandosi pertanto alcuna violazione del principio di autosufficienza, la proposta eccezione è inammissibile.
2. Con il primo motivo di ricorso – Violazione e/o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 – difetto di motivazione per violazione L. n. 241 del 1990, art. 3 e L. n. 212 del 2000, art. 7 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la ricorrente lamenta che la CTR abbia ritenuto insussistente la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, in quanto “sono facilmente riscontrabili le ragioni che non hanno consentito all’Amministrazione finanziaria l’osservanza del termine previsto dalla norma per emettere l’avviso di accertamento”; nella sentenza impugnata si legge ancora ” poichè il p.v.c. è stato redatto il 6/11/2009 non era possibile attendere i canonici 60 giorni per emettere e notificare l’avviso di accertamento dell’anno 2010" perchè “l’atto sarebbe stato tardivo in quanto emesso oltre il termine massimo del 31/12/2009, previsto dalla normativa vigente con la sua conseguente nullità”.
Il prospettato motivo è infondato.
Infatti il presupposto di tutti “i diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali ” come recita la rubrica della L. n. 212 del 2000, art. 12, risulta ben delineato nel comma 1 dello stesso articolo che fa espresso riferimento agli accessi, ispezioni e verifiche fiscali “nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali”.
Nel caso di specie non vi è stato alcun accesso, alcuna ispezione od alcuna verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività agricola della ricorrente, in quanto, come ben emerge dalla sentenza impugnata, ” le operazioni di verifica si sono svolte nella sede operativa della g.d.f. e per due soli giorni c/o lo studio del consulente”: in simile situazione caratterizzata dalla totale mancanza del presupposto previsto dalla L. n. 212 del 2000, art. 12, la ricorrente non può lamentare nè l’emissione, da parte dell’Amministrazione finanziaria, degli avvisi di accertamento prima della scadenza del termine di sessanta giorni concessi al contribuente per presentare osservazioni e richieste nè la mancata esposizione, negli avvisi di accertamento, delle ragioni che hanno giustificato l’urgenza dell’emissione stessa.
Va inoltre osservato che, nel caso di specie, non trova alcuna applicazione, per l’avviso di accertamento n. ***** relativo all’IVA, tributo “armonizzato”, il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte con sentenza 9 dicembre 2015, n. 24823 in quanto la contribuente non ha in alcun modo enunciato nè tanto meno illustrato nei gradi di giudizio le concrete ragioni che avrebbe potuto far valere in contraddittorio con l’Amministrazione Finanziaria.
3. Con il secondo motivo – Violazione e/o falsa applicazione D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 – Insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – si deduce come vizio della sentenza impugnata l’omesso riferimento a fatti rilevanti ai fini della decisione adottata; in particolare, la ricorrente lamenta che con il lapidario richiamo alla circostanza che la norma di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12" sui termini per l’emissione degli avvisi di accertamento non prevede per la sua inosservanza, la nullità dell’atto” abbia consentito alla CTR di non “eseguire la necessaria valutazione di merito”.
Anche tale motivo è infondato.
Nel caso di specie infatti trova applicazione ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata il giorno 11 febbraio 2013 quindi successivamente al 12 settembre 2012, data di entrata in vigore della L. n. 134 del 2012, art. 54, ed il vizio della motivazione è deducibile soltanto in termini di “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”. In seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 “non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.” (Vedi Sez. Un. 8053 del 2014 e tra le tante conformi Cass. n. 21257 del 2014; n. 23828 del 2015; n. 23940 del 2017).
“Il nuovo testo del dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 introduce dunque nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente è tenuto ad indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (così da ultimo Cass. 4198/2019).
4.Sulla base delle superiori considerazioni il ricorso non merita accoglimento e va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza, quindi la parte ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore dell’Agenzia delle Entrate, come liquidate in dispositivo.
Sussistono i requisiti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo dovuto a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 bis.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, e condanna il ricorrente al pagamento delle spese in favore dell’Agenzia delle Entrate, che liquida in Euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 14 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019