Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.13783 del 22/05/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

Dott. BILLI Stefania – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 15694-2013 proposto da:

D.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA APPIA NUOVA N. 679, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO MARIA BARBANTINI, rappresentato e difeso dall’avvocato SALVATORE DINACCI, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE SANTA MARIA CAPUA VETERE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DONATELLO 71 C/O DOTT. FALCONI, presso lo studio dell’avvocato PIERPAOLO BAGNASCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE CIARAMELLA, giusta procura a margine;

– resistente –

avverso la sentenza n. 384/2012 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI, depositata il 17/12/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/04/2019 dal Consigliere Dott. DE MASI ORONZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE GIOVANNI, che ha concluso per la cessata materia del contendere e in subordine per l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato CIARAMELLA che ha chiesto l’inammissibilità e in subordine il rigetto.

FATTI DI CAUSA

Con l’impugnata sentenza n. 384/45/12, depositata il 17/12/2012, la Commissione Tributaria Regionale della Campania respingeva l’appello proposto da D.S. e confermava la decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, che aveva respinto il ricorso con cui il predetto contribuente si era opposto all’avviso di accertamento (n. *****), emesso dal Comune di Santa Maria Capua Vetere, per il recupero della imposta comunale sugli immobili (ICI), relativamente all’annualità 2005, lamentando, tra l’altro, il difetto di legittimazione passiva rispetto a talune particelle catastali, erroneamente ritenute di sua proprietà, ed invece di proprietà dei G.F. ed D.E., circostanza ricavabile dalle risultanze dell’allegato atto di divisione del 22/12/2003, a rogito del notaio Cerini, registrato il 12/1/2004 e trascritto il 23/1/2004, nonchè dalle specifiche contestazioni concernenti i dati catastali considerati dall’ente impostore.

Ad avviso del Giudice di appello assume rilievo conclusivo il fatto che “il contribuente non ha presentato la prescritta dichiarazione ai fini ICI, con la conseguenza che non v’era modo da parte del Comune stesso di accertare l’imposta dovuta (…) se non attraverso l’esame degli atti ufficiali, ricavabili dalla competente Agenzia del Territorio”, che “le risultanze catastali emergenti relativamente all’anno 2005, per un errore di comunicazione dati da parte del notaio, rogante, sono state utilizzate dal Comune di Santa Maria Capua Vetere per effettuare l’imposizione ICI”, che inoltre l’ente impositore “ha dichiarato nelle controdeduzioni presentate, senza che in proposito parte appellante ne abbia contrastato l’assunto, di aver emesso l’accertamento n. ***** in sostituzione del precedente n. *****, al fine di renderlo conforme alle percentuali di possesso” reali, cosa che esclude un effettivo pregiudizio per il contribuente.

Avverso la sentenza della CTR il D. propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, mentre il Comune si è riservato di partecipare all’udienza di discussione.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza impugnata, giacchè il giudice di appello ha omesso di pronunciarsi sulla questione del difetto di legittimazione passiva del contribuente, risolta dalla sentenza di prime cure con una motivazione inadeguata, e fatta oggetto di specifica censura, avuto riguardo alle particelle catastali riportate nell’avviso di accertamento n. *****.

La censura si appalesa inammissibile in quanto l’omessa pronuncia su un motivo di gravame non costituisce una violazione che integra un “error in procedendo”, deducibile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove la decisione adottata si risolva in un implicito diniego della pretesa o eccezione fatta valere dalla parte, in quanto non basta la mancanza al riguardo di una espressa argomentazione del giudice, e la impugnata sentenza di secondo grado, in merito alla titolarità passiva dell’imposta, risponde alla questione posta dal contribuente, evidenziando la circostanza che le risultanze catastali possono essere legittimamente utilizzate dall’ente impositore per attribuire ad un soggetto la titolarità di un immobile, al fine di chiedere ad esso l’assolvimento dell’imposta, gravando sul proprietario, o titolare di altri diritti reali, l’onere della prova diretta all’esenzione dal pagamento dell’imposta, ovvero la carenza del possesso che ne costituisce la condizione di fatto.

La sentenza di secondo grado, peraltro, risulta conforme alla giurisprudenza di questa Corte secondo cui “In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), la proprietà o altro diritto reale sul bene, che rappresentano, del D.Lgs. n. 504 del 1992, ex art. 3, il presupposto impositivo del tributo, possono essere provati dall’ente impositore anche tramite le annotazioni risultanti dai registri catastali, che, pur non costituendo prova dei predetti diritti, in quanto preordinati a fini squisitamente fiscali, fanno sorgere una presunzione “de facto” di veridicità delle loro risultanze, ponendo a carico del contribuente l’onere di fornire la prova contraria.” (Cass. n. 13061/2017, n. 14420/2010, e da ultimo n. 16775/2017).

Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 10,comma 4, e art. 3, comma 2, giacchè il giudice di appello ha respinto il gravame dando rilievo al fatto che era stata omessa, da parte del contribuente, la dichiarazione ICI del 2005, condotta che non legittima l’esercizio della pretesa impositiva per porzioni immobiliari di cui il contribuente non sia effettivamente proprietario o possessore, non essendo pertinente il richiamo alla possibilità di rivalersi nei confronti del reale proprietario o possessore dei beni, considerato che l’atto di divisione a rogito del notaio C., debitamente registrato e trascritto, è l’unico titolo in grado di costituire prova del diritto dominicale in relazione alle singole quote assegnate ai condividendi.

La censura è infondata, e va disattesa, in quanto il Comune di Santa Maria Capua Vetere, nell’esercizio dell’attività di accertamento ad esso demandata, ha provveduto ad emettere l’impugnato avviso di accertamento d’ufficio per omessa presentazione e versamento dell’ICI, sulla base dell’esame degli “atti ufficiali, ricavabili dall’Agenzia del Territorio”, che sono quelli accessibili dall’ente impositore, e “nel rispetto delle regole sancite dal D.Lgs. n. 504 del 1992”.

Ne discende che non assume rilievo decisivo, ai fini qui considerati, il richiamo ancorchè erroneo – alla possibilità del contribuente di rivalersi “nei confronti della parte cui effettivamente sarebbe stato dovuto il tributo”, stante il principio generale, operante anche in tema di ICI, secondo il quale ogni pagamento indebito legittima una richiesta di restituzione, per cui il contribuente ha diritto al rimborso in tutte le ipotesi di versamento di somme non dovute, sia pure nel rispetto del termine decadenziale “ratione temporis” applicabile (cfr. D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 13, comma 1, L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 164, e Cass. n. 2112/2017), trattandosi in ogni caso di questione estranea al “thema decidendum”.

Con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3, comma 2, omessa e contraddittoria motivazione sul punto del mancato riconoscimento di tale difetto di motivazione della sentenza di primo grado in relazione alle particelle richiamate nell’avviso di accertamento n. *****, stante l’impossibilità di identificarle, qualificarle ed attribuirle al contribuente.

Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, violazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 3,comma 2, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, giacchè sia il giudice di primo grado, che quello di appello, hanno attribuito alla nota di trascrizione del 7/3/2006 n. *****, con cui il notaio rogante aveva provveduto ad una rettifica di quella precedente, l’efficacia di una insussistente rettifica dell’atto di divisione, con il quale erano state attribuite agli originari comunisti distinte quote di proprietà, atto quest’ultimo in nulla modificato, come attestato dallo stesso notaio rogante.

Le suesposte censure, considerato che la sentenza di merito impugnata risulta pubblicata dopo il giorno 11/9/2012, si appalesano non più ammissibili nel ricorso per cassazione, stante la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, “in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia.” (tra le tante, Cass. n. 23940/2017, Sez. Un. 8053/2014).

Ne deriva, infatti, che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, “se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie” (Cass. Sez. Un. 19881/2014, Cass. n. 8053/2014, n. 11025/2014).

Nel caso di specie, la CTR, come si ricava dalla motivazione dell’impugnata sentenza, ha preso in considerazione, esaminandoli e valutandoli, quegli elementi (espressioni utilizzate dall’avvocato nella lettera inviata all’avvocato di controparte), ritenuti rilevanti per la decisione del caso concreto, ed all’esito, è pervenuta ad un “decisum” di segno opposto rispetto a quanto prospettato dal contribuente, ritenendo che le percentuali di possesso indicate nell’atto di divisione corrispondono a quelle considerate dal Comune nell’avviso di accertamento n. *****, come integrato dal successivo avviso di accertamento n. *****, quest’ultimo, si legge nella sentenza, emesso “in sostituzione del precedente n. *****, al fine di renderlo conforme alle percentuali di possesso” reali, cosa che esclude un concreto pregiudizio per il contribuente.

Con il quinto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e n. 5, violazione degli artt. 345 e 115 c.p.c., giacchè il giudice di appello ha ritenuto che la successiva notifica dell’avviso di accertamento n. *****, sostitutivo di quello n. *****, ed in grado di rendere l’accertamento tributario conforme alle reali percentuali di possesso, trattandosi di produzione di documento nuovo, inammissibile in appello, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 58, e comunque che non integra la prova che grava a carico del Comune.

Alla luce del principio, reiteratamente affermato da questa Corte (tra la tante, Cass. n. 8927/2018), secondo cui, “In tema di contenzioso tributario, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 58, comma 2, le parti possono produrre in appello nuovi documenti, anche ove preesistenti al giudizio di primo grado, ferma la possibilità di considerare tale condotta ai fini della regolamentazione delle spese di lite, nella quale sono ricomprese, ex art. 15 del detto decreto, quelle determinate dalla violazione del dovere processuale di lealtà e probità”, è infondata la censura laddove esclude la legittimità dell’intervenuto deposito dell’avviso di accertamento n. *****.

Va, tuttavia, ricordato l’orientamento di questa Corte secondo cui il potere di accertamento integrativo ha per presupposto un atto (l’avviso di accertamento originariamente adottato) che continua ad esistere e non viene sostituito dal nuovo avviso di accertamento, il quale, nella ricorrenza del presupposto della conoscenza di nuovi elementi da parte dell’ufficio, integra e modifica l’oggetto ed il contenuto del primitivo atto cooperando all’integrale determinazione progressiva dell’oggetto dell’imposta, conservando ciascun atto la propria autonoma esistenza ed efficacia, con tutte le conseguenze che ne derivano anche in tema di impugnazione (Cass. n. 2424/2010), e che l’atto di autotutela, al contrario, il quale assume ad oggetto un precedente atto di accertamento che è illegittimo, in tutto o in parte, ed al quale si sostituisce con innovazioni che possono investire gli elementi strutturali dell’atto, costituiti dai destinatari, dall’oggetto e dal contenuto, può condurre alla eliminazione dal mondo giuridico del precedente o alla sua eliminazione e contestuale sostituzione con un nuovo provvedimento diversamente strutturato (Cass. n. 25/2002, n. 15874/2009).

Orbene, la sentenza impugnata non dà conto di tale distinzione, rilevante ai fini delle conseguenze in tema di impugnazione (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 46), quanto alla permanenza dell’interesse ad agire ed a contraddire, atteso che il riferimento alla nozione di “sostituzione”, da parte dell’Ufficio, dell’avviso di accertamento recante il n. ***** con quello n. *****, piuttosto che a quella di “integrazione” di detto originario atto, stante il fatto che il secondo avviso venne dichiaratamente emesso “in rettifica del provvedimento” impositivo precedente, a seguito della proposizione del ricorso giurisdizionale del contribuente, ed “in riscontro dell’atto di divisione (…) reg. il 23/1/2004 successivamente rettificato con nota n. ***** del 7/3/2006 reg. 6824”, avrebbe comportato l’esplicita verifica, da effettuare sulla base della effettiva connotazione dell’atto successivamente emesso, circa la possibilità per il processo concernente l’impugnazione dell’atto “sostituito”, di proseguire, o meno, per sopravvenuta carenza di interesse ad ottenere una pronuncia sull’impugnazione di un atto già annullato in sede di autotutela.

L’oggetto del processo tributario, per il meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio che lo caratterizza, è costituito dall’accertamento della legittimità della pretesa tributaria avanzata con l’atto impugnato, alla stregua dei presupposti di fatto e in diritto in tale atto indicati (Cass. n. 17119/2007), profilo rispetto al quale l’assenza di pregiudizio per il contribuente, stante la disposta riduzione dell’ammontare dell’imposta inizialmente pretesa, di per sè non appare pertinente, considerato che anche l’atto successivamente emesso si assume autonomamente impugnato dal contribuente davanti al giudice tributario.

Pertanto, entro i suesposti limiti la censura merita di essere accolta, e la sentenza di appello cassata, con rinvio alla medesima CTR che, in diversa composizione, provvederà anche alla regolamentazione delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quinto motivo di ricorso nei limiti di cui in motivazione, dichiara inammissibili il primo, il terzo ed il quarto motivo, rigetta il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 4 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019

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