LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –
Dott. CAVALLARI Dario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 10174-2016 proposto da:
ALBA 1 SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato RENATO MARIA D’AMELJ giusta delega in calce;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI CANDELA UFFICIO TRIBUTI;
– intimato –
Nonchè da:
COMUNE DI CANDELA UFFICIO TRIBUTI in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA SESTIO CALVINO 33, presso lo studio dell’avvocato LUCIANA CANNAS, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato SERGIO ALVARO TROVATO giusta delega a margine;
– controricorrente incidentale –
contro
ALBA 1 SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in ROMA P.ZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’Avvocato RENATO MARIA D’AMELJ giusta delega in calce;
– controricorrente all’incidentale –
avverso la sentenza n. 2199/2015 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di FOGGIA, depositata il 16/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/04/2019 dal Consigliere Dott. CAPRIOLI MAURA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEDICINI ETTORE che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento del ricorso incidentale;
udito per il ricorrente l’Avvocato D’AMELJ che ha chiesto l’accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale;
udito per il controricorrente l’Avvocato CANNAS che si riporta e chiede l’accoglimento del ricorso incidentale, rigetto del ricorso principale.
Con sentenza nr. 2199/2015 la CTR di Bari, sezione distaccata di Foggia, accoglieva parzialmente l’appello proposto da Alba 1 s.r.l. nei confronti di Comune di Candela avverso la decisione della CTP la quale aveva rideterminato l’Ici dovuta per l’anno 2011 in relazione all’impianto fotovoltaico stabilendo per i primi sei mesi il calcolo dell’imposta dovesse avvenire sulla base dei valori di bilancio e per i mesi successivi sulla base del valore catastale attribuito dalla società con il sistema Docfa.
La decisione gravata confermava la pronuncia di primo grado per quanto riguarda i criteri di computo dell’Ici escludendo tuttavia l’applicazione delle sanzioni per le difficoltà interpretative e per la mancanza di univocità di orientamento in merito alle problematiche introdotte in causa.
Riteneva inoltre non sussistenti le condizioni che giustificano la sospensione del giudizio ex art. 295 c.p.c. per due ordini di ragioni la prima era legata al fatto che il calcolo dell’Ici era stato eseguito sulla base della rendita proposta dalla contribuente e che pertanto la definizione del giudizio sul valore catastale non assumeva alcun rilievo; la seconda fondata sulla mancanza di pendenza di alcun procedimento.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società Alba 1 s.r.l. affidandolo a due motivi.
Si è costituito il Comune di Candela con controricorso e ricorso incidentale cui ha replicato la società ricorrente la quale ha anche depositato memoria illustrativa.
Con il primo motivo la società Alba 1 s.r.l. ha denunciato la violazione e la falsa applicazione dell’art. 295 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c. lamentando che il Giudice di appello non avrebbe considerato che al momento della celebrazione dell’udienza di merito erano ancora pendenti i termini per l’impugnazione della sentenza pregiudiziale relativa al classamento e alla rendita catastale che è stata successivamente proposta.
Con un secondo motivo ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c..
Sostiene che la CTR avrebbe non correttamente operato alla luce dell’eccezione formulata dal Comune in sede giudiziale un ricalcolo dell’imposta evasa che non era stata prevista nell’avviso di accertamento.
La censura relativa al primo motivo è inammissibile.
Occorre ricordare che “Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (Cass. civ., Sez. 3, Sentenza n. 2108 del 14/02/2012; Cass. 2017 nr. 9752).
Nel caso di specie la CTR ha escluso la sussistenza dei presupposti per disporre la sospensione del processo sulla base di due ordini di considerazioni la prima basata sull’assenza del rapporto di pregiudizialità e la seconda sulla mancanza di una pendenza del giudizio presupposto.
La prima ragione non è stata però oggetto di specifico motivo di ricorso (in particolare dovendo osservarsi che la stessa non costituisce oggetto del primo motivo, si fa riferimento alla diversa affermazione concernente la mancanza della pendenza del giudizio presupposto) Trova quindi applicazione il principio sopra enunciato.
A tale assorbente considerazione va poi aggiunto che secondo la consolidata e condivisa opinione di questa Corte quando tra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità e quello pregiudicante sia stato definito come nella specie con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato può essere disposta soltanto ai sensi dell’art. 337 c.p.c., comma 2, sicchè, ove il giudice abbia provveduto in forza dell’art. 295 c.p.c., il relativo provvedimento è illegittimo e deve essere, dunque, annullato, ferma restando la possibilità, da parte del giudice di merito dinanzi al quale il giudizio andrà riassunto, di un nuovo e motivato provvedimento di sospensione ai sensi del menzionato art. 337 c.p.c., comma 2 (Sez. 6, n. 13823, 7//2016, Rv. 640357; n. 798/2015, Rv. 634272); Cass. 2018 nr. 17936).
Con riguardo al secondo profilo di censura è principio consolidato di questa Corte e condiviso dal Collegio, quello secondo cui “Il processo tributario è annoverabile tra quelli di “impugnazione-merito”, in quanto diretto ad una decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell’accertamento dell’Ufficio, sicchè il giudice, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte, restando, peraltro, esclusa dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 35, comma 3, ultimo periodo, la pronuncia di una sentenza parziale solo sull'”an” o di una condanna genetica” (Cass. n. 13294 del 28/06/2016, in termini, tra le tante, Cass. n. 24611 del 2014, n. 26157 del 2013, n. 13034 del 2012 nonchè Cass., Sez. U., n. 13916 del 2006). Principio, questo, che muove sulla scia di quello, analogamente condivisibile, secondo cui “Il processo tributario è a cognizione piena e tende all’accertamento sostanziale del rapporto controverso, con la conseguenza che solo quando l’atto di accertamento sia affetto da vizi formali a tal punto gravi da impedire l’identificazione dei presupposti impositivi e precludere l’esame del merito del rapporto tributario – come nel caso in cui vi sia difetto assoluto o totale carenza di motivazione – il giudizio deve concludersi con una pronuncia di semplice invalidazione, ostandovi altrimenti il principio di economia dei mezzi processuali, che consente al giudice di avvalersi dei propri poteri valutativi ed estimativi ai fini della decisione e, in forza dei poteri istruttori attribuiti dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 7, di acquisire “aliunde” i relativi elementi, prescindendo dagli accertamenti dell’Ufficio e sostituendo la propria valutazione a quella operata dallo stesso” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 11935 del 13/07/2012,Cass. nr. 25629/2018).
Pertanto, quando “il giudice (…) ravvisa l’infondatezza parziale della pretesa dell’amministrazione, non deve nè può limitarsi ad annullare l’atto impositivo, ma deve quantificare la pretesa tributaria entro i limiti posti dal “petitum” delle parti” (Cass. n. 17072 del 2010), dando “alla pretesa dell’amministrazione un contenuto quantitativo diverso da quello sostenuto dalle parti contendenti, avvalendosi degli ordinari poteri di indagine e di valutazione dei fatti e delle prove consentiti dagli artt. 115 e 116 c.p.c., (…) in tal modo determinando il coretto criterio di calcolo senza che ciò costituisca attività amministrativa di nuovo accertamento, rappresentando invece soltanto l’esercizio dei poteri di controllo, di valutazione e di determinazione del quantum della pretesa tributaria” (Cass. n. 17952 /2018), oppure costituisca violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, come erroneamente ritenuto dalla ricorrente, essendo chiaramente consentito al giudice tributario, in un giudizio che non è solo “sull’atto”, da annullare, ma anche e principalmente sul rapporto sostanziale tra amministrazione finanziaria e contribuente, la riduzione della pretesa avanzata dalla prima con l’atto impositivo.
Nel caso in esame il Giudice di appello, nel condividere il ragionamento seguito dalla Commissione Provinciale relativamente alle modalità di computo dell’imposta, non ha posto a fondamento della decisione ragioni diverse da quelle dell’atto impugnato.
La CTR, prendendo a riferimento la data di presentazione della dichiarazione Docfa, ha infatti ritenuto corretta l’applicazione del criterio contabile per il periodo dal 1.1.2011 fino al 30.6.2011 e del criterio reddituale per il periodo successivo alla data dell’accatastamento richiesto con ciò conformandosi ai dettami del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5,comma 3, e all’interpretazione che di esso ha dato la Suprema Corte.
In questa prospettiva si è chiarito che “In tema di ICI, il metodo di determinazione della base imponibile collegato alle iscrizioni contabili, previsto dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 5, comma 3, per i fabbricati classificabili nel gruppo catastale D, non iscritti in catasto, interamente posseduti da imprese e distintamente contabilizzati, fino all’anno nel quale i medesimi sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita, vale sino a che la richiesta di attribuzione della rendita non viene formulata, mentre, dal momento in cui fa la richiesta, il proprietario, pur applicando ormai in via precaria il metodo contabile, diventa titolare di una situazione giuridica nuova derivante dall’adesione al sistema generale della rendita catastale, sicchè può essere tenuto a pagare una somma maggiore (ove intervenga un accertamento in tali sensi), o avere diritto di pagare una somma minore, potendo, quindi, chiedere il relativo rimborso nei termini di legge” (Cass. SSUU n. 3160/11).
Se è pur vero che il suddetto principio di diritto ammette una (parziale) efficacia retroattiva dell’accatastamento con attribuzione di rendita, è altrettanto vero che ciò può avvenire non oltre la data di presentazione della relativa istanza da parte del contribuente; data a partire dalla quale il contribuente stesso partecipa di un nuovo regime giuridico, facendo per ciò solo decorrere un arco temporale di sospensione e conguaglio in dare o avere fin visto l’esito dell’istanza.
Nel caso di specie costituisce dato pacifico di causa che l’istanza di accatastamento sia stata dalla società presentata nel giugno 2011, con la conseguenza che – per la frazione di anno antecedente (gennaio/giugno) essa non poteva sortire alcun effetto sulla determinazione della base imponibile, trattandosi di annualità ancora assoggettata al regime del valore di libro ex art. 5, comma 3, cit.; disposizione che, appunto, stabilisce che tale regime debba operare “fino all’anno nel quale i medesimi sono iscritti in catasto con attribuzione di rendita”.
Il ricorso principale va pertanto rigettato.
Occorre esaminare il motivo di contestazione posto a base del ricorso incidentale con cui è stata censurata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 6, comma 2 e D.Lgs. n. 212 del 2000, art. 10, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.
Lamenta il Comune che il giudice di appello pur ritenendo fondata la pretesa impositiva e corretto il criterio di calcolo dell’imposta relativa all’anno in contestazione non poi ritenuto sussistenti le condizioni per applicare la corrispondente sanzione per una pretesa difficoltà interpretativa della norma e per una mancanza di univocità degli orientamenti giurisprudenziali.
Osserva infatti che, diversamente da quanto affermato dalla CTR, non sussistevano alcune delle condizioni menzionate che potevano giustificare l’annullamento delle sanzioni irrogate.
Il motivo è fondato.
Occorre ricordare che in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, postula una condizione di inevitabile incertezza su contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, nè a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, nè all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (cfr. Cass. 23 novembre 2016, n. 23845; Cass. 22 febbraio 2013, n. 4522).
Tale condizione ricorre quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, contenga una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione, il cui onere di allegazione grava sul contribuente (cfr. Cass. 14 gennaio 2015, n. 440; Cass. 14 marzo 2012, n. 4031).
Nel caso in esame, non è ravvisabile una simile incertezza normativa oggettiva, avuto riguardo alla possibilità di individuare con sicurezza ed univocamente la norma giuridica in oggetto e, al tempo stesso, alla mancata allegazione da parte della ricorrente di indici quali, ad esempio, l’esistenza di specifici e rilevanti contrasti giurisprudenziali – sintomatici della ricorrenza di un siffatto stato.
Il ricorso incidentale va accolto e conseguentemente la sentenza va cassata limitatamente alle sanzioni che sono dovute.
Le spese relative alla presente fase vanno poste a carico della società Alba 1 s.r.l. e liquidate in dispositivo secondo i criteri del D.M. n. 37 del 2018.
P.Q.M.
La Suprema Corte:
Rigetta il ricorso principale; accoglie quello incidentale e per l’effetto cassa la sentenza impugnata limitatamente alle sanzioni che sono dovute; condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese processuali che si liquidano in Euro 3500,00 oltre accessori di legge ed al 15% per spese generali dà atto, ai sensi del D.P.R. n. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione tributaria, il 2 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019
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