LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –
Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –
Dott. CAPRIOLI Maura – rel. Consigliere –
Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –
Dott. CAVALLARI Dario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 12249-2016 proposto da:
COMUNE DI CARAVAGGIO in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo studio dell’avvocato ALESSIO PETRETTI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIANFRANCO MARCHESI giusta delega a margine;
– ricorrente –
contro
ITALIANA ASSICURAZIONI SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLE QUATTRO FONTANE 20, presso lo studio dell’avvocato CAPPELLI & PARTNERS S/T GIANNI ORIGONI GRIPPO, rappresentato e difeso dall’avvocato NICOLA MARIA BOELLA giusta delega in calce;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 4900/2015 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di BRESCIA, depositata il 12/11/2015;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/04/2019 dal Consigliere Dott. CAPRIOLI MAURA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PEDICINI ETTORE che ha concluso per l’inammissibilità o in subordine il rigetto del ricorso;
udito per il ricorrente l’Avvocato PETRETTI per delega dell’Avvocato MARCHESI che si riporta e chiede raccoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato BOELLA che ha chiesto il rigetto.
Con sentenza nr. 4900/2015 la CTR di Milano, sezione distaccata di Brescia, rigettava l’appello proposto dal Comune di Caravaggio nei confronti di Italiana Assicurazioni s.p.a. avverso la sentenza della CTP con cui erano stati accolti sei ricorsi riuniti ed annullati gli avvisi di accertamento relativamente all’Ici per gli anni 2003, 2004, 2005, 2006 e 2007.
Il giudice del gravame rilevava che gli avvisi di accertamento emessi dal Comune di Caravaggio erano fondati sulla comparazione fra il valore del fabbricato dichiarato dalla parte e quello dovuto in base alla rettifica della rendita catastale operata dall’Agenzia del territorio a seguito d procedura Docfa avviata dalla parte.
Osservava che detta rettifica, come già affermato dalla CTP, era stata annullata con sentenza definitiva dalla CTR sicchè era venuto meno il presupposto in base al quale era stato emesso l’atto di accertamento. Sottolineava poi che la questione relativa al mancato versamento dell’imposta dovuta in base alla procedura Docfa esulava dalla materia del contendere e che avrebbe dovuto essere oggetto di separata azione.
Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione il Comune di Caravaggio fondato su due motivi.
Si è costituita la società Italiana Assicurazioni s.p.a. eccependo l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e dell’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5 e proponendo domanda di condanna per lite temeraria.
Il Comune ha depositato memoria integrativa.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
Sostiene infatti che gli avvisi di accertamento oggetto di impugnativa erano stati emessi sulla base delle risultanze dell’Agenzia del territorio che aveva effettuato una variazione della rendita catastale innalzandola ad Euro 38.743,00. Osserva poi che a seguito dell’intervenuto annullamento della suddetta rendita con sentenza ormai divenuta irrevocabile da parte della CTR di Milano, sezione distaccata di Brescia, la CTP di Bergamo avrebbe dovuto procedere ad una rideterminazione dell’imposta da riprendere a tassazione e non già rilevare la sopravvenuta carenza del presupposto.
Afferma che, contrariamente a quanto sostenuto dal giudice di appello, l’oggetto degli avvisi di accertamento non era tanto e solo la determinazione della rendita catastale operata dall’Agenzia del territorio ma la riscontrata difformità fra quanto dichiarato ai fini Ici dalla società in relazione alle annualità oggetto di accertamento e l’effettiva situazione di fatto riscontrata. Difformità che integrava gli estremi della dichiarazione omessa o infedele ai sensi del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2.
Sostiene pertanto che la determinazione in modo incongruo della renditar catastale da parte dell’Agenzia del territorio inciderebbe sull’adeguatezza è sull’esattezza degli avvisi senza provocare la caducazione del provvedimento per carenza di un suo presupposto.
Osserva infatti che la pretesa impositiva potrebbe essere ricondotta ad equità assumendo come punto di riferimento la rendita dichiarata dal contribuente in sede di denuncia di variazione e disporre la rideterminazione del tributo sulla base di questo nuovo parametro di computo.
Con un secondo motivo il ricorrente si duole della non corretta applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, commi 336 e 377 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Lamenta infatti che il giudice di appello non avrebbe fatto buon governo dei principi richiamati dalla sopra citata normativa la cui corretta esegesi non consentirebbe di pervenire ad un annullamento dell’avviso sottolineando che da un lato una tale statuizione precluderebbe di procedere ad una variazione in sede di autotutela dell’atto impositivo che non esiste e dall’altro non permetterebbe di riemettere gli avvisi sulla base della nuova rendita catastale essendosi nel frattempo esaurito il potere impositivo dell’amministrazione. Va preliminarmente esaminata la questione di rito sollevata dalla controricorrente in relazione a prospettati vizi di inammissibilità in cui sarebbe incorsa la ricorrente nella redazione del ricorso.
Denuncia infatti che il primo motivo del ricorso sarebbe inammissibile per violazione dell’art. 38 ter c.p.c., commi 4 e 5.
Sostiene infatti che in presenza di una duplice pronuncia favorevole della contribuente la sentenza di appello avrebbe dovuto essere censurata unicamente per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4 e non già per vizio di motivazione.
Denuncia altresì un ulteriore profilo di inammissibilità in relazione all’art. 366 c.p.c., comma 1 (principio di autosufficienza).
Afferma infatti che qualora la ricorrente avesse voluto censurare la sentenza di II grado ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, avrebbe dovuto dimostrare in forza del richiamato principio di autosufficienza che la sentenza di primo e di secondo grado si fondavano su ragioni di fatto assolutamente differenti.
Le obiezioni mosse dalla controricorrente sono fondate.
Va in primo luogo osservato che, come testualmente previsto dall’art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5, la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado per le medesime ragioni inerenti questioni di fatto poste a base della decisione appellata può essere impugnata unicamente per i motivi di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 2, 3 e 4, ma non anche per un vizio motivazionale riconducibile allo stesso articolo, n. 5 (Cass. 7 maggio 2018 n. 10897, non massimata; Cass. 22/12/2016 n. 26774; Cass. 10/03/2014 n. 5528).
Il ricorrente in cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 – deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse.
Onere questo che non è stato assolto dal ricorrente che si è limitato ad allegare, in sede di memoria integrativa una diversità delle ragioni di fatto e diritto poste a base della gravata decisione, non desumibile dalla sentenza impugnata la quale ha invero condiviso le conclusioni raggiunte dal primo Giudice relativamente al venir meno del presupposto impositivo per effetto dell’annullamento della rendita catastale determinata dall’Agenzia del territorio sicchè per quanto sopra detto non è configurabile la dedotta violazione.
Va comunque osservato che a prescindere dai profili di inammissibilità il motivo è infondato nel merito.
Occorre infatti ricordare che la motivazione dell’avviso (di accertamento o di rettifica), presidiata dalla L. n. 212 del 2000, art. 7, ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’ufficio nel successivo giudizio di merito, e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an e il quantum della pretesa tributaria al fine di approntare una idonea difesa. Giustappunto in virtù di codesta funzione, l’obbligo della motivazione dell’avviso di accertamento o di rettifica deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti all’idoneità del criterio applicato in concreto attengono, poi, al diverso piano della prova della pretesa tributari.
La motivazione dell’atto tributario costituisce, in tale prospettiva, uno strumento essenziale di garanzia del contribuente, soggetto inciso nella propria sfera giuridica dall’amministrazione finanziaria nell’esercizio del suo potere di imposizione fiscale, e si inserisce nell’ambito di quei presidi di legalità che, anche in forza delle norme dello statuto dei diritti del contribuente (v. l’art. 7), assolvono l’essenziale funzione di garantire la conoscenza e l’informazione dello stesso contribuente in ordine ai fatti posti a fondamento della pretesa fiscale e ai presupposti giuridici della stessa, nel quadro dei principi generali di collaborazione, trasparenza e buona fede che devono improntare, in quanto espressivi di civiltà giuridica, i rapporti tra esso e l’amministrazione.
Ne derivano due conseguenze: da un lato, che nell’avviso di accertamento, al fine di realizzarne in pieno l’anzidetta finalità informativa, devono confluire tutte le conoscenze dell’ufficio tributario e deve essere esternato con chiarezza, sia pur sinteticamente, l’iter logico-giuridico seguito per giungere alla conclusione prospettata (v. Cass. n. 1905-07); dall’altro, che le ragioni poste a base dell’atto impositivo segnano i confini del processo tributario, che è comunque un giudizio d’impugnazione dell’atto, sì che l’ufficio finanziario non può porre a base della propria pretesa ragioni diverse e/o modificare, nel corso del giudizio, quelle emergenti dalla motivazione dell’atto (v. già Cass. n. 17762-02).
Ciò non esclude, ovviamente, il potere del giudice di qualificare autonomamente la fattispecie posto a fondamento della pretesa fiscale, nè di esercitare d’ufficio alcuni poteri cognitori. Ma sempre che non ne resti alterata la sostanza dell’accertamento in ordine agli elementi da cui esso risulti esser stato informato (v. tra le tante Cass. n. 25726-09; n. 20398-05; n. 22932-05). Nel caso di specie il giudice tributario non avrebbe potuto procedere ad una rideterminazione della pretesa impositiva ponendo a base della stessa un criterio diverso da quello indicato nell’avviso di accertamento assumendo come punto di riferimento la rendita dichiarata dal contribuente.
Da questa premessa non può che discendere l’infondatezza del secondo motivo dedotto con cui nella sostanzia si censura la valutazione degli effetti della pronuncia di annullamento della rendita che, ad avviso del ricorrente, non sarebbe coerente con le previsioni normative menzionate in rubrica.
Il giudice tributario come si è detto non può sostituirsi nel potere impositivo del Comune applicando una rendita diversa da quella richiesta con l’avviso, richiesta peraltro introdotta tardivamente in appello e quindi inammissibile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, che recepisce il divieto di cui all’art. 345 c.p.c. nel processo tributario.
In ogni caso anche a voler seguire il ragionamento del Comune che pretende di applicare l’Ici sulla base della rendita proposta dalla contribuente con la procedura Docfa va osservato che ad essa non può essere riconosciuta efficacia retroattiva.
Gli atti di classamento dei fabbricati con attribuzione della rendita catastale, che costituiscono la base per la determinazione del reddito imponibile relativamente ad una pluralità di tributi (D.P.R. n. 131 del 1986, art. 52, comma 4, e D.L. n. 70 del 1988, art. 12, per l’imposta di registro; D.P.R. n. 643 del 1972, art. 19, per l’In.v.im.; D.P.R. n. 917 del 1986, art. 22, per l’imposta sui redditi; D.Lgs. n. 504 del 1986, art. 5, per l’I.c.i.), sono autonomamente impugnabili (D.P.R. n. 636 del 1972, art. 1, comma 3 e art. 16, comma 1, ed ora D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 3 e art. 19, comma 1, lett. f), e la loro mancata impugnazione rende definitivi la categoria, la classe e la rendita con essi attribuiti agli immobili.
Le variazioni delle risultanze catastali definitive non dovute a mutamenti dello stato o della destinazione dei beni, individuati quali circostanze storicamente sopravvenute, od a correzioni di errori materiali di fatto, anche se sollecitate all’ufficio dal contribuente non si sottraggono, quindi, conseguendo all’originaria acquiescenza del medesimo alle operazioni catastali, alla regola di carattere generale, funzionale alla natura della rendita catastale di presupposto per la determinazione e la riscossione dei redditi tassabili nei singoli periodi d’imposta, della loro efficacia a decorrere dall’anno d’imposta successivo a quello nel corso del quale le modifiche medesime sono state annotate negli atti catastali (c.d. “messa in atti”), ricavabile dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 2, in forza del quale per ciascun atto d’imposizione devono assumersi le rendite quali risultanti in catasto al primo gennaio dell’anno d’imposizione.
In tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), la regola generale ricavabile dal D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 2, secondo cui le risultanze catastali divenute definitive per mancata impugnazione hanno efficacia a decorrere dall’anno d’imposta successivo a quello nel corso del quale sono state annotate negli atti catastali, patisce eccezione solo se le variazioni costituiscano correzioni di errori materiali nel classamento che sostituiscono, ovvero conseguano a modificazioni della consistenza o della destinazione dell’immobile denunciate dallo stesso contribuente; esse, difatti, trovano applicazione dalla data della denuncia (e ciò in quanto il fatto che la situazione risalga a data anteriore non ne giustifica un’applicazione retroattiva rispetto alla comunicazione effettuata all’Amministrazione) (Cass. 2017 nr. 11844).
Il ricorso va rigettato.
Con riguardo alla richiesta di condanna per lite temeraria formulata dalla controricorrente va premesso che l’istanza di condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., comma 1, può essere proposta anche nel giudizio di legittimità, purchè essa sia formulata, a pena di inammissibilità, nel controricorso (Cass. 27715/2018) e si riferisca a danni conseguenti alla proposizione del ricorso per cassazione.
Ciò posto si osserva che nel caso di specie non risulta provata la concreta ed effettiva esistenza di un danno diverso ed ulteriore rispetto alle ordinarie spese di lite (Cass. n. 13395/2007; n. 21978/2015) quale conseguenza del comportamento processuale della controparte, (Cass. nr. 7581/2019).
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano secondo i criteri del D.M. n. 37 del 2018.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; rigetta la domanda ex art. 96 c.p.c.; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processali che si liquidano in complessivo 1000,00 oltre accessori di legge ed al 15% per spese generali; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione tributaria, il 12 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019