LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 5234/2014 proposto da:
Romagna Est Banca Di Credito Cooperativo Società Cooperativa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Lungoteverere Dei Mellini 24, presso lo studio dell’avvocato Nicoletti Alessandro, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Tedeschi Guido Uberto, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
Giacomelli Sport Spa in Amministrazione Straordinaria, in persona dei Commissari Straordinari pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Antonio Bertoloni 3, presso lo studio dell’avvocato Patrono Manuela, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Degli Occhi Cesare, giusta procura in calce al ricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1995/2013 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 12/11/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2019 da Dott. AMATORE ROBERTO.
RILEVATO
CHE:
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Bologna – in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da Romagna Est Banca di credito Cooperativo e dell’appello incidentale proposto da Giacomelli Sport in amministrazione straordinaria ed in riforma della sentenza emessa in data 1.6.2012 dal Tribunale di Rimini (sentenza con la quale quest’ultimo aveva accolto solo parzialmente la domanda revocatoria avanzata dall’amministrazione straordinaria nei confronti delle impugnate rimesse di natura solutoria affluite nel periodo sospetto sul conto corrente acceso presso il predetto istituto di credito per complessivi Euro 1.563.633,18, oltre interessi legali e maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2) – ha dichiarato inefficaci, ai sensi della L. Fall., art. 67, comma 2, le predette rimesse bancarie per la maggior somma pari ad Euro 3.776.868,58 nel periodo compreso tra il mese di ottobre 2002 e il mese di maggio 2003 e ha, tuttavia, revocato il capo di condanna alla restituzione delle somme da maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2.
Dopo aver respinto le eccezioni preliminari sollevate dall’istituto di credito in relazione alla proponibilità della domanda revocatoria (eccezioni qui riproposte), la corte del merito ha ritenuto fondato l’appello incidentale in riferimento alla dimostrazione della sussistenza del presupposto della scientia decoctionis già dal mese di ottobre del 2002, anzichè dal mese di gennaio del 2003, come accertato invece dal giudice di prime cure, accogliendo la domanda revocatoria per la maggior somma sopra indicata.
2. La sentenza, pubblicata il 12 novembre 2013, è stata impugnata da Romagna Est Banca di credito Cooperativo con ricorso per cassazione, affidato a otto motivi, cui Giacomelli Sport in amministrazione straordinaria ha resistito con controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO
CHE:
1.Con il primo motivo la parte ricorrente, lamentando, a sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione della L. Fall., art. 69 bis, si duole della mancata applicazione in via retroattiva del nuovo regime normativo previsto dalla norma da ultimo ricordata in punto di prescrizione e decadenza dall’azione revocatoria.
2. Con il secondo motivo si declina sempre vizio di violazione di legge in relazione ai principi che governano la prescrizione dell’azione revocatoria fallimentare in riferimento alla consecuzione delle procedure concorsuali.
3. Con un terzo motivo si denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione di legge in ragione della mancata applicazione retroattiva della nuova normativa dettata dalla legge fallimentare in punto di azione revocatoria alle procedure di amministrazione straordinaria.
4. Con il quarto motivo – lamentando, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. Fall., artt. 97 (testo precedente) e 96 (ora vigente) – la parte ricorrente si duole della mancata applicazione dei principi regolanti il giudicato endofallimentare, come tali discendenti dall’ammissione al passivo del credito dell’istituto bancario e dalla conseguente inammissibilità dell’azione revocatoria riguardante il medesimo credito ed il medesimo accertamento già oggetto di verifica in sede di ammissione al passivo, con decisione non opposta e, dunque, passata in giudicato.
5. Con un quinto motivo si articola da parte della società ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, vizio di violazione di legge e falsa applicazione della L. Fall., artt. 67, 45 e art. 2704 c.c. e comunque vizio di inesistenza della motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in relazione alla mancata valutazione della documentazione versata in atti da parte dell’istituto di credito e all’erronea valutazione del profilo della mancanza di data certa riferibile alla medesima documentazione per dimostrare l’affidamento del conto e l’apertura di credito della banca.
6. Con il sesto motivo si declina, anche ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 132 sempre codice di rito, e L. Fall., art. 67, in ordine alla carenza di motivazione per sua intrinseca contraddittorietà in riferimento alla mancata corretta valutazione del profilo dell’allegata esistenza di cd. operazioni bilanciate, che avrebbe diminuito il quantum delle rimesse bancarie revocabili.
7. Con il settimo motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. Fall., art. 67 e art. 1362 c.c. in punto di corretta valutazione del presupposto soggettivo della scientia decoctionis per l’esperibilità dell’azione revocatoria fallimentare. Si osserva da parte del ricorrente che erroneamente i giudici del merito avevano demandato l’accertamento della conoscenza da parte dell’accipiens dello stato di decozione della società oggi in amministrazione straordinaria al C.T.U., il quale aveva, del pari erroneamente, accertato il presupposto soggettivo di revocabilità delle rimesse da una serie di indici indiziari (come i bilanci, il finanziamento in pool, etc.) che, invece, non avevano il grado di concludenza ritenuto dalla Corte territoriale.
8. Con l’ottavo ed ultimo motivo si articola, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vizio di violazione dell’art. 132 medesimo codice, e L. Fall., art. 67 e di carenza assoluta di motivazione sempre in punto di valutazione del profilo della scientia decoctionis. Osserva la parte ricorrente che aveva indicato una serie di documenti dai quali si evinceva che la conoscenza dello stato di decozione del solvens da parte dell’istituto di credito non poteva che essere intervenuta solo nel mese di marzo 2003 e che, sul punto, mancava ogni valutazione ed argomentazione da parte della corte di merito.
9. Il ricorso è infondato.
Ante omnia, va precisato che la generale eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla controricorrente sarà esaminata in relazione ai singoli motivi di censura.
9.1 Già il primo motivo di censura, declinato come mancata applicazione della L. Fall., art. 69 bis, è infondato.
Sul punto occorre richiamare la chiara giurisprudenza espressa da questa Corte di legittimità secondo la quale le modifiche apportate all’istituto della revocatoria fallimentare a seguito del D.L. n. 35 del 2005, art. 2, comma 2, (convertito nella L. n. 80 del 2005) si applicano soltanto alle azioni proposte nell’ambito di procedure concorsuali iniziate dopo l’entrata in vigore del decreto stesso, trattandosi di norme innovative che introducono una disciplina diversa per situazioni identiche (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 20834 del 07/10/2010;Cass., Sez. 1, Sentenza n. 24868 del 09/12/2015).
E’ stato invero espressamente spiegato da questa Corte che l’applicazione retroattiva della nuova formulazione della L. Fall., art. 69 bis, introdotta dal D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 è esclusa in base all’art. 150 medesimo decreto, trattandosi – come sopra accennato – di norme innovative che introducono una disciplina diversa per situazioni identiche e ciò, peraltro, manifestamente non contrasta con l’art. 3 Cost., atteso che rientra nella discrezionalità del legislatore stabilire, rispetto a tutti i destinatari che versino in una certa situazione, la decorrenza della data di applicazione di una nuova disposizione di legge ed anche differirne l’entrata in vigore per esigenze di ordine generale (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 267 del 10/01/2007).
Ne consegue che correttamente la sentenza impugnata ha negato l’applicabilità dell’invocato L. Fall., art. 69 bis alla fattispecie in esame.
9.2 Anche il secondo motivo, peraltro genericamente formulato, è infondato perchè destinato a scontrarsi con i principi già affermati da questa Corte di legittimità nella materia in esame.
E’ stato precisato da questa Corte che – in tema di amministrazione straordinaria aperta ai sensi della L. 3 aprile 1979, n. 95 – l’azione revocatoria fallimentare è esperibile solo dalla data del decreto che dispone l’apertura della procedura e la nomina del commissario, essendo quest’ultimo l’unico soggetto legittimato all’esercizio della suddetta azione, con la conseguenza che il relativo termine di prescrizione non decorre dalla dichiarazione dello stato di insolvenza, bensì solo dalla data del decreto di nomina del commissario governativo, ossia dal momento in cui, a norma dell’art. 2935 c.c., il diritto può essere fatto valere (cfr. Cass., Sez. 1, Sentenza n. 13244 del 16/06/2011).
Ne consegue, come necessario corollario, che il relativo termine di prescrizione non decorre dalla dichiarazione di insolvenza, bensì solo dalla data del decreto di nomina del commissario governativo, ossia dal momento in cui, a norma dell’art. 2935 c.c., il diritto può essere fatto valere (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 17200 del 29/07/2014).
Sul punto va aggiunto che non può non rilevarsi nelle deduzioni difensive della parte ricorrente un’evidente confusione concettuale tra l’indicazione del dies a quo di decorrenza del periodo sospetto ed il dies a quo di decorrenza della prescrizione della relativa azione revocatoria, ciò che rende viepiù non apprezzabile la censura così mossa alla sentenza impugnata.
Deve essere infatti chiarito che, in tema di revocatoria fallimentare, l’art. 2935 c.c., nello stabilire che la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere, attiene al termine (nella specie quinquennale, a far tempo dalla apertura del fallimento) fissato per l’esercizio dell’azione, non anche alla delimitazione del periodo sospetto, di cui alla L. Fall., art. 67, e alla conseguente identificazione degli atti revocabili al suo interno, per le quali, nell’ipotesi di consecuzione di procedure concorsuali, il computo a ritroso di tale periodo decorre dalla data di ammissione alla prima procedura (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5527 del 14/03/2006).
9.3 Il terzo motivo, articolato come censura di violazione di legge (della quale, peraltro, non specifica la norma della cui erronea applicazione si denunzia il vizio), presenta profili di infondatezza e di inammissibilità, per le medesime ragioni già spiegate in relazione al sopra esposto primo motivo.
Sotto il primo profilo, la sentenza impugnata ha in realtà correttamente applicato i principi già sopra menzionati espressi da questa Corte di legittimità in punto di inapplicabilità retroattiva della nuova disciplinata dettata in materia di revocatoria fallimentare, secondo quanto espressamente disposto dalla norma transitoria dettata dal D.Lgs. n. 5 del 2006, art. 150.
Sotto altro profilo, va necessariamente rilevato che la dedotta doglianza, in punto di soluzione di continuità tra le due procedure (consecuzione), rappresenta censura nuova, non dedotta nei precedenti gradi di giudizio e dunque irrimediabilmente inammissibile.
9.4 Il quarto motivo è anch’esso infondato.
Non ricorre invero nel caso di specie l’invocata violazione del giudicato “endofallimentare” e la conseguente inammissibilità della proposta azione revocatoria in riferimento alle impugnate rimesse solutorie affluite sul conto corrente, il cui credito residuo è stato oggetto di ammissione al passivo della società oggi in amministrazione straordinaria.
Orbene, va precisato che, come già affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, la definitiva ammissione al passivo del fallimento di un credito residuo rispetto ad altro precedentemente soddisfatto non preclude la revocabilità dei pagamenti parziali già definiti, e ciò in quanto l’ammissione al passivo del credito residuo, ancorchè in via definitiva e senza riserve, non preclude al curatore l’esperimento dell’azione revocatoria con riguardo agli atti estintivi delle maggiori ragioni del creditore, considerato che la detta ammissione implica un accertamento circa la sussistenza del titolo giustificativo di quel residuo, ma non anche circa l’insussistenza di un credito più consistente, e quindi prescinde da indagini sulla validità ed opponibilità alla massa dei pagamenti parziali antecedenti, lasciando impregiudicate le relative questioni (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 10429 del 18/05/2005; Cass. sentenza n. 11647 del 18.5.2007).
Nel caso in esame l’ammissione al passivo, non contrastato dagli organi dell’amministrazione straordinaria, ha avuto ad oggetto proprio il residuo credito nascente dalla movimentazione del conto corrente accesso presso l’istituto di credito oggi ricorrente, di talchè tale ammissione non preclude la richiesta di revoca dei precedenti pagamenti parziali già definiti ed effettuati sul conto corrente attraverso rimesse solutorie, in quanto rappresentativi di atti estintivi delle maggiori ragioni del creditore.
Sul punto qui da ultimo in discussione, la giurisprudenza di vertice di questa Corte (Sez. U, Sentenza n. 16508/2010, del 14/07/2010) ha evidenziato la peculiarità del caso in cui venga ammesso al passivo del fallimento un credito residuo, rispetto ad altro già soddisfatto in attuazione di un medesimo contratto. In tali ipotesi, infatti, l’accertamento dell’esistenza di una posizione creditoria da parte del giudice determina un effetto preclusivo esclusivamente per quanto concerne l’avvenuta quantificazione del credito ammesso, senza tuttavia che tale effetto possa essere esteso anche agli adempimenti precedentemente intervenuti e per i quali, conseguentemente, non era stata formulata alcuna richiesta di ammissione. Invero, l’identità del titolo posto a base di quest’ultima istanza con quello in ragione del quale erano stati in precedenza effettuati i versamenti dovuti non è sufficiente per configurare una preclusione rispetto all’esercizio di un’azione finalizzata alla declaratoria di inefficacia dei detti versamenti, e ciò in quanto in sede di ammissione l’indagine del giudice delegato è limitata all’esame dell’esistenza delle condizioni necessarie per l’accoglimento della relativa richiesta e non si estende, al contrario, ad una verifica relativa all’opponibilità alla massa dei pagamenti parziali antecedenti, pagamenti che fra l’altro costituiscono atti giuridici del tutto autonomi fra loro e pertanto potenzialmente oggetto, di per sè, di azione revocatoria (così, sempre Sez. U, n. 16508/2010, cit. supra).
La giurisprudenza richiamata dalla parte ricorrente riguarda, invero, l’ipotesi – diversa da quella oggi in esame – in cui il creditore si sia insinuato al passivo per una somma minore di quella originaria in ragione della compensazione parziale con un controcredito del fallito. Ipotesi quest’ultima positivamente scrutinata anche nella sentenza a Sezioni Unite da ultimo ricordata, secondo la quale, verbatim, “Quando il creditore richiede l’ammissione al passivo per un importo inferiore a quello originario deducendo la compensazione, l’esame del giudice delegato investe il titolo posto a fondamento della pretesa, la sua validità, la sua efficacia e la sua consistenza. Ne consegue che il provvedimento di ammissione del credito residuo nei termini richiesti comporta implicitamente il riconoscimento della compensazione quale causa parzialmente estintiva della pretesa, riconoscimento che determina una preclusione endofallimentare, che opera in ogni ulteriore eventuale giudizio promosso per impugnare, sotto i sopra indicati profili dell’esistenza, validità, efficacia, consistenza, il titolo dal quale deriva il credito opposto in compensazione” (Sez. U, n. 16508 del 14/07/2010, cit. sopra).
9.5 I quinto motivo di doglianza è invece inammissibile.
Osserva la Corte come la parte ricorrente – per dimostrare l’erroneità della decisione impugnata (laddove quest’ultima aveva affermato il mancato assolvimento da parte della banca dell’onere di provare l’affidamento del conto corrente) – abbia richiamato del tutto genericamente i “numerosi documenti” versati in atti ed anche, allorquando ne ha indicato la “posizione” processuale (per come allegati alla memoria ex art. 183 c.p.c., comma 6, n. 2), non ne abbia comunque descritto compiutamente il contenuto, al fine di consentirne la valutazione in ordine alla rilevanza probatoria in giudizio.
Ne consegue che tale generica ed indistinta allegazione non consente di accertare da parte di questa Corte la validità della censura difensiva, articolata come violazione della L. Fall., artt. 67 e 45 e art. 2704 c.c., in riferimento all’affermata mancata corretta valutazione da parte della corte di merito della sopra indicata documentazione.
Sul punto la giurisprudenza di questa Corte ha precisato, in tema di ricorso per cassazione, che la verifica dell’osservanza di quanto prescritto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) deve compiersi con riguardo ad ogni singolo motivo di impugnazione e la mancata specifica indicazione (ed allegazione) dei documenti sui quali ciascuno di essi, eventualmente, si fondi può comportarne la declaratoria di inammissibilità quando si tratti di censure rispetto alle quali uno o più specifici atti o documenti fungano da fondamento, e cioè quando, senza l’esame di quell’atto o di quel documento, la comprensione del motivo di doglianza e degli indispensabili presupposti fattuali sui quali esso si basa, nonchè la valutazione della sua decisività, risulterebbero impossibili (Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013).
Va anche aggiunto che la parte ricorrente ha pretermesso qualsiasi censura sia sul rilievo della mancanza di data certa della lettera di affidamento sia sull’ulteriore assorbente profilo – pur affermato nella sentenza impugnata – della tardività della produzione documentale in esame (per essere stata la stessa allegata solo in sede di esperimento della C.T.U. contabile), con ciò rendendo ancora più evidente l’inammissibilità della censura così proposta dalla parte ricorrente.
9.6 Il sesto motivo – declinato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, come mancanza di motivazione – è, invece, infondato.
Non è condivisibile ritenere, seguendo la prospettiva difensiva del ricorrente, che si sia in presenza di una motivazione, sul punto qui da ultimo in esame (esistenza delle cd. operazioni bilanciate), solo apparente e, dunque, inesistente.
Invero, la corte di merito ha correttamente indicato le ragioni ostative all’identificazione di operazioni bilanciate che escludevano, dunque, la natura solutoria delle rimesse bancarie, affermando la mancata prova da parte dell’istituto di credito dei presupposti applicativi dell’istituto invocato e facendo, dunque, buon governo dei principi espressi da questa Corte in subiecta materia.
Sul punto giova ricordare che, in tema di revocatoria fallimentare delle rimesse in conto corrente bancario affluite su un conto scoperto, per potersene escludere la dichiarazione di inefficacia, in quanto dipendenti da operazioni bilanciate, è necessario il venir meno della funzione solutoria delle stesse, in virtù di accordi intercorsi tra il “solvens” e l'”accipiens”, che le abbiano destinate a costituire la provvista di coeve o prossime operazioni di pagamenti o prelievi mirati in favore di terzi o del cliente stesso, in modo tale da poter negare che la banca abbia beneficiato dell’operazione sia prima, all’atto della rimessa, sia dopo, all’atto del suo impiego; la prova dell’esistenza dei predetti accordi, che giovino a caratterizzare la rimessa, piuttosto che come operazione di rientro, come una specifica provvista per una operazione speculare a debito, in relazione ad un ordine ricevuto ed accettato o ad una incontestata manifestazione di volontà, ove non derivi da un atto scritto, può anche essere desunta da “facta concludentia”, purchè la specularità tra le operazioni ne evidenzi con certezza lo stretto collegamento negoziale (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 19751 del 09/08/2017; Sez. 1, Sentenza n. 17195 del 29/07/2014).
Orbene, la motivazione impugnata ha correttamente spiegato (in linea con la giurisprudenza da ultimo ricordata) che, per il venir meno della funzione solutoria delle rimesse, occorre fornire la prova proprio degli accordi che abbiano destinato le rimesse a costituire la provvista delle operazioni di prelievo ovvero di pagamenti in favore di terzi. E di tale accordo – precisa la Corte territoriale – non era stata fornita la prova. Nè – prosegue ancora il giudice di appello sussisteva corrispondenza degli importi tre le operazioni di segno opposto.
9.7.8 n settimo ed ottavo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente (in quanto volti ad esaminare e contestare entrambi il profilo della scientia decoctionis dell’accipiens), presentano invece profili di censura inammissibili in quanto volti a sollecitare la Corte ad una rilettura degli atti istruttori indirizzata ad una nuova valutazione del merito della decisione.
Orbene, è sempre utile ricordare che spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllare l’attendibilità e la concludenza delle prove, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova. Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità.
Si vorrebbe, cioè, dimostrare tramite la rivisitazione del contenuto della documentazione allegata che non era conoscibile lo stato di decozione della società in amministrazione straordinaria prima del mese di marzo del 2003, e ciò a fronte di una motivazione che, con argomentazioni coerenti ed esaustive, ha invece spiegato che la conoscenza da parte della banca, come operatore qualificato, anche solo della relazione trimestrale di bilancio del 30 settembre 2002 e delle circostanze che avevano portato al finanziamento “in pool” rappresentava un sicuro indice di consapevolezza dello stato di dissesto patrimoniale e finanziario del solvens, conoscenza acquisita dalla ricorrente, dunque, già dal mese di ottobre del 2002.
Ne consegue il complessivo rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da separato dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della contro-ricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 16.200 (di cui Euro 200 per esborsi), oltre spese forfettarie ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019