LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –
Dott. SCOTTI Umberto L.C.G. – Consigliere –
Dott. MELONI Marina – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 22847/2017 proposto da:
Banca Sella S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Largo Giuseppe Toniolo n. 6 presso lo studio dell’avvocato Morera Umberto che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati D’Arrigo Marco, Cagnasso Oreste, Montalenti Paolo, giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
A.d.C.F., S.G.A.d.C.G., S.F., elettivamente domiciliati in Roma, Corso Vittorio Emanuele II n. 141 presso lo studio dell’avvocato Consolo Claudio che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato Caprioli Vincenzo, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale condizionato;
– controricorrenti e ricorrenti incidentali –
contro
Banca Sella S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Largo Giuseppe Toniolo n. 6 presso lo studio dell’avvocato Morera Umberto che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati D’Arrigo Marco, Cagnasso Oreste, Montalenti Paolo, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 318/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 21/03/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/02/2019 dal cons. TERRUSI FRANCESCO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale;
uditi per il ricorrente l’Avvocato Cagnasso e l’Avvocato Montalenti, che hanno chiesto si riportano;
uditi per il controricorrente l’Avvocato Consolo e l’Avvocato Guizzi (con delega), che hanno chiesto, riportandosi, il rigetto del ricorso.
FATTI DI CAUSA
Con atto notificato il 28 e il 30-5-2011 A.d.C.F., S.A.d.C.G. e S.F. convenivano dinanzi al tribunale di Lecce la Banca Sella s.p.a. e la Banca Sella Sud A.G., onde sentir accertare la validità e l’efficacia del recesso dalla seconda società a seguito dell’incorporazione nella prima, e onde ottenere di conseguenza la condanna della prima alla determinazione del valore di liquidazione delle loro azioni.
Nella resistenza delle società l’adito tribunale accoglieva le domande.
Proponeva appello l’incorporante Banca Sella s.p.a., censurando la decisione di primo grado sia in ordine alla ritenuta competenza territoriale, sia in ordine al merito.
La corte d’appello di Lecce rigettava l’impugnazione, in sintesi (e per quanto rileva) osservando che gli attori avevano fatto due dichiarazioni di recesso, la prima delle quali tuttavia erronea in quanto facente riferimento al recesso da Banca Sella s.p.a., di cui i predetti non erano soci. Di contro era valida la seconda dichiarazione, correttamente notificata il 19-5-2011 alla sola Banca Sella Sud A.G. e idonea a manifestare l’intenzione dei soci di avvalersi del diritto di recesso ex art. 2437 c.c. in un momento in cui la società destinataria non era ancora estinta.
La corte territoriale riteneva con ciò radicata la competenza in Lecce, in base al criterio del foro di perfezionamento del recesso, e osservava, peraltro che il principio del forum destinatae solutionis (art. 20 c.p.c.) non potesse applicarsi in relazione al luogo in insorgenza di un’obbligazione diversa da quella avente a oggetto il pagamento di somme di denaro.
Nel merito la corte d’appello riteneva integrata l’ipotesi di compressione dei diritti di partecipazione dei soci ai sensi dell’art. 2437 c.c., comma 1, lett. g), visto che a seguito della fusione per incorporazione vi era stata una modificazione dello statuto con significativa elevazione dei limiti di riserva legale, del tetto di accantonamento e del limite di riserva statutaria straordinaria, con correlata penalizzante incidenza sulla possibilità di distribuire dividendi.
Per la cassazione della sentenza Banca Sella ha proposto ricorso affidato a due motivi.
Gli intimati hanno replicato con controricorso e proposto, a loro volta, due motivi di ricorso incidentale condizionato.
Le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
I. – Col primo motivo la Banca Sella censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 2, per avere erroneamente affermato la competenza del foro di Lecce anzichè di quello di Biella (oggi di Torino), corrispondente alla sede di essa Banca.
Il motivo è infondato.
Dalla motivazione risulta – e non è oggetto di contestazione – che gli attori avevano formulato due domande: l’una di accertamento (della legittimità ed efficacia del loro recesso da Banca Sella Sud A.G.), l’altra di condanna (dell’incorporante Banca Sella a liquidare il valore delle azioni detenute).
La prima domanda, formulata contro entrambe le società e implicante l’obbligazione di pagamento in capo all’incorporante, supponeva di considerare come luogo di insorgenza della suddetta consequenziale obbligazione (art. 20 c.p.c.) quello di avvenuto esercizio del recesso, e la corte territoriale ha ritenuto radicata la competenza in Lecce in base a tale criterio (quello, appunto, del foro di perfezionamento del recesso).
Secondo l’art. 38 c.p.c., l’incompetenza per materia, quella per valore e quella per territorio sono eccepite, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata. L’eccezione di incompetenza per territorio, in particolare, si ha per non proposta se non contiene l’indicazione del giudice che la parte ritiene competente.
Dalla trascrizione riportata nel controricorso (collimante con i dati di causa) emerge che l’eccezione di incompetenza territoriale era stata formulata, nella comparsa di risposta dell’attuale ricorrente, con riferimento agli artt. 19 e 20 c.p.c., ma in relazione (i) al foro generale delle persone giuridiche, che si era detto doversi parametrare alla sede di Banca Sella (in *****), (ii) al foro facoltativo per i diritti di obbligazione, che si era detto inapplicabile “per non avere le parti dedotto in giudizio alcun diritto di obbligazione di natura contrattuale e/o extracontrattuale”.
Per converso l’art. 20 era certamente applicabile al caso di specie, poichè riguardante tutte le cause relative a diritti di obbligazione (fossero implicate da azioni di accertamento, costitutive o di condanna), e niente era stato dedotto con riguardo alla competenza relativa alla prioritaria domanda di accertamento della legittimità del recesso, che era stata avanzata in relazione alla posizione dell’altra convenuta Banca Sella A..
Questa – è confermato nell’attuale ricorso – era stata coinvolta nella causa in quanto non ancora estinta al momento della notificazione della dichiarazione di recesso.
Ne consegue che non era stato contestato il foro facoltativo con riguardo al luogo in cui l’obbligazione era sorta, da identificare in quello nel quale si era perfezionata la dichiarazione unilaterale di recesso da Banca Sella A..
Per giurisprudenza costante, l’eccezione di incompetenza per territorio impone di contestare la sussistenza del foro del giudice adito, e di conseguentemente indicare il giudice competente, con riferimento a tutti i concorrenti criteri previsti dagli artt. 18,19 e 20 c.p.c. (ex aliis Cass. n. 24277-07, 25891-10). L’incompletezza della formulazione dell’eccezione è controllabile anche d’ufficio dalla Corte di cassazione (Cass. n. 13202-11). Essa suppone di considerare l’eccezione medesima come non proposta e radica, pertanto, la competenza presso il giudice adito (Cass. n. 5725-13, Cass. n. 24094-14, Cass. n. 6380-18 e molte altre).
II. – Col secondo motivo di ricorso la Banca Sella denunzia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2437 c.c., lett. g), sul cui presupposto è stata accolta la domanda di merito. Assume la necessità di interpretare la disposizione in senso restrittivo, per modo da riferire il pregiudizio legittimante l’esercizio del recesso ai soli diritti partecipativi dei soci in effetti esistenti, non anche invece alle mere aspettative quali sono (o sarebbero) quelle relative alla distribuzione degli utili di esercizio. Da questo punto di vista la ricorrente sostiene che l’art. 33 dello statuto della società risultante dalla fusione non implicava alcun mutamento della quota di partecipazione agli utili delle diverse categorie azionarie, nè dei diritti incorporati nell’azione. E in ogni caso nega che gli attori abbiano subito un pregiudizio dalla previsione statutaria di minore distribuzione degli utili, giacchè l’apparente pregiudizio sarebbe stato “ampiamente compensato dall’aumento del valore patrimoniale” automaticamente derivante dalla minore distribuzione.
Per analoghe ragioni la ricorrente censura la sentenza anche nella parte in cui ha ritenuto possibile correlare il recesso all’ipotesi di esistenza di un danno solo riflesso, risultante dalla deliberazione.
III. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
In particolare è inammissibile nel rilievo di asserita inesistenza di un pregiudizio (per i soci) derivante dalla previsione statutaria, per essere la minore distribuzione degli utili compensabile con l’aumento del valore della loro partecipazione.
Da questo punto di vista il ricorso postula invero una critica de facto, notoriamente insuscettibile di trovare ingresso in questa sede.
IV. – Il motivo è invece infondato sul piano della prospettazione giuridica.
Deve preliminarmente osservarsi che non pertiene al caso di specie la recente pronuncia con la quale questa Corte ha affermato che, in tema di recesso dalle società di capitali, la delibera assembleare che muti il quorum per le assemblee straordinarie, riconducendolo a previsione legale, non giustifica il diritto del socio al recesso ex art. 2437 c.c., lett. g), (Cass. n. 13875-17).
La sentenza è stata invocata dalla difesa di parte ricorrente a presunto sostegno della necessità di interpretare restrittivamente l’art. 2437, lett. g).
Nondimeno il riferimento non giova, in quanto del tutto diversa è la fattispecie sottostante.
A fronte di una delibera che aveva mutato il quorum per le assemblee straordinarie, la sentenza citata ha messo in luce che l’interesse della società alla conservazione del capitale sociale prevale sull’eventuale pregiudizio di fatto subito dal socio, che non vede inciso, nè direttamente nè indirettamente, il suo diritto di partecipazione agli utili e il suo diritto di voto a causa del mutamento del quorum. Sul che non sembra esserci questione, visto che l’art. 2437 c.c., lett. g), allude – per consolidata opinione – a una modifica avente incidenza diretta sui diritti di voto o di partecipazione. Ed è ovvio che una variazione semplicemente riguardante i quorum assembleari non possiede tali caratteristiche.
Il caso concreto è ben diverso, giacchè la fattispecie, in base alla sentenza, si atteggia nel seguente modo: a fronte della versione statutaria di Banca Sella Sud A., che consentiva di distribuire dividendi previa destinazione di almeno il 5 % a riserva legale e di un ulteriore 5 % a riserva straordinaria, lo statuto di Banca Sella (incorporante) consente di distribuire dividendi solo previa elevazione delle percentuali destinate sia a riserva legale (12 %) che a riserva statutaria straordinaria (40 %), e con aumento del tetto di accantonamento complessivo della riserva legale medesima dal 20 % al 40 %.
V. – Ora la proposta esegesi restrittiva dell’art. 2437 c.c., lett. g), per quanto condivisibile nel senso che segue, non può essere spinta fino al punto sostenuto dalla ricorrente, e quindi non rende erronea l’affermazione del giudice d’appello in ordine all’apprezzabile incidenza della modificazione statutaria sui diritti di partecipazione dei soci.
La previsione risponde alla ratio di tutelare i soci di minoranza.
Essa si inscrive all’interno di una rivisitazione del regime del recesso imposta dalla legge delega n. 366 del 2001 – art. 4,comma 9, lett. d), e art. 3, comma 1, lett. f) – col fine di rafforzare, certo, il potere della maggioranza, e conseguentemente comprimere le possibilità di veto delle minoranze, ferma però la necessità di riequilibrare gli interessi in gioco mediante un coerente rafforzamento pure dei diritti individuali dei soci, in vista del possibile disinvestimento della partecipazione.
In questa prospettiva si colloca l’ampliamento operato dal legislatore della riforma rispetto alla marginalità di spazio caratterizzante la versione originaria dell’art. 2437 c.c..
VI. – L’ampliamento delinea una tripartizione delle cause di recesso, per comune opinione suscettibili di essere distinte in legali inderogabili, legali derogabili e statutarie.
La fattispecie di cui all’art. 2437 c.c., lett. g), facente riferimento alle “modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione”, rientra nel novero delle cause legali inderogabili di recesso. E per quanto da ciò sia legittimata una esegesi restrittiva della formulazione, insistere su tale circostanza non è proficuo nel caso di specie.
Finanche seguendosi il dibattito dottrinale sul tema, è un fatto che l’invocata interpretazione restrittiva serve solo a supportare la necessità di una lettura sufficientemente definita della locuzione normativa, onde evitare che ogni modificazione statutaria, per sua natura destinata a riverberarsi sulla posizione del socio, finisca poi col divenire un presupposto per recedere dalla società.
Questo nulla toglie, però, al chiaro riferimento della norma all’incidenza della modifica statutaria sui diritti di partecipazione, quale ragione di recesso. Il che è confermato proprio dal dibattito dottrinale da tempo in atto sulla norma, dibattito nella sostanza diversificato sul prevalente profilo dei diritti di voto, non su quello dei diritti all’utile.
Una contrapposizione di orientamento può dirsi giustificata in relazione al tema se ai fini dell’art. 2437, lett. g), debbano considerarsi compresi tra i diritti di voto solo gli specifici diritti a ciò correlati, ovvero anche i diritti amministrativi o corporativi; oppure se i diritti amministrativi diversi dal voto siano eventualmente da includere tra i diritti di partecipazione.
Non anche, invece, nell’ottica dei diritti patrimoniali.
Prefigurare distinzioni non rileva granchè nell’odierna fattispecie, nel senso che può discutersi se con l’espressione “diritti di partecipazione” si abbia a intendere anche i diritti amministrativi; e un’interpretazione restrittiva può anche portare a escluderlo; ma non è dubitabile che l’espressione si riferisca in ogni caso ai diritti patrimoniali, perchè tali sono, nella società di capitali, quelli implicati dal diritto di partecipazione.
Il fine stesso della partecipazione è quello di giungere alla soddisfazione, mediante la distribuzione dell’utile, di un interesse patrimoniale. Sicchè appare consequenziale che una modifica statutaria, relativa alla distribuzione dell’utile, rientri in pieno tra le cause legali inderogabili di recesso.
VII. – Non interessa sottolineare – come fatto dalla ricorrente – che il diritto individuale del singolo azionista a conseguire l’utile di bilancio sorge soltanto se e nella misura in cui la maggioranza assembleare ne disponga l’erogazione ai soci – mentre, prima di tale momento, vi è una semplice aspettativa, potendo l’assemblea sociale impiegare diversamente gli utili o anche rinviarne la distribuzione all’interesse della società.
Tale principio, da questa Corte più volte affermato (v. indicativamente Cass. n. 2959-93, Cass. n. 2020-08), è certamente valido e da mantenere ben saldo.
Solo che non giustifica quanto sostenuto dalla ricorrente sul piano delle inferenze sul diritto di recesso.
Difatti la modifica (nel senso accertato dalla corte d’appello) della clausola statutaria attinente alla distribuzione dell’utile influenza direttamente – e in negativo – i diritti patrimoniali dei soci perchè, prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio, in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva, finisce per limitare la stessa libertà dell’assemblea ordinaria di deliberare sul punto. E dunque altera le correlate prerogative degli azionisti.
In simile condizione la ragione del diritto di recesso non può esser messa seriamente in discussione.
VIII. – In ultimo va osservato che non influisce sul tema la previsione dell’art. 56 del T.u.b. (D.Lgs. n. 385 del 1993), secondo la quale le modificazioni statutarie delle banche non possono contrastare coi principi di sana e prudente gestione.
Parte ricorrente ha richiamato (in memoria) tale previsione per dire che sarebbe insostenibile che una modificazione statutaria così finalizzata, approvata dalla Banca d’Italia, finisca per pregiudicare “in senso peggiorativo e direttamente” un diritto di partecipazione.
L’affermazione è nella sua astrattezza priva di qualsiasi utilità.
Dinanzi a una causa legale e inderogabile di recesso, tale definibile in base alla conformazione legislativa, è assolutamente irrilevante che la modificazione statutaria sia o meno coerente con le regole di gestione bancaria. Quel che unicamente rileva ai fini dell’exit è la prospettiva del socio, e non può affermarsi che la deliberazione concretamente incidente sul diritto di partecipazione – nel senso qui accertato in fatto dal giudice del merito – cessi di esser tale perchè in qualche misura imposta dalle regole patrimoniali il cui rispetto si richiede alle banche.
IX. – Il ricorso principale è rigettato.
Va affermato il seguente principio: “in tema di recesso dalla società di capitali, l’espressione “diritti di partecipazione” di cui all’art. 2437 c.c., lett. g), per quanto nell’ambito di una interpretazione restrittiva della norma tesa a non incrementare a dismisura le cause legittimanti l’exit, comprende in ogni caso i diritti patrimoniali implicati dal diritto di partecipazione, e tra questi quello afferente la percentuale dell’utile distribuibile in base allo statuto; ne consegue che la modifica di una clausola statutaria direttamente attinente alla distribuzione dell’utile, che influenzi in negativo i diritti patrimoniali dei soci prevedendo l’abbattimento della percentuale ammissibile di distribuzione dell’utile di esercizio in considerazione dell’aumento della percentuale da destinare a riserva, giustifica il diritto di recesso dei soci di minoranza”.
Il ricorso incidentale condizionato resta assorbito.
Le spese processuali seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale, dichiara assorbito l’incidentale e condanna la ricorrente principale alle spese processuali, che liquida in 10.200,00 EUR, di cui 200,00 EUR per esborsi, oltre accessori e rimborso forfetario di spese generali nella percentuale di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019